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Iraq 2003, ultima illusione imperiale (o forse solo la penultima)

Iraq 2003, ultima illusione imperiale (o forse solo la penultima)

21/03/2023

da Remo Contro

Ugo Tramballi

Le guerre durate decenni: in Afghanistan Usa e Nato sono stati 20 anni, in Iraq gli Usa sono ancora lì, in Libia Gheddafi è stato ucciso nel 2011 ma il Paese è sempre nel caos, la Somalia dove l’Occidente intervenne nel 1992 è nel caos, Azerbaijan e Armenia si affrontano ancora. Puntiglioso Alberto Negri a fare da involontario prologo al vecchio collega ‘Sole24. «E ora vorremmo la pace in 48 ore?»,
Ancora migliaia di morti e distruzioni ma, «Come l’impero romano, anche la potenza americana finirà», ci ricorda e rilancia Ugo Tramballi, e inseguire le News col ritmo ‘slow’ della storia.

 

‘Anche la potenza americana finirà’

«Come l’impero romano, anche la potenza americana finirà. È dunque questo il momento per imporre il nostro modello democratico», raccontava Paul Wolfowitz in un’intervista al Sole 24 Ore. In qualcosa di simile a una marcia trionfale, risalendo dal Kuwait gli americani avevano conquistato Bagdad. Ma il peggio doveva venire.

Neocons e neo-imperialisti

Wolfowitz era il vicesegretario alla Difesa ma dei neocons che guidavano l’amministrazione Bush, era l’ideologo. Più che neo-conservatori, l’adatta definizione per lui, Dick Cheney, Don Rumsfeld, Richard Perle, Elliot Abrams, era neo-imperialisti. Dietro la sua scrivania al Pentagono, Wolfowitz aveva – e teneva a mostrarlo – un quadro della battaglia di Antietam, la più sanguinosa della Guerra Civile: “Mai più ci saranno massacri così insensati”, spiegava.

Un imminente disastro

Invece Wolfowitz stava sovrintendendo a un imminente disastro: di vite umane, economico (“La guerra dei 3mila miliardi di dollari”, avrebbe scritto il Nobel Joe Stiglitz) e geopolitico. Madeleine Abright, segretaria di Stato della precedente amministrazione Clinton, aveva ammonito: “Imporre la democrazia con le armi è un ossimoro”. Ma non fu ascoltata negli assordanti rulli di tamburo della “Missione compiuta”.

Guerra privata e fine delle grandi speranze

Trasformando ogni intervento in Medio Oriente come parte della sua ‘Guerra al Terrore’, l’America perse di vista lo strumento di consenso più potente che aveva, insieme all’ineguagliabile forza militare: la diplomazia. Il risultato non fu solo la perenne instabilità irachena né i vantaggi strategici concessi all’espansionismo dell’Iran, l’unico vero nemico dell’America nella regione.

Fu l’inizio della fine del potere unipolare degli Stati Uniti, della stagione di grandi speranze incominciata dopo la Guerra Fredda nel 1989: la riduzione delle armi nucleari, il crollo del Muro, la fine dell’apartheid in Sudafrica, la pace arabo-israeliana.

Se Al Gure al posto Bush junior

Forse se nel novembre 2000 quella manciata di voti ai seggi di Dade County, Miami, fosse andata al democratico Al Gore e non a George W. Bush, la reazione americana all’11 Settembre sarebbe stata più misurata, più politica. Ma la storia andò diversamente. Le grossolane bugie di Vladimir Putin sull’Ucraina, ricordano quelle dell’amministrazione Bush sull’arsenale nucleare di Saddam Hussein: la ‘pistola fumante’ che Colin Powell dovette descrivere al Consiglio di sicurezza Onu, facendo perdere credibilità alla sua onorevole carriera e soprattutto agli Stati Uniti.

Status da ‘Superporenza’ tra forza e saggezza

Per una superpotenza, non è facile conservare il suo status: è una questione di equilibrio tra forza e saggezza. Anche un eccessivo uso della seconda, è compromettente. Nel 2012 Barack Obama fissò una ‘linea rossa’: se il siriano Bashar Assad avesse usato armi chimiche contro il suo popolo in rivolta, l’America sarebbe intervenuta. Assad lo fece ma Obama non si mosse. Una decisione saggia che costò credibilità in Medio Oriente e in molte altre parti del mondo.

A dispetto del disastro iracheno e di tutti gli errori fino al caotico ritiro dall’Afghanistan del 2021, presumibilmente il primato americano sarà inarrivabile per almeno un altro secolo. Ma non dipenderà tanto dalla Cina o dalla Russia, quanto dai presidenti che il paese si sceglierà.

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