25/04/2023
da Il Manifesto
Aldo Tortorella – novantasette anni quest’anno, una biografia straordinaria di partigiano, dirigente comunista, direttore dell’Unità – questo pomeriggio interverrà con un collegamento video alla manifestazione di piazza Duomo a Milano.
Aldo, ho trovato in archivio la lettera che scrivesti al manifesto per aderire al grande corteo che il giornale lanciò nel 1994. Sono passati trenta 25 aprile da allora e in qualche modo si chiude un cerchio: ad aprirlo fu la vittoria di Berlusconi, a chiuderlo oggi c’è al potere una destra apertamente revisionista. Se allora andava male, oggi va peggio.
C’è stata da parte delle forze progressiste una lontananza dai bisogni e dalle aspettative della parte meno protetta della società ed è questo che ha favorito la deriva, prima populista e poi indirizzata verso le ideologie e la demagogia di una destra estrema. La quale è da sempre esperta nell’esasperare paure e pregiudizi di carattere ancestrale: la paura del diverso per il colore della pelle e per altri motivi: origini culturali oppure religiose, scelte nei rapporti personali e sessuali. Si è affermata l’idea – pensiamo all’abolizione dell’articolo 18 dello statuto del lavoro sulla giusta causa nei licenziamenti – che le forze di centro sinistra fossero ormai unicamente dedite alla difesa degli interessi dei ceti abbienti. Così si è chiuso questo cerchio. Naturalmente c’è qualcosa di paradossale: ad avviare questo processo politico che ha spostato gli orientamenti popolari è stato uno degli uomini più ricchi del paese, anche grazie al suo enorme patrimonio, costruito nel modo che la magistratura indaga. Ora la deriva prosegue orientandosi verso forze che operano con capacità demagogica, ma al servizio del mantenimento delle gerarchie sociali date.
Vedi in campo una capacità di reazione sul genere di quella del 1994?
Oggi è diversa, perché è affidata a generazioni nuove. Nel ‘94 erano ancora in campo non voglio dire i residui, ma energie e mentalità formate durante stagioni di riscossa e di avanzata della sinistra, durante gli Anni 70. Le generazioni nuove hanno interessi diversi e esperienze diverse. Credo che la capacità di reazione ci potrà essere se da parte di tutte le forze democratiche e antifasciste si raggiungeranno forme di intesa, e contemporaneamente se si sapranno riconoscere e raccogliere le ansie e le preoccupazioni delle generazioni nuove, a cominciare dalla questione ambientale e dalla situazione del lavoro.
Una situazione fatta di precariato, di salari vergognosamente bassi, dell’incapacità di riconoscere e valorizzare le competenze. Molti giovani laureati sono costretti a andare all’estero per trovare collocazioni adeguate. E questo determina la difficoltà di costruire relazioni stabili, impedisce la stessa costruzione di una famiglia, se la si vuole. Qui deve valere l’impegno, la capacità di iniziativa politica e culturale: la protesta o la ribellione spontanee chiedono obiettivi credibili. Era vero in quel 25 aprile del 1994, ed è vero oggi. È essenziale saper interpretare i sentimenti nuovi che sono oggetto di contesa nel confronto con la destra, e fondamentale sarà la capacità di esprimere in modo corretto, esplicito, una forte, credibile volontà di pace.
Le affermazioni di La Russa su via Rasella secondo te possono essere, banalmente, il frutto di un’ignoranza di parte? In fondo sono tesi da sempre presenti nella pubblicistica storica neofascista.
Certo c’è questa ignoranza, peraltro confessata dal medesimo soggetto usandola per avvalorare le scuse tardive. Ma anche se fosse solo ignoranza di parte sarebbe un’aggravante per una persona che riveste una così alta carica democratica, la seconda dopo quella della presidenza della Repubblica, un ruolo che dovrebbe essere di garanzia. Ma non si tratta solo dell’ignoranza della storia, che è comunque un fatto inaudito, non c’è solo questo, c’è altro.
Può esserci una strategia precisa dietro queste dichiarazioni? Quale?
C’è la volontà ben determinata e precisa di capovolgere la verità storica, di riscrivere la storia della Repubblica. La volontà di cancellare l’antifascismo come fondamento della nuova Italia. Ci fu un errore anche nostro, intendo del movimento antifascista che si divise alla metà del 1947. Volevamo la pacificazione nell’Italia, il che era un obiettivo giusto, ma fu un errore non fondarla, come avvenne per il nazismo in Germania, su una campagna di chiarimento popolare sul fascismo quale crimine e non solo per il razzismo antisemita e il genocidio del popolo ebreo.
Su venti anni di tirannide, dieci erano stati di guerre di aggressione: Etiopia, Spagna, poi Grecia, Francia, Jugoslavia, Urss: generazioni intere mandate a morire per cause ingiuste. Occorreva rendere ben chiare le aberranti matrici ideologiche del fascismo e punire chi si era macchiato di reati orrendi. Anche l’amnistia voluta da un governo unitario antifascista e varata da Togliatti ebbe poi come interpreti giudici compromessi col fascismo stesso. Per medesimi atti di guerra i dirigenti fascisti furono assolti come militari “regolari”, mentre i partigiani vennero condannati quasi come partecipi di bande private.
Migliaia di anni di galera furono comminati ai partigiani. C’è ormai una ampia documentazione di questa vergogna. Va anche detto che in quei tempi i partiti di centro non vollero l’equiparazione dei combattenti partigiani alle formazioni dell’esercito regolare. Questa criminalizzazione del movimento partigiano e dell’antifascismo durò più di un decennio, accompagnata dalla repressione violenta e sanguinosa dei moti popolari operai e contadini. Il risultato fu che si punirono i fascisti in basso e non in alto, e la chiarificazione ideale non ci fu.
Il presidente del senato ha detto anche che «è noto che gli antifascisti rossi non volevano un’Italia libera perché avevano il mito della Russia comunista». Chiedo a te che sei stato un giovane partigiano rosso: non volevi l’Italia libera?
Questa è stata un’altra delle falsificazioni storiche, di cui costui si fa portavoce. In questo caso contro le formazioni Garibaldi che furono meno della metà delle formazioni combattenti. Intanto non erano tutte formate da comunisti, i quali erano spesso in posizioni dirigenti, ma affiancati da esponenti anche di altre forze di sinistra e da ex ufficiali dell’esercito. Furono tutti volontari fedeli alle parole d’ordine del Comitato di liberazione nazionale e del loro comando rappresentato innanzitutto da Luigi Longo. La parola d’ordine dei comunisti fu quella di Togliatti che indicava la strada della «democrazia progressiva», e non più quella della «dittatura del proletariato».
Dunque si tratta di una bugia. Io, come partigiano “rosso”, allora studente universitario precoce, posso testimoniare che ho imparato i concetti fondamentali della democrazia da quello che era il mio comandante, fondatore e capo del Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà, altra realtà unitaria della Resistenza: Eugenio Curiel, membro della direzione del Pci clandestino, autore di saggi importanti sulla «democrazia progressiva». Era un fisico di talento, oltre che di formazione filosofica, espulso dall’Università perché ebreo e assassinato nel ‘45 a Milano dalle Brigate nere.
Hai già sentito questa tesi di La Russa? Non è la stessa che seguì la rottura dell’unità nazionale dal 1948 in avanti?
Certo è la medesima tesi che fu sostenuta e propagandata allora. Fu uno strumento propagandistico per operare una divisione nell’antifascismo e ingenerare la persecuzione anti partigiana.
La presidente del Consiglio Meloni ha voluto ricordare i martiri delle Fosse ardeatine come «italiani». Secondo te, le è più difficile accettare che le vittime fossero antifasciste o che alcuni italiani stavano dalla parte degli assassini?
Naturalmente penso che certi convincimenti per lei derivino da origini politico ideologiche che non ha mai voluto modificare. Anche in questo caso può trattarsi di ignoranza colpevole, ma c’è anche il calcolo: l’intenzione di fare dimenticare le colpe dei fascisti italiani complici dei nazisti e di non commemorare la Resistenza. Ma si tratta di un vero insulto alla quasi totalità dei martiri. Le vittime della rappresaglia alle Fosse Ardeatine «colpevoli solo di essere italiani» erano i pochi detenuti per reati comuni presi dal carcere per raggiungere il numero stabilito per la strage.
Tutti gli altri tra i 335 erano “colpevoli” o di essere ebrei, uccisi per razzismo, oppure uomini impegnati nella resistenza, militari, appartenenti alle forze politiche che si opponevano al fascismo come Partito d’azione, Bandiera rossa, Pci, Psiup, repubblicani, democristiani, massoni anti regime, tutti assassinati in quanto resistenti, partigiani, antifascisti. Assassinati da nazisti tedeschi aiutati da fascisti italiani. Anche questa sortita della presidente del Consiglio va letta nella tendenza di questa destra di affermare una pericolosa restaurazione dall’alto.
Secondo te ha fatto bene la sindaca di Marzabotto a dire che non vuole La Russa alla cerimonia?
Secondo me ha fatto benissimo.
Vorrei chiederti se negli anni immediatamente successivi alla Liberazione tu abbia mai temuto che si sarebbe persa così tanto la memoria dei torti e delle ragioni di allora.
Sono così vecchio che ho potuto assistere al fatto che pochi anni dopo la Liberazione era già iniziata la demonizzazione della Resistenza di cui abbiamo parlato. E la perdita della memoria e della consapevolezza del valore di quella stagione che aveva riconquistato, almeno in parte, la dignità del nostro paese, che dalla guerra voluta da Mussolini era uscito sconfitto e semidistrutto. Ciò che avviene oggi ha radici molto precise. Naturalmente c’è anche il fatto che nella difesa dell’antifascismo – che poi vuol dire difesa della Costituzione – non c’è stata la necessaria coerenza da parte delle forze democratiche. Certamente se la restaurazione oggi è al governo e minaccia di rafforzarsi questo è dovuto al fatto che la battaglia contro le radici delle posizioni reazionarie è stata insufficiente o assente.
La sinistra ha qualche responsabilità per tutto questo? Quali?
Ha la responsabilità molto grande di aver accettato la limitazione dell’antifascismo solo al valore della lotta, certo essenziale, contro la dittatura. Mentre l’antifascismo è stato e dovrebbe riuscire a divenire di nuovo un insieme di ideali positivi, per la trasformazione profonda della società come indica la stessa Costituzione. In questo, dovrebbe anche ritrovare le origini: la Costituzione nasce dalle forze antifasciste, che non intendevano certo restaurare la vecchia democrazia liberale prefascista.
Si voleva una democrazia avanzata, capace di superare le ingiustizie sociali, di garantire a tutti e tutte la cultura e condizioni di vita dignitose. È stata disegnata nel primo articolo della Carta una Repubblica «fondato sul lavoro», e dunque non sul capitale. L’articolo 3 sancisce il principio della democrazia sostanziale oltre che formale. Non sappiamo come avrebbe potuto essere il mondo se, al tempo di Kennedy e di Krusciov, fosse proseguita una politica di coesistenza pacifica e di democratizzazione. Il presidente americano fu assassinato, come poi suo fratello Bob, e Krusciov venne estromesso.
Il governo spinge e spingerà sempre di più per una trasformazione verticistica delle istituzioni, per il presidenzialismo. Che rapporto c’è tra questa idea di riforma costituzionale e il tentativo di smontare le fondamenta storiche della Repubblica?
Un rapporto di causa ed effetto. Se si affermasse la tesi aberrante che la Costituzione non è essa stessa espressione dei valori positivi dell’antifascismo, ogni avventura reazionaria sul modello Orban o Erdogan ne verrebbe semplificata.