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America latina: un cammino “progressista” in salita

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11/04/2023

Marco Consolo

Dopo le ultime tornate elettorali in America Latina, in Europa sono molte le aspettative a sinistra sulla situazione dei governi progressisti dell’America Latina e sulla loro possibilità di realizzare trasformazioni strutturali.  Le destre, infatti, hanno perso diversi governi in tutto il continente, e sono rimasti con Paesi “secondari” nello scacchiere regionale (Ecuador, Uruguay, Paraguay, Panama, El Salvador, Guatemala, Costa Rica ed oggi anche il Perù). A parte il Venezuela e Cuba che sono un caso a parte, tutti i principali Paesi del continente sono oggi governati da coalizioni “progressiste”, a partire dal gigante Brasile, passando per Messico, Argentina, Colombia, Cile, Bolivia e Honduras…

Molti analisti hanno parlato di una “seconda ondata progressista”, dopo quella degli anni passati, in cui si erano distinte le figure di Hugo Chavez, Lula, Evo Morales, Rafael Correa ed altri. Ma la situazione è molto diversa dal passato, e cerco di spiegare perché, a partire da alcuni nodi politici decisivi che questi nuovi governi stanno affrontando e che, ancor di più, dovranno affrontare in futuro.

In un mondo in aperta transizione verso un nuovo ed accelerato riassetto multipolare, la prima differenza col passato è la presenza di una crisi multifattoriale mondiale, in particolare economica, ambientale e alimentare. Una crisi che viene da lontano, ma che si è acuita sensibilmente prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina. Nessun Paese ne è indenne ed il continente latino-americano è tra i più esposti, per diversi motivi. La CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi) delle Nazioni Unite, parla di una crescita limitata all’1% per il 2023. In un quadro di legislazioni fiscali fortemente regressive ed in mancanza di profonde riforme del regime tributario, le risorse a disposizione (e i margini di manovra) per le politiche pubbliche che possano colmare le distanze sociali sono quindi fortemente ridotte.

Nei giorni scorsi, si è svolto un vertice virtuale dei presidenti latinoamericani e caraibici alla ricerca di alternative per combattere l’inflazione e rafforzare le economie dei loro Paesi. L’incontro, denominato “Alleanza dei Paesi latinoamericani e caraibici contro l’inflazione”, è stato convocato dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador.

Hanno preso parte all’incontro i presidenti di Argentina, Alberto Fernández; Bolivia, Luis Arce; Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva; Cile, Gabriel Boric; Colombia, Gustavo Petro; Cuba, Miguel Díaz-Canel; e Honduras, Xiomara Castro. Erano presenti anche i primi ministri del Belize, Johnny Briceño, e di Saint Vincent e Grenadine, Ralph Gonsalves, oltre a un rappresentante del Venezuela. Tra i Paesi che hanno partecipato all’incontro virtuale, l’Argentina è quello che si trova ad affrontare la situazione più difficile, con un tasso di inflazione annuale record del 100%, mentre l’escalation dei prezzi di beni e servizi non si arresta da un decennio.

Il secondo nodo politico, su cui c’è ancora molta confusione è la differenza tra governo e potere, ovvero tra stare al governo o avere il potere.  Governare (e quindi con il potere politico) raramente coincide con avere gli altri poteri (finanziario, militare, mediatico, giudiziario, etc.).  Lo sa chi ha subito un golpe più o meno sanguinoso (a partire dal Cile di Allende, passando per il Brasile di Lula e Dilma Roussef o la Bolivia con Evo Morales, l’Honduras con Manuel Zelaya, etc.). E lo sanno quelli che oggi si scontrano con la contro-offensiva di quelle forze conservatrici e reazionarie che utilizzano tutta la “potenza di fuoco” nei vari campi, per difendere e mantenere i loro privilegi di classe. A proposito di mancato “potere mediatico”, forse i due esempi più eclatanti sono stati la cocente sconfitta nel voto cileno per cambiare la Costituzione ereditata da Pinochet, o il terrorismo mediatico nel caso colombiano contro la “riforma politica” che vorrebbe realizzare il governo di Gustavo Petro.

Il terzo nodo è dovuto alla composizione amplia ed eterogenea delle coalizioni politico-elettorali con cui hanno potuto vincere la battaglia elettorale ed il governo. In Brasile, ad esempio, per poter vincere Lula ha dovuto scendere a patti con il centro politico e con settori conservatori, a partire dal suo Vicepresidente Gerardo Alckmin. Ma vale anche per il Cile del governo di Gabriel Boric che, dopo la sconfitta nel voto sulla nuova Costituzione, ha allargato la sua coalizione alle forze più tradizionali (e screditate) del centro-sinistra. O dell’Honduras dove Xiomara Castro ha dovuto tirare come un elastico la sua coalizione elettorale verso il centro.  Una situazione che obbliga a estenuanti negoziati su ogni possibile riforma ed alla spartizione degli incarichi politici e istituzionali, non sempre ben vista dalla popolazione.

Il quarto nodo, strettamente collegato al precedente, è la mancanza di una maggioranza parlamentare a favore del governo. Una debolezza dovuta sia alle diverse leggi elettorali maggioritarie e a doppio turno, sia al rafforzamento delle destre (in particolare di quelle estreme) che sono cresciute nei diversi Paesi. Anche qui (ammessa e non concessa la volontà politica di trasformazioni più o meno profonde da parte dei governi “progressisti”), i margini di manovra sono molto ristretti. Le conseguenze sono chiare. In Cile, solo poche settimane fa è stata bloccata una timidissima “riforma tributaria” e l’agenda del governo è diventata quella che detta la destra, in particolare sulla “sicurezza” con la recente approvazione di una legge ribattezzata “legge grilletto facile” per le forze dell’ordine. In Colombia, il tentativo di “riforma politica” per rinnovare l’establishment istituzionale non appare neanche all’orizzonte, nonostante gli impegni elettorali dell’attuale governo. O in Perù, dove Pedro Castillo, al di là della sua poca esperienza, dei suoi errori e di una buona dose di ingenuità, si è dovuto scontrare con un Parlamento che gli ha dato filo da torcere dal giorno stesso del suo insediamento e che lo ha estromesso dal suo ruolo di Presidente, contribuendo alla sua carcerazione.

L’altro elemento decisivo è la debole o inesistente mobilitazione dei movimenti sociali, che hanno avuto un ruolo di primo piano prima nella mobilitazione nelle piazze e poi nella vittoria di questi governi. Sono diversi i fattori che concorrono a questo risultato. La “pace sociale” in presenza di un “governo amico”, la sussunzione di settori di movimento in area di governo, una certa “attesa” per vedere cosa farà finalmente il governo ed il disincanto di molti settori per la mancanza di coerenza tra ciò che si promette e ciò che poi si fa. Quando non si mantengono gli impegni presi in campagna elettorale, il fossato tra movimenti sociali ed i governi progressisti è direttamente proporzionale al passare del tempo. In molti Paesi, lungi dal cercare di stabilire sin dall’inizio un’articolazione con i movimenti sociali, seppur critica e conflittuale, i governi fanno appello alla loro mobilitazione quando i poteri forti hanno guadagnato terreno, la frittata è già fatta, e si cerca di correre ai ripari. Per i movimenti, non si tratta di rinunciare alla propria autonomia a favore di una visione “istituzionale” subalterna al governo, né di stare alla finestra a guardare, bensì di avere un ruolo attivo nello scontro di classe che inevitabilmente si apre.

L’altro fattore da tenere da conto è la crescita delle destre, in particolare di quelle più reazionarie e fasciste, a scapito delle destre “liberali” e “moderate” che perdono terreno un po’ ovunque. E’ il caso del Partito Repubblicano in Cile, del bolsonarismo in Brasile, del golpismo boliviano con alla testa i “Comitati civici”, di Javier Milei in Argentina… Lungi dal proporre una “ricetta economica” diversa dal passato, le destre del continente  ripropongono un modello di accumulazione basato su politiche che hanno aggravato, anziché risolvere, i problemi delle grandi maggioranze: riduzione dello Stato con le privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, liberalizzazione dell’economia, firma dei Trattati di Libero Commercio (sia con gli USA che con la UE), etc. Mentre portano avanti revisionismo e “negazionismo” sui crimini delle dittature civico-militari, le destre usano a man bassa il tema “sicurezza”, da tempo loro cavallo di battaglia e priorità delle campagne politiche.

Rispetto alla cosiddetta “Agenda Sicurezza”, leit motiv delle destre non solo in America Latina, la verità è che sono scarse le evidenze statistiche a sostegno del clima di insicurezza e paura che si respira nell’aria. Ma i latifondi mediatici possono creare la “realtà” ed il bombardamento è incessante, anche grazie al monopolio (nel migliore dei casi oligopolio) della produzione e della circolazione delle informazioni. In mancanza di una legislazione che ne limiti lo strapotere, i grandi media sono al servizio degli interessi delle élite e dei loro investimenti, e nelle “reti sociali” gli algoritmi ricreano “realtà” e angoscia in modo uniforme e permanente. D’altra parte, la Storia ci insegna che la criminalità organizzata è stata spesso usata per condizionare o destabilizzare governi sgraditi al capitale.

Più in generale, in America Latina le democrazie soffrono crisi strutturali dal punto di vista dei sistemi politici: crisi di rappresentanza, di credibilità nelle istituzioni (che fa crescere disincanto ed astensionismo), di partecipazione, di affidabilità e di regimi politici presidenzialisti (praticamente in tutti i Paesi del continente), concentrati in una sola persona, il Presidente della Repubblica.

L’anno in corso, quindi, non sarà semplice ed è bene calibrare aspettative e possibili critiche tenendo conto anche di questi fattori. D’altra parte, spesso manca il coraggio per affermare relazioni internazionali a difesa degli interessi delle grandi maggioranze escluse e non inginocchiarsi davanti alle potenze ancora egemoniche, alle multinazionali ed ai “poteri forti” oligarchici, non farsi intimidire dalle campagne di terrore e di cospirazione golpista, legiferare nel settore comunicazioni, battersi apertamente contro quelli che si oppongono sfacciatamente ad una maggiore giustizia sociale, alla possibilità di un’efficace riforma fiscale, a una redistribuzione del reddito.

Rimane poco tempo per agire in maniera coerente, mobilitare i movimenti ed evitare che le destre reazionarie approfittino della debolezza e degli slalom di coloro che oggi governano per riprendere in mano il potere politico, utilizzando la propaganda milionaria veicolata dalle menzogne di mezzi di comunicazione e reti sociali compiacenti.

L’orologio della Storia non fa sconti