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Ma quale (decreto) lavoro? Sfruttamento e precarietà, la ricetta del governo Meloni

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Pochi giorni fa, con 154 voti a favore, 82 contrari e 12 astenuti, il Parlamento ha approvato la conversione in legge del decreto-legge 48/2023, conosciuto ai più come “decreto Lavoro”. Un decreto che aveva davvero poco in favore dei lavoratori, che era stato vergognosamente presentato il Primo Maggio e che avevamo già commentato a caldo il giorno dopo.

Ma vediamo le modifiche intervenute in Aula. Il cardine di questo provvedimento rimane il cavallo di battaglia delle scorse elezioni politiche, ovvero la tanto decantata abolizione del reddito di cittadinanza (RdC) a favore di un depotenziato Assegno di Inclusione. Senza contare le cifre più basse e la platea di beneficiari più ristretta, al contrario di quanto avveniva con le tre offerte lavorative del RdC, con questa nuova normativa si passa ad un’unica “offerta congrua” che può essere o di un contratto indeterminato o di uno determinato ma di durata superiore ai 12 mesi, in questo secondo caso nel raggio di 80km o 2 ore di trasporto pubblico. Un’unica offerta che, a mo’ di ricatto, se rifiutata implica la perdita totale del sostegno, salvo casi speciali come, ad esempio, nel caso di un nucleo familiare con un minore di 14 anni. Infatti, in questo caso, il “ricatto lavorativo” viene ridotto solo sulla scala degli 80km o due ore di trasporto lasciando al beneficiario la possibilità di rifiutare solamente le offerte più distanti. Ma se da un lato con questa nuova misura si riduce ciò che viene pensato e dato per i lavoratori, così non è per il lato delle imprese. È infatti presente il solito ed immancabile esonero contributivo per i datori di lavoro che assumono i detentori dell’assegno di inclusione, nel caso di un contratto indeterminato pari, addirittura, a un esonero del 100% per il primo anno.

Resta e, anzi, si rinvigorisce il taglio del cuneo fiscale, secondo cavallo di battaglia del decreto. Infatti, dopo l’iter parlamentare vi è un ulteriore taglio di quattro punti. Come abbiamo già ribadito svariate volte, il taglio del cuneo è e rimane solo una brillante operazione di marketing per far di tutto tranne che alzare i salari in un paese come l’Italia dove questi sono rimasti sempre estremamente stagnanti negli ultimi 20 anni. Ci sono molti modi per difendere il potere di acquisto di un lavoratore. La riduzione del cuneo resta il più paradossale. Questo perché con la riduzione del cuneo i lavoratori, spesso e volentieri, si sobbarcano il costo stesso della riduzione tramite altre tasse o la riduzione della spesa in servizi, a fronte di favorire un minor costo del lavoro e favorendo in ultima analisi le imprese, piuttosto che se stessi. Per quanto riguarda invece l’ultimo punto trattato a caldo nel nostro post di maggio, anche dopo l’iter parlamentare, nel decreto si aumentano le possibili causali per i rinnovi dei contratti a termine. Una deliberata scelta politica di precarizzazione ulteriore del mercato del lavoro, in una realtà come quella italiana dove la stabilità lavorativa gioverebbe sicuramente al lavoratore e dove i contratti a termine sono strumento di precarizzazione volti a minare il potere contrattuale dei lavoratori stessi.

Va fatto notare a questo punto un ulteriore passaggio di questa nuova legge, quello sull’alternanza scuola-lavoro, di cui abbiamo già evidenziato le intrinseche problematicità. Nella malsana ottica di sfruttamento della società moderna le scuole sono ormai passate da centri del sapere e della crescita personale a meri “diplomifici”. Il fatto che delle modifiche come quelle di cui discuteremo a breve si trovino nel decreto “Lavoro” e non piuttosto in uno con a titolo “Istruzione” o “Scuola” ne è nient’altro che una delle tante prove. I numeri degli infortuni e delle morti di studenti impegnati nell’alternanza sono agghiaccianti: si è passati da 256 denunce di infortunio di alunni nel 2021 a ben 2103 nel 2022, da uno studente morto nel 2021 a due morti nel 2022! In Italia muoiono sul lavoro circa tre persone al giorno. Rendere il luogo di lavoro un posto più sicuro gioverebbe quindi non solo agli studenti definiti dal governo “on the job”, ma anche ai lavoratori tutti. Peccato, però, che la legge non delinei per nulla un cambiamento radicale quale sarebbe necessario. Al contrario, piuttosto che aumentare gli ispettori del lavoro, è un docente coordinatore della progettazione del percorso che avrà il ruolo di seguire passo passo lo studente nelle ore del lavoro così da controllarlo più da vicino. Dal lato delle imprese, invece, queste dovranno compilare semplicemente un “Documento di valutazione dei rischi”, dove spiegare tutte le criticità e i rischi a cui gli studenti saranno forzatamente e gratuitamente sottoposti. Ma la cosa più allucinante è la creazione del Fondo per indennizzare i decessi nei percorsi “on the job”. Ovviamente, la tutela di tutti i lavoratori è sacrosanta. Ma invece di fare ciò che si dovrebbe, ovvero spazzare via uno strumento, quello dell’alternanza scuola-lavoro, utile soltanto all’impresa per reperire lavoro a costo zero, fucina di sfruttamento e disgrazie, cosa fa il Governo? Crea un fondo che rappresenta una completa normalizzazione della morte di studenti su un posto di lavoro, considerando questo fenomeno come una cosa così normale da necessitare un fondo a sé stante.

A questo punto appare chiaro come questa legge sia, come era già apparso chiaro dalla sua prima versione, un chiaro attacco alla classe lavoratrice. Attacco che però va ulteriormente contestualizzato nella realtà italiana, che di fatto è una realtà drammatica. Nel chiarire questo ci può essere di aiuto il Report Statistico Nazionale 2023 della Caritas italiana. Nel 2022 si è registrato un incremento del 4,4% nel numero degli assistiti dai centri Caritas (dato depurato della crescita del numero di persone di nazionalità ucraina in fuga dalla guerra).

Si tratta di una tendenza in corso da tempo, come ci ricorda il Rapporto Caritas dell’ottobre 2022 sulla povertà. Infatti, se da un lato con l’eliminazione del RdC e del suo “depotenziamento” in Assegno di inclusione si riducono quelli che erano gli strumenti di supporto che venivano erogati alle fasce lavorative meno benestanti, va fatto notare come già con il RdC tra il 2020 ed il 2021 vi era stato un trend crescente per quanto riguarda il numero di beneficiari dei centri Caritas, con un incremento del 7,7% tra i due anni. Incremento dovuto principalmente alle lacune lasciate dal RdC nei confronti di stranieri, lacune chiaramente presenti anche nel nuovo Assegno. Il Reddito di Cittadinanza, ricordiamolo, anche prima della sua eliminazione e del depotenziamento in nuova misura, era comunque insufficiente, in molti casi, ad evitare il problema della povertà ai suoi percettori. Lo testimonia il fatto che ben un 22,3% dei beneficiari Caritas ne erano percettori. Ma non solo. Secondo un altro rapporto della Caritas, infatti, solo il 44% dei poveri assoluti riceveva il RdC. Una testimonianza di quanto tale strumento fosse una goccia nell’oceano. Una goccia, che, evidentemente, per il Governo era comunque troppo.

L’accanimento del governo Meloni contro i lavoratori è e rimane più alto che mai: eliminazione del RdC, creazione di un suo surrogato depotenziato, aumento dei contratti a termine, precarizzazione. Attacco che si estende non solo ai lavoratori, soprattutto i più vulnerabili, ma anche agli studenti. Un attacco ai lavoratori di oggi e a quelli di domani; alla classe lavoratrice ad ogni età. Un continuo ed incessante accanirsi su chi è già stato massacrato da anni di riforme, ignorando, d’altro canto, tutti i ben più gravi problemi strutturali del nostro paese.

05/07/2023

da Coniare Rivolta