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In evidenza

POLITICA NAZIONALE  POLITICA ITALIANA

 

23/03/2023

da Left

Giulio Cavalli

 

Secondo i dati della Bce nel corso del 2022 l’incremento dei profitti aziendali ha largamente sopravanzato quello degli stipendi in tutti i settori, nella manifattura in particolare. Ma per Visco il costo dell'inflazione lo devono pagare solo i lavoratori perché - assicura - sarà un impoverimento passeggero.

 

“Finora i salari reali sono diminuiti notevolmente, mentre i margini di profitto delle imprese sono aumentati in molti settori. Ma il mercato del lavoro è piuttosto teso, le carenze di manodopera sono in aumento e questo sta portando i lavoratori a usare il loro potere contrattuale per recuperare i guadagni persi”. Le parole che avete appena letto non sono di qualche irrequieto sindacalista o di qualche pericoloso comunista. Le ha pronunciate la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde durante la conferenza The Ecb and Its Watchers XXIII.

 

Ha detto Lagarde: “Se sia i lavoratori che le imprese accettano un’equa condivisione degli oneri e una crescita salariale più forte rappresenta semplicemente un riequilibrio tra lavoro e capitale, allora sia la pressione sui salari che quella sui prezzi dovrebbero diminuire man mano che si sviluppa questo processo”. È la stessa Bce che qualche giorno fa ci aveva spiegato che l’aumento dell’inflazione è provocato dalle aziende. Secondo dati utilizzati nello studio e raccolti da Refinitiv, nel 2022 la aziende di beni di consumo della zona euro hanno aumentato i margini operativi (la differenza tra ricavi e costi di produzione) in media del 10,7% . Le grandi imprese monitorate sono state 106 inclusi gruppi come Stellantis, al gruppo di beni di lusso Hermes, e al rivenditore nordico Stockmann. E sono loro, secondo quanto risulta dagli studi Bce (che però non commenta ufficialmente queste conclusioni), ad aver spinto al rialzo prezzi e infiammato l’inflazione.

 

Stando ai dati della Bce nel corso del 2022 l’incremento dei profitti aziendali ha largamente sopravanzato quello degli stipendi in tutti i settori, nella manifattura in particolare e con l’unica eccezione della pubblica amministrazione. Mentre Lagarde spiegava quello che in molti provano a ripetere (mentre presunti illuminati competenti e economisti negano la ostinatamente la realtà) il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha risposto andando fuori tema spiegandoci che “l’aumento del costo dell’energia è stata una tassa e questa tassa non la possiamo rinviare dove è venuta, possiamo accomodarla molto rapidamente a livello di area, in alcuni casi è più difficile in altri è più costoso quindi ci possono essere distribuzioni del reddito e interventi di finanza pubblica a favore di coloro che sono più colpiti, ma bisogna evitare che ci sia una rincorsa tra prezzi e prezzi e prezzi e salari e le aspettative di inflazione si scostino dal 2% nel medio periodo, perché se si scostano verso l’alto quello è il punto di riferimento a cui tutti i prezzi e le retribuzioni tenderanno ad adeguarsi”. Tradotto: per Visco il costo dell’inflazione lo devono pagare solo i lavoratori perché – assicura – sarà un impoverimento passeggero.

 

Ancora qualche settimana e vedrete che qualcuno avrà l’ardire di accusare direttamente i lavoratori come causa dell’inflazione. Avanti così, all’infinito.

COMMENTI

 

19/03/2023

da La Notizia

Gaetano Pedullà

 

Dopo che gli squadristi di estrema destra sono riusciti a devastare la sede della Cgil, ci ha pensato ieri la Meloni a completare l’opera, con un comizio che ha ammutolito la sala di un sindacato così sdraiato da non rispedire istantaneamente al mittente le sciocchezze della premier.

Dalla riforma fiscale che rispetta chi guadagna meno (è l’opposto) ai sostegni per le donne (hanno tagliato i fondi), col contorno delle solite promesse da talk show, la premier ha curvato a suo piacimento le politiche più devastanti per i ceti fragili del Paese dai tempi di Renzi e del Jobs Act.

Ma su un punto ha raggiunto il livello più grottesco, quando ha difeso l’abolizione del Reddito di cittadinanza, mettendo i lavoratori contro i disoccupati, perché i primi con i loro contributi sostengono i nullafacenti, a partire da quelli di lunga durata, che dopo tre anni di sussidio si ostinano a non trovare un’occupazione.

Col passare del tempo – ha detto – gli sfaticati di cui sopra escono sempre di più dal mercato del lavoro, e dunque diventano più poveri, pur percependo un aiuto dallo Stato. Perciò il governo metterà a lavorare tutti, e ripartirà l’ascensore sociale per chi è ai margini. Ma arrivati già a ridosso della fine del sussidio non c’è traccia dei corsi di formazione o di questo lavoro da creare miracolosamente.

Quindi, lasciando chi non ha niente nell’assoluta povertà, l’ascensore sociale partirà senz’altro ma per portare milioni di italiani ancora più in basso. Lì dove la destre per il momento campa ancora di slogan, e poi da luglio chi potrà si arrangi.

POLITICA NAZIONALE POLITICA ITALIANA

 

18/03/2023

da Il Manifesto

Massimo Franchi

 

TERZO GIORNO DEL CONGRESSO CGIL. Un solo applauso: al ricordo dell’assalto della sede. «Ma ora tolga la fiamma dal simbolo». Dopo il comizio, incontro faccia a faccia con Landini che dura 40 minuti. Il segretario esce soddisfatto ma nessuna indicazione sul contenuto. Sarà il tempo a mostrare chi ha vinto

 

«Il primo presidente del consiglio in 27 anni a un congresso della Cgil». Nella frase con cui Giorgia Meloni sottolinea il carattere «storico» del suo discorso dal palco di Rimini sta tutta l’unicità politica e sindacale italiana. Da 27 anni la politica non si confronta con il sindacato. E, ancor più grave, sono stati i governi di centrosinistra a non farlo. Arrivando alla rottamazione e alla disintermediazione propugnata da Renzi.

IN QUESTO CONTESTO Giorgia Meloni ha avuto gioco facile. Fosse stata fischiata, avrebbe potuto fare la vittima. La gelida accoglienza dei 986 delegati Cgil invece le ha, sì, consentito di mostrare all’esterno il suo programma che cerca di convincere anche i ceti popolari della bontà della sua ricetta, ma ha mostrato come la stessa Cgil sia la sola capace di fare opposizione in questo disgraziato paese. E la prospettiva è che l’opposizione si intensificherà a breve con la mobilitazione contro la delega fiscale insieme alla Uil e (si spera) alla Cisl.

Maurizio Landini da parte sua aveva denunciato da settimane la sfida di Meloni: «Considerare il sindacato come una delle tante lobby corporative che difende interessi particolari». Ieri «ascoltando» Meloni, ha portato a casa la legittimazione a potersi «confrontare» con la presidente del Consiglio in un incontro faccia a faccia di oltre 40 minuti i cui contenuti sono sotto stretto riserbo ma da cui Landini esce soddisfatto. Il tempo mostrerà da che parte pende la bilancia dei vantaggi fra i due.

LA MEZZ’ORA DI DISCORSO di Meloni è stato un condensato di cosa sia la destra in economia con due gravi e volute omissioni: il tema dei migranti e l’autonomia differenziata.

Durante il comizio la platea Cgil mostra una freddezza glaciale. L’unico timido applauso arriva quando Meloni ricorda l’assalto alla sede nazionale del sindacato. Omettendo però totalmente la parola «fascista».

Per il resto la premier sciorina tutto il repertorio del liberismo conservatore in salsa Visegrad. Sul salario minimo, terreno su cui le opposizioni dopo il confronto di giovedì potrebbero costruire un fronte comune per sfidare il governo, Meloni è un muro: «Non è la strada giusta», indicando la ricetta «dell’estensione della contrattazione collettiva» che chiedeva la Cisl.

Il riferimento alla «cittadella di garantiti impermeabile a chi rimane fuori» che sarebbe l’attuale sistema di ammortizzatori sociali, promettendo di estendere tutele a tutti è populismo puro: senza risorse si tradurrà in un taglio.

L’ATTACCO PIÙ DURO è per il Reddito di cittadinanza. Meloni rivendica come «doverosa» l’abolizione per chi è «in grado di lavorare: non credo debba essere mantenuto dallo Stato», attaccando indirettamente i sistemi di welfare di quasi tutta Europa. La ricetta in questo caso è trovare lavoro a tutti: come non si sa.

Si passa poi alla difesa della riforma fiscale varata giovedì dal consiglio dei ministri ieri e «frettolosamente bocciata da alcuni»: Landini mercoledì ne aveva chiesto l’immediato ritiro.

Per Meloni la riduzione da quattro a tre aliquote favorirà i ceti più popolari e non solo il ceto medio e la flat tax lascerà la progressività mentre la sua versione «incrementale» per i dipendenti favorirà «il merito».

Pedretti (Spi): solo balle su fisco e non autosufficienza De Palma (Fiom): subito mobilitati


Insomma, la favola che il governo Meloni vuole bene ai lavoratori. Anche se in realtà persegue solo gli interessi del suo elettorato: imprenditori, commercianti, artigiani ed evasori a cui «la semplificazione della riforma» regalerà sonni tranquilli.

IERI LANDINI NON HA commentato il discorso – lo farà oggi – lasciando agli altri segretari di categoria la risposta della Cgil. «La premier Meloni è venuta qui provando a lisciarci ma in realtà ha raccontato un po’ di balle – ha attaccato dal palco il segretario dei pensionati dello Spi Ivan Pedretti – . Le ha raccontate sul fisco, perché non è vero quello che dice lei, e i pensionati su quella riforma lì pagheranno un prezzo altissimo. Ha raccontato una bugia sul fatto che la legge sulla non autosufficienza l’avrebbe fatta lei e invece l’ha fatta il governo Draghi. E se è vero che è solidale contro l’attacco alla Cgil allora che cancelli la fiamma dal simbolo del partito e rientri in un’area liberal democratica e allora tutto sarà più semplice e anche più democraticamente assorbibile», ha chiuso Pedretti.

Per il segretario degli edili della Fillea Alessandro Genovesi «se qualcuno vuole capire la differenza tra chi difende il lavoro e chi la rendita, basta mettere a confronto le proposte della Cgil e quelle fiscali o sociali del governo», mentre il segretario della Fiom Michele De Palma annuncia già «un percorso di assemblee nei luoghi di lavoro, fino alla mobilitazione generale».

POLITICA NAZIONALE   POLITICA ITALIANA  

 

17/03/2023

da La Notizia

di Giorgia Martini

 

Una nuova Irpef con tre aliquote. Iva azzerata per i beni di prima necessità. Stop alle comunicazioni nei mesi di agosto e dicembre. Ma soprattutto campo libero agli evasori. Il governo Meloni nella delega con cui si propone di rivoluzionare il fisco, approvata ieri dal Consiglio dei ministri assieme al decreto che fa resuscitare il Ponte di Messina, riesce a infilare quello che in Manovra non era riuscito a far passare. Ovvero depenalizza l’evasione “di necessità” e ammorbidisce le sanzioni per il reato di dichiarazione infedele.

Il governo Meloni nella delega con cui si propone di rivoluzionare il fisco riesce a infilare quello che in Manovra non era riuscito a far passare.

Insomma dopo aver già varato condoni e sanatorie ora Meloni e i suoi spalancano praterie a chi non ha alcuna intenzione di pagare le tasse. La riforma si propone, a parole, di instaurare un rapporto tra contribuenti e amministrazione finanziaria nella logica di un dialogo: il cosiddetto ‘Fisco amico’. Ma opposizioni e i sindacati, che già evocano la piazza, ci leggono, nei fatti, solo condoni e favori ai più ricchi.

“Io mi sono rotto le scatole – dice senza giri di parole il segretario Cgil, Maurizio Landini – non ci sto più che sono io che pago le tasse anche per quelli che non le pagano, quando le potrebbero pagare più di me”. “È una baggianata dire che si abbassano le tasse a tutti”: così si “favorisce chi sta meglio, chi ha redditi più alti vedrà maggior guadagno”, va all’attacco la segretaria del Pd, Elly Schlein. “È una riforma recessiva”, denuncia il leader M5S, Giuseppe Conte, pronto a scendere in piazza con i sindacati.

Il provvedimento del governo riscrive l’intero sistema fiscale

Il provvedimento del governo riscrive l’intero sistema, dai tributi ai procedimenti e sanzioni, fino ai testi unici e codici. Per renderlo operativo servirà l’approvazione del testo-cornice dal Parlamento e poi il varo dei decreti delegati – si prevede un orizzonte di due anni – che dovranno contenere anche le coperture finanziarie, che in parte dovrebbero derivare dalla revisione delle attuali 600 tax expenditures: sconti, agevolazioni, bonus.

Confermata la nuova architettura dell’Irpef, con la riduzione delle aliquote da 4 a 3. E se la flat tax per tutti resta un obiettivo di legislatura, per i dipendenti arriva la flat tax incrementale. Per le imprese arriva la nuova Ires a due aliquote per far pagare di meno chi più assume ed investe; si punta poi al graduale superamento dell’Irap con priorità per le società di persone, gli studi associati e le società tra professionisti.

Ci sarà il concordato preventivo biennale e un rafforzamento dell’adempimento collaborativo: “Si riscrivono le regole della lotta all’evasione fiscale – dice il Mef – che diventa preventiva e non più repressiva”. Che tradotto significa liberi tutti con la riscrittura di tutto il sistema sanzionatorio. Per le sanzioni penali si userà l’occhio di riguardo per chi si trova impossibilitato a pagare il tributo per fatti a lui non imputabili: nella valutazione della “rilevanza penale” del fatto si terrà conto anche dei casi in cui siano stati raggiunti accordi in sede amministrativa e giudiziaria.

Sanzioni annacquate per il reato di dichiarazione infedele e agevolazioni a chi dichiara di non poter pagare

È previsto poi un alleggerimento delle sanzioni penali, in particolare quelle connesse al reato di dichiarazione infedele, per le imprese che aderiscono alla ‘cooperative compliance’, e che hanno tenuto comportamenti non dolosi e lo comunicano subito al Fisco. Altro effetto “premiale” per chi aderisce all’adempimento spontaneo è l’ulteriore riduzione delle sanzioni amministrative (che può arrivare fino all’integrale non applicazione) per i rischi di natura fiscale comunicati preventivamente in modo “tempestivo ed esauriente”.

SANITA' ED AMBIENTE    

 

14/03/2023

da Il Fatto Quotidiano

di Francesco Lo Torto

 

Dopo la lettera-ultimatum con cui quasi 300 professionisti della Toscana hanno minacciato di dimettersi se non dovessero cambiare le cose, alcuni di loro raccontano a ilfattoquotidiano.it come sono costretti a lavorare ogni giorno: dalle barelle ammassate alla scarsa igiene e le attese infinite. Le testimonianze dall'ultima frontiera della sanità pubblica.

 

“Non vogliamo che ci diano più soldi. Vogliamo non sentire più un paziente lamentarsi della sua sofferenza, dopo che da due giorni è sdraiato su una barella in corridoio perché non ci sono posti letto nei reparti”. Paolo (nome di fantasia) è un medico toscano di quasi cinquant’anni. Circa 16 anni fa ha scelto di lavorare in Pronto soccorso. Da allora ha assistito al progressivo demansionamento del suo ruolo e allo smantellamento graduale della medicina d’urgenza. È uno dei firmatari della lettera-ultimatum inviata a governo e Regione per denunciare la crisi in cui versano i Pronto soccorso toscani e di tutto il Paese. “O le cose cambieranno o ci dimetteremo in massa”, hanno scritto 288 camici bianchi, rappresentativi del 90% dei professionisti dei reparti di emergenza-urgenza della Regione. Un documento che non è solo una protesta, ma un manifesto nato dal basso per portare l’attenzione sulla mancanza di personale, la carenza di posti letto e l’assenza di strutture di medicina territoriale in grado di diminuire l’afflusso. I 288 medici hanno scavalcato politica e sindacati per chiedere condizioni di lavoro sostenibili e standard di cura dignitosi per i loro pazienti. E ora non vogliono che la luce si spenga di nuovo.

 

“Non posso dire il mio vero nome, né l’ospedale in cui lavoro, altrimenti domani arriva la direzione a mettermi pressione tramite il primario. I direttori sanitari non vogliono che vengano fuori i problemi, rischierebbero di fare una figuraccia politica”. Paolo spiega al fattoquotidiano.it che, a suo parere, la strada è ormai tracciata: “La sanità pubblica raggiungerà un livello talmente basso da rendere automatica la definitiva privatizzazione. Sta già avvenendo”, dice. Per questo l’aumento di stipendio, individuato dalla politica come la soluzione per mettere a tacere le proteste, è visto solo come un contentino: “Non è che se mi dai mille euro in più sto zitto. Non risolvi la mancanza dei posti letto, o dei farmaci, alzandomi la paga. Tantomeno riduci gli accessi impropri senza filtro ai pronto soccorso”, continua il medico. “La minaccia di dimettersi in massa, che abbiamo inviato alle istituzioni, è una provocazione. Amiamo il nostro lavoro. Ma soprattutto lo conosciamo, a differenza dei direttori sanitari. Loro non hanno mai esercitato, sono lì grazie a una nomina politica. Questo ha trasformato la sanità in un tema squisitamente elettorale. Dopo aver ottenuto il loro piatto caldo, se ne sono fregati”, attacca.

 

Sono i medici, insieme agli infermieri e agli Oss, a fronteggiare la crisi tutti i giorni. Quotidianità fatta di pazienti, soprattutto anziani e cronici, lasciati anche per giorni sulle barelle nei corridoi, in attesa di un posto letto che non c’è. Le persone vanno incontro a deliri da ospedalizzazione, a piaghe da decubito e versano in condizioni igieniche scarse. Inoltre, non hanno accesso al vitto. Questo, infatti, non è previsto dai pronto soccorso perché sono pensati per essere unità operative in cui i pazienti non dovrebbero rimanere a lungo.

 

“Se non erano i parenti a provvedere al cibo, il nostro ospedale offriva ai malati dei panini con il prosciutto. Davano il pane con la crosta a gente che non aveva neanche i denti o che aveva difficoltà a deglutire”: a parlare è Valerio. Anche lui ha scelto l’anonimato per proteggersi dalle ritorsioni. Lavora in un’altra provincia rispetto a Paolo ma, al di là di alcune specificità, la situazione è la stessa. “Noi abbiamo uno stanzone, una sorta di limbo, con 45 persone sdraiate in barelle a poca distanza l’una dall’altra. Neanche un metro – racconta Valerio -. Si lamentano e chiedono aiuto a infermieri e Oss, il cui carico di lavoro è già insostenibile. Deontologicamente parlando è tremendo assistere. Non sono cose degne da paese del G7”. Ogni ospedale prova ad arrangiarsi e a dare qualcosa da mangiare a chi sta aspettando un posto letto nei reparti. Anche perché l’alimentazione è importante per la cura. Perlopiù riescono a distribuire qualche cracker o delle fette biscottate con un tè. A Firenze c’è chi, quando è di turno, ordina le pizze da asporto e distribuisce le fette ai pazienti presenti. “Se i soldi, invece di proporre di darli a me per comprare la mia omertà, li dessero al sistema, non saremmo costretti a questo”, sbotta Valerio. Anche perché a rimetterci sono soprattutto i pazienti. “Le loro condizioni sono peggio delle nostre – continua -. Noi dopo un turno sfinente e svilente torniamo a casa. Loro no”.

 

Si lavora tanto, male, in luoghi non adeguati. L’errore è dietro l’angolo. Alla frustrazione si aggiunge il fardello di poter avere preso una decisione sbagliata. Anche Mario (nome di fantasia) ha firmato la lettera: “Dentro i pronto soccorso c’è gente bravissima, professionalità che ci invidia il mondo intero. Ma ci stanno costringendo a rinunciare”. Mario porta la sua esperienza di medico d’emergenza-urgenza da oltre 16 anni. “Rispetto a quando ho iniziato, la situazione è molto peggiorata. Ora ai pronto soccorso arriva tutta la richiesta della sanità pubblica, senza filtro”. Spiega che non gli fa paura lavorare, fare le notti o i weekend. “Certo, una volta vorremmo poter finire le ferie di un anno”, specifica, “ma soprattutto vogliamo fare il nostro lavoro. Ovvero i medici d’emergenza. Il nostro ruolo dovrebbe essere quello di stabilizzare le urgenze. Invece, la maggior parte del tempo facciamo altro. Rimandiamo cose che dovrebbero essere priorità per noi. Ci occupiamo di pazienti cronici che hanno un dolore addominale da 10 anni e arrivano in pronto soccorso perché non sanno dove andare”. Ed è qui che il privato intercetta il bisogno. Dove non arrivano i medici di base e la medicina territoriale, arriva la visita domiciliare a pagamento, per chi può permettersela. Per gli altri, c’è il pronto soccorso. Praticamente gratis e sempre a disposizione.

 

Così, di anno in anno si moltiplicano i casi di camici bianchi che mollano. Chi passa al privato, lavorando di meno e guadagnando di più, chi prova a cambiare ospedale, e chi decide che preferisce fare tutt’altro e si trasferisce in un altro reparto. Ad aprile nell’ospedale di Paolo andranno via altre quattro persone. La carenza di personale è gravissima, spiega, soprattutto alla luce di tutte le mansioni extra che il sistema sanitario delega ai medici di pronto soccorso. “I professionisti vanno in burnout dopo neanche 20 anni di attività e si licenziano. Magari vanno in Veneto a fare i gettonisti, pagati a peso d’oro con i soldi pubblici”, si lamenta Paolo. Chi resta prova a resistere, prende tempo per vedere se ci saranno dei cambiamenti. Ma, almeno una volta, ci ha già pensato a mollare tutto. Il rischio è che a lavorare nell’urgenza restino solo persone che in realtà vorrebbero fare altro. A cui “tocca”, però, fare questo, come dice Paolo: “Alla prima occasione cercheranno altro e andranno via. Non resterà più nessuno”, conclude.

 

I pronto soccorso sono diventati la prima frontiera della sanità pubblica. E chi ci lavora è d’accordo sul fatto che perdere questa battaglia avrebbe ripercussioni gravi su tutto il sistema. “Nei Paesi in cui non c’è la sanità pubblica è un disastro”, riflette Mario, ricordando le sue esperienze di cooperazione all’estero. E conclude: “Con la pandemia ho pensato che si fosse capita questa cosa. Senza il Sistema Sanitario Nazionale sarebbero morte chissà quante persone. Invece, sono passati tre anni e non è cambiato nulla. È tutto sempre meno sostenibile. Rimanere a lavorare in condizioni come queste è masochismo. Non basterà un aumento di stipendio per tenere insieme i cocci”.

POLITICA ITALIANA

 

13/03/2023

da Left

Giulio Cavalli

 

Magistratura democratica ha esaminato nei dettagli il cosiddetto "Decreto Cutro" sull'immigrazione e ha puntato il dito contro la stretta sulla protezione speciale decisa dal governo Meloni. Che produrrà risultati simili a quelli prodotti da altre inutili leggi repressive

 

Magistratura Democratica analizza il cosiddetto “Decreto Cutro” (il decreto-legge n. 20 del 2023) e dice quello che c’è da dire. In un comunicato stampa la componente dell’Associazione nazionale magistrati punta il dito contro la stretta sulla protezione speciale decisa dal governo Meloni che, scrivono i magistrati, «andrà a colpire persone che in Italia lavorano con contratti regolari, hanno un’abitazione e spesso avevano trasferito qui anche la famiglia. Persone, insomma, ormai parte integrante del sistema sociale del nostro Paese. La riposta ai morti di Cutro non è stata una rivisitazione critica della ratio punitiva e respingente che ha governato le politiche migratorie, ma si propone di estromettere queste persone dal sistema legale, impedire loro – nella volontà del Governo – di chiedere un permesso per protezione speciale».

 

Il risultato, come già avvenuto per altre inutili leggi repressive, scrive Magistratura Democratica, «potrà essere quella di produrre un esercito di irregolari che non potranno essere allontanati, in mancanza di accordi per il rimpatrio con la maggioranza dei Paesi dai quali provengono e che andranno ad alimentare il mercato del lavoro nero e dello sfruttamento o della criminalità, su cui lucrano potentati economici sempre più invadenti, interessati ad abbattere i costi della manodopera (ad esempio nel settore agroalimentare o in quello della logistica)».

 

Un altro passaggio che vale la pena leggere è quello dell’inasprimento delle pene per i trafficanti che Meloni, Piantedosi e Salvini stanno rivendendo come panacea di tutti i mali, tra l’altro dimostrando un’abissale ignoranza su chi siano gli scafisti e sulla differenza con i trafficanti. Scrive Magistratura Democratica: «Anche solo immaginare, infine, che il traffico di esseri umani si combatta con l’innalzamento esorbitante delle pene per i c.d. scafisti, è solo un’illusione che alimenta il mito del panpenalismo, al fine di anestetizzare le paure sociali e tacitare le coscienze, individuando un nemico da combattere, anzi da abbattere. La tecnica legislativa, poi, lascia – ancora un volta – molto a desiderare. La previsione penale, infatti, è strutturata con una formula così ampia e indeterminata che pone seri problemi di aderenza ai principi costituzionali, autorizzando interpretazioni che potrebbe estenderne l’applicazione anche a chi interviene per garantire aiuti umanitari. Applicare questa nuova fattispecie di reato a chi “dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” pone sullo stesso piano condotte profondamente diverse tra loro, con una pena edittale minima elevatissima».

 

«Anche l’individuazione del nemico da abbattere – scrivono i magistrati – con la sanzione penale è frutto di approssimazione. L’esperienza dei processi penali celebrati contro i c.d. scafisti ci insegna, infatti, che chi si assume il rischio di condurre l’imbarcazione che ospita i migranti è di regola una persona altrettanto vulnerabile, alla quale si affida il timone in cambio della gratuità del viaggio o altri modesti vantaggi. Insomma: un povero tra i poveri, non certo il gestore del traffico e neppure un tassello della criminalità organizzata transnazionale che organizza il traffico di esseri umani. Per i timonieri degli scafi la pena prevista dall’articolo 12 del decreto legislativo n. 286 del 1998 è già oggi elevatissima; se, per come è usuale le persone trasportate sono più di 5, la pena prevista va da 5 a 15 anni. Non erano necessari, perciò, né inasprimenti delle pene, né nuove fattispecie di reato che non servono a garantire maggiore sicurezza sociale e non tutelano meglio – neppure indirettamente – la vita delle persone che attraversano il mare cercando una prospettiva dignitosa di futuro».

 

Intanto come accade ogni primavera i “giornali” spingono sull’ondata di “clandestini” che sarebbero in arrivo prossimamente. Sarebbero 685mila secondo Repubblica, 900mila secondo Il Messaggero che riprende una fonte di Fratelli d’Italia. Accade tutti gli anni. Previsioni che puntualmente si rivelano sbagliate (il numero massimo di arrivi in Italia è stato di 108mila). Ma l’importante è concimare la paura. Poi ci sarà sempre un nuovo reato da inventare o un vecchio reato da inasprire per coprire con il panpenalismo l’inettitudine politica.

 

Nella foto: frame del video della conferenza stampa del Consiglio dei ministri, Cutro, 9 marzo 2023

POLITICA ITALIANA

 

12/03/2023

da La Notizia

Redazione

 

Il barcone a largo della Libia con a bordo 47 migranti si è ribaltato. A segnalare quella che rischia di essere una nuova tragedia per l’Italia è Alarm phone. Nel tweet in cui il centralino dei migranti annuncia il ribaltamento si legge anche che “le autorità italiane hanno ritardato consapevolmente i soccorsi e hanno lasciati morire” i migranti. Accuse che fanno seguito a quelle di Mediterranea che ieri aveva detto che “le autorità Italiane da ieri avevano dato istruzioni alle navi mercantili presenti in zona, assumendo coordinamento #Sar. Ma i mercantili si sono limitati a osservare per 24 ore”.

I Soccorsi ai superstiti del barcone

I sopravvissuti, che erano a bordo del gommone che si sarebbe poi rovesciato, come sostiene Alarm phone sono “stati soccorsi da una nave mercantile”. “Dopo il naufragio con molti morti, temiamo che i sopravvissuti, che hanno visto i loro amici morire prima di essere soccorsi da una nave mercantile, saranno costretti ad andare in Libya o Tunisia dove li attendono condizioni disumane. Chiediamo che tutti i sopravvissuti siano portati in un posto sicuro in Europa”, si legge sul profilo twitter di Alarm Phone.

POLITICA ESTERA

 

12/03/2023

da Remo Contro

Remocontro

 

Una carta sulla «polonizzazione» del campo euroatlantico su Limes. La carta fotografa il rafforzamento del fronte orientale dell’Alleanza Atlantica, di cui la Polonia è fulcro. Una sorta di prologo alla ‘Polonia imperiale’ che Limes sta per proporci.

 

Allineamento strategico Usa-Polonia

«La Polonia e gli Stati Uniti attraversano un momento di allineamento strategico, in cui molti dei rispettivi obiettivi geopolitici possono essere soddisfatti grazie al reciproco benché asimmetrico aiuto». Provando a tradurre in linguaggio corrente, gli Stati Uniti vogliono appaltare la difesa del Vecchio Continente che loro insistono a ritenere il proprio impero europeo, per concentrarsi sulla competizione per loro più importante, che è quella con la Cina.

Una Nato sempre più anti Russia

«Serve una Nato in cui i membri più predisposti ad abbracciare le disposizioni del Numero Uno, volte in questo quadrante al contenimento della Russia, abbiano maggior peso», scrive Limes. E i paesi del fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, anti russi per storia e posizione, sono di fatto elevati a partner privilegiati dagli Stati Uniti. Varsavia avanguardia e capiclasse del fronte antirusso con l’investimento di oltre il 4% del pil nella difesa e con il sostegno a oltranza all’Ucraina invasa.

Dimensione atlantica più di quella europea

La guerra in Ucraina ha favorito nella Polonia e negli altri baltici e centro-orientali ex sovietici il predominio della dimensione atlantica su quella europea. La protezione offerta da Washington si è tradotta in un rafforzamento della presenza militare dell’Alleanza nei paesi della linea di contenimento della Russia. E come mostra la carta di copertina, sono ormai fatti e non teorie. La Polonia detiene il primato con 12.600 truppe Nato, cui si aggiungono i 122.500 delle Forze armate nazionali, con Varsavia sulla strada di diventare prima potenza militare continentale.

In generale, il settore baltico è privilegiato in termini di supporto Natyp-americano rispetto agli alleati meridionali, più lontani dai confini della Russia e pertanto ritenuti meno esposti al rischio di attacco.

Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia

A conferma di ciò, in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia sono schierati già dal 2017 quattro gruppi di battaglia a conduzione euroatlantica guidati rispettivamente da Regno Unito, Canada, Germania e Stati Uniti. Forze di presenza avanzata della Nato (Enhanced Forward Presence), dispiegate nei paesi ritenuti più a rischio di aggressione in seguito all’annessione russa della Crimea, è stata decisa la formazione di altri quattro gruppi in Slovacchia, Bulgaria, Ungheria e Romania, sul fianco orientale dell’Alleanza.

Fronte anti russo ‘polonizzato’

Gli otto paesi da cui è composto il fronte antirusso, formano lo scheletro della Nato desiderata da Washington, che –a voler esagerare-, dovrebbe arrivare a lambire mar Baltico, Me Nero e Adriatico, «come prescritto dal progetto storico-strategico polacco dei Tre Mari», di cui nessuno in casa occidentale a somnp ad oggi ritenuto importante segnalarci, almeno tra le ipotesi.

I tre mari e l’Adriatico rubato

Con l’abbandono delle neutralità finlandese e svedese, il Baltico è ormai Lago Atlantico a tutti gli effetti. «Così come l’Adriatico , su cui l’Italia non esercita un’influenza decisiva e che rimane a diposizione degli altri soci euroatlantici», denuncia netto Agnese Rossi, lasciando ai nostri incubi immaginare Trieste e Venezia sulla linea del fronte. Con il Mar Nero, oggi di dominio turco e russo, domani agganciabile al fianco orientale dell’Alleanza via Romania.

Ma Nato americana del Nord-Est

La carta evidenzia lo spostamento a nord-est del baricentro strategico del Vecchio Continente. Con il rafforzamento del fronte orientale della Nato promosso dagli americani che eleva la ‘Nuova Europa’ mentre declassa gli ‘europei occidentali’, noi italiani assieme e molti altri, che forse avremmo qualcosa da dire, salvo diversi ordini ricevuti. Con Varsavia che da subito ne trae vantaggio soprattutto in chiave antitedesca.

EDITORIALI E COMMENTI

 

11/03/2023

da La Notizia

Gaetano Pedullà

 

Se il buon giorno si vede dal mattino, il nuovo corso del Pd è persino peggio del vecchio. Elly Schlein eletta a furor di popolo segretaria contro l’ex renziano Bonaccini – espressione di quel sistema correntizio e di potere che ha fatto scappare treni di elettori – sceglie proprio il governatore emiliano per la presidenza del Partito. La mossa, che serve a scongiurare la diaspora dei cosiddetti riformisti, ha la benedizione persino di un padre nobile della Sinistra, come Romano Prodi. Ci aspettavamo, insomma, il nuovo che avanza e ci ritroviamo invece con l’avanzo del vecchio.

 

Un pessimo viatico per la possibile alleanza delle principali forze di opposizione, in alternativa all’armata Brancaleone delle destre. E d’altra parte, al di là delle bandiere sottratte ai 5 Stelle barando – come nel caso del Salario minimo, che oggi sarebbe obbligatorio se non fosse stato per il muro alzato proprio dagli amici di Bonaccini, insieme a Calenda, alla Cgil e Confindustria – le distanze tra i dem e il Movimento restano fortissime. A partire dal continuare ad armare Kiev piuttosto che assumere una posizione verticale con Usa e Nato per cercare davvero una soluzione diplomatica con Mosca.

 

Un solco che diventa ancora più profondo sui territori, dove una classe dirigente del Pd inamovibile garantisce quel sistema di potere che ha schifato gli stessi elettori del partito, tant’è vero che se fosse stato per i ras locali ora avremmo Bonaccini al Nazareno. Con la sua mossa, dunque, Elly tradisce chi l’ha votata. E sui tradimenti i 5S con Letta hanno già dato.

POLITICA ESTERA

 

10/03/2023

da Remo Contro

rem

 

Netanyahu parte per Roma assediato dalla protesta. Arriva in elicottero all’aeroporto, per evitare i blocchi stradali. ‘Giornata nazionale di resistenza in terra, aria e mare’ indetta dalle organizzazioni contrarie alla riforma giudiziaria voluta dal governo di destra.
Pro memoria per il governo italiano a sua volta di destra e di non lontanissime memorie fasciste. E in parte a sua consolazione, grazie all’attenzione di Alberto Negri.
«L’amico Eric Salerno, autore di ‘Mossad, base Italia’, mi ricorda che Netanyahu, oggi a Roma, è figlio di Benzion segretario di Jabotinskj amico di Mussolini che gli consentì di fondare un’accademia navale ebraica a Civitavecchia dove sulle divise c’erano il fascio e la stella di Davide. Jabotinskj per altro non aderì mai ufficialmente al fascismo».

 

Alleanza politica e militare ancora più stretta Italia Israele?

Visita politicamente difficile per tutti i protagonisti, anche se gli affari sono affari e quelli sulle armi, in questa fase della storia, diventano strategici come segnala critico ‘Pagine Esteri’. Ritorno di Natanyahu in Italia dopo 8 anni, che già dice qualcosa. Politica della difesa, e politica in difesa. Con piccoli altarini scoperti. «L’Aeronautica Militare d’Israele è stata schierata diverse volte in Sardegna e ha svolto esercitazioni di notevoli dimensioni con l’Aeronautica italiana», riporta una nota del Ministero della Difesa israeliano del 2 novembre 2018 e ci riferisce Antonio Mazzeo.

Addestramento incrociato

Di più: «L’Aeronautica Militare italiana è impegnata ad addestrare i piloti israeliani all’International Training Centre (ITC) di Pisa per l’abilitazione sul velivolo C-130J ‘Super Hercules’». In cambio, personale italiano alla base aerea di Palmachim (città di Rishon LeZion) per conduzione dei velivoli a controllo remoto, i droni, per intenderci.

F35 italiani nel Negev

A fine luglio 2022 quattro cacciabombardieri F-35 del 32° Stormo dell’Aeronautica italiana di Amendola (Foggia) sono stati inviati nel deserto del Negev per una complessa esercitazione aerea (Lightning Shield, Scudo di Fulmine) con i velivoli “cugini” delle forze armate israeliane (gli F-35I “Adir” del 118° Squadrone Sud e del 140° Golden Eagle, predisposti per il trasporto di testate atomiche). Due mesi prima di Scudo di Fulmine, i cacciabombardieri israeliani erano stati impegnati in una lunga attività addestrativa in cui erano stati simulati attacchi contro l’Iran con l’impiego di armi nucleari.

Nuove tecnologie e sistemi d’arma

Visite di alti ufficiali italiani ad alcune delle più importanti basi militari israeliane, come il centro logistico-manutentivo della base aerea di Tel-Nof (nei pressi della città di Rehovot, regione centrale) e lo scalo aereo di Nevatim, quartier generale degli squadroni dell’Israeli Air Force dotati dei nuovi cacciabombardieri a capacità nucleare F-35 e dei sofisticati velivoli di intelligence e riconoscimento Gulfstream G-550.

Gli affari sono affari

Nel 2012 Israele ha acquistato 30 caccia-addestratori M-346 ‘Master’ prodotti a Venegono Inferiore negli stabilimenti di Leonardo/Finmeccanica SpA. I velivoli sono stati assegnati per preparare i piloti ai cacciabombardieri di nuova generazione, ma sono stati utilizzati anche per attacchi al suolo con bombe e missili aria-terra o antinave. L’Aeronautica italiana ha ricambiato acquistando lo scorso anno in Israele due sofisticati velivoli spia CAEW (Conformal Airborne Early Warning & Control System) sulla piattaforma del jet Gulfstream G550 sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, modificato e potenziato da Elta Systems Ltd, dell’Israel Aerospace Industries. Valore della commessa 550 milioni di dollari, con fornitura dei servizi di supporto e logistica a terra.

Gruppo Leonardo/Finmeccanica

Ma sono soprattutto i manager del gruppo Leonardo a sperare in un fruttuoso esito della visita di Netanyahu. Dopo aver venduto alle forze armate israeliane elicotteri multiruolo AgustaWestland AW119, i caccia-addestratori M-346 ‘Master’, tecnologie di telecomunicazione, nell’ultimo biennio le relazioni della holding italiana con le aziende militari israeliane si sono fatte fittissime al punto che il 21 giugno 2022 la controllata statunitense Leonardo DRS con quartier generale ad Arlington, Virginia, si è fusa con RADA Electronic Industries Ltd., con sede a Netanaya (vicino Tel Aviv), specializzata nella produzione di radar tattici militari e software avanzati.

Fondata nel 1970, RADA Electronic Industries Ltd. occupa più di 250 dipendenti e possiede anche un centro di ricerca nell’High-Tech Park di Beer’Sheva (Negev) e uno stabilimento nella città settentrionale di Beit She’an.

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