01/05/2023
da il Fatto Quotidiano
Abbiamo ripreso questo articolo per far conoscere ai lettori come sono le condizioni dei lavoratori dei Centri commerciali e della Gdo che anche questo 1° Maggio saranno al Lavoro
“Perché protestiamo contro le aperture festive? Solo chi non ha mai lavorato in un negozio o in un centro commerciale può credere alla favola dei turni nelle festività. Siamo perennemente sotto organico, non c’è abbastanza personale per turnare. Io da quando lavoro nel settore non ho mai visto una domenica o un giorno di festa liberi. E ormai sono cinque anni che faccio la commessa”. A raccontare a ilfattoquotidiano.it la sua esperienza come addetta alle vendite per una grande catena di abbigliamento è Milena (nome di fantasia, ndr) e la sua testimonianza è molto simile a quella di molti altri colleghi del settore del commercio e della Gdo che anche questo Primo Maggio saranno al lavoro. “Ho iniziato con un contratto di stage: 40 ore settimanali a lavorare per 500 euro al mese domeniche e festivi compresi. Poi sono arrivati i contratti a tempo determinato. Hai uno stipendio più alto, sì, ma sei precario e quindi non puoi rifiutarti di fare tutti gli straordinari richiesti se non vuoi rischiare di essere lasciato a casa”.
È l’ennesima festa dei lavoratori molto amara per addetti alle vendite, cassieri, commessi, scaffalisti e magazzinieri che lavorano nei negozi, outlet e supermercati sparsi su tutto il territorio nazionale. Molti clienti considerano comode le aperture durante questi giorni di festa, ma spesso ignorano un lato della medaglia oscuro che ha molto a che fare con la compressione dei diritti. Nel giorno in cui il governo Meloni si riunisce per approvare un decreto che tra il resto faciliterà il ricorso al lavoro precario, vale la pena fare il punto sulla situazione e le conseguenze per chi lavora nel comparto. “Le persone non hanno idea di cosa significhi non poter mai passare alcuna festività in famiglia”, racconta Giuseppe (nome di fantasia, ndr), che lavora come scaffalista in una grande catena di supermercati. “Non sanno che molto spesso non è assolutamente vero che guadagniamo di più per lavorare anche durante le feste, dipende dal contratto che hai. I turni sono massacranti, gli orari mai davvero rispettati, capita di non riposare per 12 giorni di fila. Certo, molto dipende dal punto vendita e dal manager che lo gestisce, ma lavorare in questo settore è veramente stressante”.
Le norme sulle aperture – Come si è arrivati a questo punto? Era l’aprile del 2011 e l’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi, sosteneva: “Il Primo maggio è una festa di libertà. Dunque, in centro, è giusto che chi vuol restare aperto possa farlo e chi vuol chiudere chiuda; allo stesso modo, chi vuole lavorare deve poter lavorare, mentre chi preferisce di no è giusto che non lavori”. Pochi mesi dopo, lo scenario ipotizzato dal primo cittadino fiorentino è diventato realtà. Ma solo parzialmente. Perché è vero che da oltre 10 anni in tutta Italia i negozi, supermercati e centri commerciali hanno facoltà di aprire qualsiasi giorno dell’anno, festività incluse, ma i lavoratori molto spesso non hanno la libertà di decidere se lavorare o no. A fine 2011, infatti, il decreto Salva Italia approvato dal governo Monti rese permanente ed estesa a tutto il territorio nazionale la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali già prevista, in via sperimentale per i comuni a vocazione turistica, da una norma del 2006, misura introdotta per favorire l’aumento dell’occupazione. Le proposte di legge per invertire la rotta non sono mancate e, in particolare, durante il primo governo Conte l’allora ministro Luigi Di Maio aveva promesso una limitazione delle aperture. Poi non se n’è fatto nulla. A distanza di oltre 11 anni l’occupazione nei settori interessati è in effetti aumentata, ma non si può non notare che l’incremento è trainato dal ricorso a contratti precari.
I contratti? Tirocini o part-time verticale – Basta fare un breve giro sui vari portali che raccolgono annunci di lavoro per accorgersi che nel settore sono principalmente due le tipologie contrattuali offerte: il tirocinio formativo e il contratto a tempo determinato part-time verticale. Non è affatto un caso e le motivazioni sono piuttosto semplici da individuare: il tirocinio formativo, a fronte di un rimborso spese minimo, che va dai 400 agli 800 euro mensili a seconda della Regione di appartenenza, permette di avere di fatto personale a costo ridotto che può lavorare fino a 40 ore settimanali, inclusi domeniche e festivi, senza alcuna maggiorazione di compenso.
La seconda tipologia contrattuale, invece, quella del contratto a tempo determinato part-time verticale è tra le più utilizzate dalle maggiori catene del commercio e della Gdo perché permettono di avere personale praticamente sempre a disposizione grazie alle cosiddette clausole elastiche e flessibili, che si sottoscrivono separatamente in sede di assunzione contestualmente al contratto e permettono al datore di lavoro di variare sia la collocazione temporale della prestazione che il numero di ore lavorative. Per fare un esempio pratico: grazie a queste clausole un lavoratore può essere assunto con un part-time verticale da 24 ore settimanali e finire per lavorarne anche 50 e più a settimana coprendo i turni aggiuntivi con un preavviso spesso molto scarso. A seconda della contrattazione di secondo livello presente in azienda, lo straordinario può essere retribuito con la maggiorazione spettante, altrimenti le ore di lavoro supplementari finiscono nella cosiddetta “banca ore” e quindi vengono accumulate per poter poi beneficiare successivamente di riposi compensativi.
L’incubo del “tasso di conversione” da raggiungere – Ad aggravare le già precarie condizioni dei lavoratori del settore del commercio, e in particolare di chi lavora nell’ambito della vendita assistita, ci sono però anche altri elementi. Vi siete mai domandati per quale motivo quando entrate nei punti vendita di determinate catene spesso siete quasi “assaliti” da commessi che cercano disperatamente di vendervi qualsiasi cosa? Perché è il loro lavoro potrebbe essere la risposta, ma la realtà è un po’ più complessa. Questi punti vendita, infatti, sono costantemente monitorati da store manager e area manager che vigilano sul raggiungimento di una serie di KPI, degli indicatori di performance che idealmente dovrebbero servire a migliorare le prestazioni di vendita del punto vendita. Questi indicatori, però, molto spesso si trasformano in uno strumento di pressione psicologica nei confronti del lavoratore a causa di obiettivi troppo difficili da raggiungere. Tra i KPI presi in considerazione esiste il Conversion rate, ovvero il tasso di conversione che viene determinato calcolando il rapporto tra il numero di clienti entrati nel negozio e il numero di vendite realizzate.
Miriam lavora nel punto vendita di una importante catena di profumerie internazionale e al raggiungimento di questi KPI è sottoposta ogni giorno: “Il tasso di conversione viene monitorato di ora in ora e quando capitano le giornate ‘no’, con clienti che entrano per passare il tempo senza avere alcuna intenzione di comprare, a quel punto inizia il pressing: chiamate su chiamate, ti chiedono cosa sta succedendo e tu sei “costretta ” a giustificarti – racconta a ilfattoquotidiano.it – “Per me il contapersone è diventato un vero e proprio incubo. Non conto nemmeno le volte che con le mie colleghe siamo entrate in negozio strisciando con le spalle al muro per evitare di essere conteggiate al cambio turno o al rientro della pausa per paura di rientrare nel calcolo del tasso di conversione”.
“Compravo io stessa per aumentare il venduto” – Quello del tasso di conversione non è però l’unico indicatore preso in considerazione, ce ne sono molti altri. Altri due KPI determinanti sono per esempio quello dello scontrino medio, ovvero l’ammontare dell’importo medio per singola vendita, oppure del numero di pezzi per scontrino, entrambi strettamente legati al motivo per cui molto spesso gli addetti alle vendite cercano di proporre tutta una serie di prodotti aggiuntivi in fase di pagamento: l’obiettivo è cercare di raggiungere il target minimo prefissato dall’azienda. “Ero perennemente in ansia, mi è addirittura capitato di acquistare io stessa nel tentativo di aumentare il venduto perché non ero riuscita a raggiungere il target”, racconta Giulia, ex addetta alle vendite di un’importante azienda di make-up. “Io dopo anni sono riuscita a cambiare lavoro, ma se ripenso allo stress e alla pressione che ho subito ho ancora gli incubi”.