Acqua:


Il Parlamento europeo ha fatto propria la proposta dei movimenti per l’acqua

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Roberto Ciccarelli
dal Il Manifesto
09.10.2016

Due mondi distanti e in conflitto sul Jobs Act, la legge di bilancio e, entro certi termini, sul referendum costituzionale del 4 dicembre. Ieri, la seconda giornata della Biennale dell’economia cooperativa a Bologna, lo scontro a distanza tra la segretaria generale della Cgil Susanna Camusso e l’ex presidente di Legacoop e Alleanza delle cooperative, ora ministro del lavoro, Giuliano Poletti si è acceso sul Jobs Act. Come sempre a dividere sono i numeri della riforma sulla quale Renzi ha puntato per farsi accreditare come interlocutore da Bruxelles. La Cgil fa un’analisi realistica e precisa dei magri risultati governativi. Poletti ripropone la logica aritmetica del male minore: meglio pochi posti di lavoro che nulla in una crisi che ha imposto due leggi: quella della crescita «anemica» e quella della crescita senza occupazione fissa.
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L’INTERPRETAZIONE DEI NUMERI rinvia a un problema molto sostanzioso: il governo ha affidato «18 miliardi di euro» pubblici in tre anni alle imprese « per poter permettere al presidente del Consiglio di dire che ha qualche centinaia di migliaia di occupati in più. Se facciamo due conti, una spesa straordinaria con un risultato minimo – sostiene Camusso – Con tutto il rispetto per le persone, riguarda prevalentemente la fascia degli over 50. Non ha cambiato significativamente la condizione dei giovani. A una parte dei giovani, anzi, l’ha peggiorata: sono passati dall’avere dei rapporti atipici a essere» pagati «a voucher, cioè all’inseguimento di un buono del tabaccaio. Sul piano generale, i dati del nostro Paese si muovono sullo zero virgola qualcosa». Sui voucher «ci muoviamo sull’aumento del 100% ogni anno».
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L’ATTACCO AL GOVERNO non si ferma qui, a riprova che il clima generale – che vedrà molti segmenti della sinistra e dei sindacati di base in piazza – si sta surriscaldando. Camusso ritiene insufficiente un tavolo «specifico» sulle pensioni di cui tra l’altro non condivide la principale proposta: la pensione con il mutuo – l’Ape. Nemmeno sulla legge di bilancio Corso Italia fa sconti: «Mi pare di capire che la sua nuova filosofia sarà la riduzione del costo del lavoro – ha aggiunto Camusso – Il vero crollo, però, non è stato l’aumento del costo del lavoro ma la diminuzione degli investimenti sia pubblici che privati. Continuano a ripetere la ricetta dell’austerità, quella che pensa che basti ridurre i costi, poi salari, poi i diritti dei lavoratori». Interrogata sul referendum Camusso ha escluso un legame con l’economia – al contrario di quanto va dicendo il ministro Padoan – e ha ribadito che la Cgil non aderirà a nessun comitato. In compenso ha ricordato il suo documento per il «No», non proprio un messaggio conciliante per il governo. «Se vincesse il No al referendum – ha detto – non ci sarà l’invasione delle cavallette».
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POLETTI SI È DIFESO con il vangelo di circostanza usato dall'esecutivo: da quando è in carica ci sono 585 mila occupati in più, cifra ben più alta degli occupati registrati da quando il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo 2015: «Sono un risultato importante non fosse altro perché ne abbiamo persi un milione negli anni precedenti: piccolo o grande è una misura per ognuno di noi relativa» ha detto Poletti. Il ragionamento attribuisce al Jobs Act un ruolo più ampio di quello che ha avuto: la quota dei neoassunti con il «contratto a tutele crescenti» è una piccola percentuale in un oceano di contratti a termine e lavori occasionali. Tra l’altro, trascura i saldi tra i contratti, la tipologia dell’occupazione, oltre al fatto che il totale dei nuovi occupati è inferiore al 2014, quando il Jobs Act non c’era.
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SUI VOUCHER Poletti si è limitato ad affermare che «il problema lo abbiamo affrontato con una norma che obbliga alla tracciabilità. Se risolverà il problema saremo felici se è, invece, non lo risolverà siamo pronti a mettere le mani su questa vicenda». Il piccolo cabotaggio di governo non rassicurerà la maggioranza del milione e 380 mila percettori dei buoni lavoro nel 2015 che opera in nero e, solo in parte, viene pagata con i voucher. Il governo pensa di sconfiggere il mostro che ha contribuito a creare con un Sms dei committenti.

Secondo il rapporto Migrantes l'anno scorso si sono trasferiti all'estero oltre 100mila connazionali. L'incremento di emigranti è del 3,7 per cento
Il rapporto Migrantes ci dice che aumentano gli italiani che espatriano e che più di un terzo delle persone che se ne sono andate dall’Italia nel 2015 è composto da giovani. Con ogni evidenza l’Italia di Renzi non è un paese per i giovani che infatti sono costretti a fuggire per cercare una opportunità. Dopo Berlusconi, Monti e Letta, Renzi sta continuando nell’opera di distruzione del paese per questo diciamo al premier: Renzi vattene anche tu, invece di continuare a fare danni con il sorriso sulle labbra!
Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, dichiara:
«I poveri in Italia sono in crescita esponenziale a causa delle misure politiche degli ultimi governi e oggi ammontano a 4,6 milioni di persone: è quanto emerge dal rapporto della Caritas italiana presentato oggi. Di fronte a dati del genere, occorre istituire subito il reddito minimo per i disoccupati, in modo da aiutare chi è in gravi difficoltà economiche. I soldi per finanziare questa misura ci sono, basta prenderli dalle tasche dei ricchi, facendo una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze. In una condizione in cui 4,6 milioni di persone non hanno da mangiare è vergognoso che il governo non faccia nulla per redistribuire i soldi dai ricchi verso i poveri. Questo governo si sta assumendo la responsabilità di non fare nulla contro questa situazione vergognosa, ma anzi di peggiorarla con misure come il jobs act e il mantenimento della riforma Fornero».
ROMA - Anche per i millennials arriva l'ora di emigrare dall'Italia. Nei dati del rapporto 'Italiani nel mondo 2016' redatto dalla Fondazione Migrantes e presentato oggi, fanno irruzione i giovani che erano appena nati o adolescenti allo scoccare del Duemila. Oggi che hanno tra i 18 e i 32 anni si trovano protagonisti dei nuovi flussi migratori. Ma a differenza della generazione precedente rivendicano che non è una fuga ma "una scelta per coltivare ambizioni e nutrire curiosità".

Di certo, la fascia anagrafica che va tra la maggiore età e i 34 anni è quella che è più soggetta all'emigrazione. Raccoglie infatti oltre un terzo degli italiani residenti all'estero ed è quella in cui si registra il picco di partenze anche nel 2015. E a seguire, nella graduatoria di chi è emigrato nell'ultimo anno, c'è la fascia appena superiore, che arriva ai 49 anni: sommandole, si scopre che le persone maggiorenni con meno di 50 anni costituiscono la metà degli italiani che hanno portato la residenza oltre confine da gennaio a dicembre 2015. “Il grave problema dell'Italia di oggi è proprio l'incapacità di evitare il depauperamento dei giovani e più preparati a favore di altri Paesi”, commenta la Fondazione Migrantes nella premessa del rapporto.

UN ITALIANO SU 12 VIVE ALL'ESTERO - In totale, il conteggio dei connazionali residenti all'estero ha raggiunto al 31 dicembre 2015 quota 4.811.163 (in dieci anni la mobilità italiana è aumentata del 54,9%), un dato che rispetto all'anno precedente è più alto del 3,7 per cento. Significa che poco più di un italiano su 12 è emigrato. E il 50 per cento di questa diaspora ha origini meridionali: ci sono comuni come Licata e Favara, entrambi in Sicilia, nei quali più del 40 per cento dei cittadini è ormai residente all'estero. Nell'ultimo anno, 107.529 italiani hanno lasciato il Paese, diecimila in più rispetto all'anno prima. Aumenta poi la percentuale di chi parte per non tornare: il saldo migratorio tra chi rimpatria e chi parte, che era rimasto quasi costante nel primo decennio del millennio, sta subendo una brusca virata in negativo.

NEL REGNO UNITO PER STUDIARE – Tra le destinazioni predilette dai più giovani c'è il Regno Unito, meta preferita per chi vuole studiare. Ma la terra d'Oltremanica prima della Brexit conservava una capacità attrattiva anche per le altre fasce d'età, attestandosi al terzo posto nel conteggio della crescita annuale e al settimo posto complessivo nella graduatoria degli iscritti all'anagrafe degli italiani residenti all'estero, preceduto da Germania, Svizzera, Francia, Brasile e Belgio. A prevalere è invece l'Argentina, che risulta aver ospitato nel 2015 783mila italiani con un aumento record di ventinovemila unità rispetto all'anno precedente. Impennata alla quale tiene testa solo il Brasile, dove – allargando l'orizzonte temporale – si scopre che in dieci anni gli italiani sono aumentati del 151 per cento arrivando a contare 373mila residenti. E sempre nell'arco di un decennio è imponente anche il dato della Spagna che ha visto aumentare la presenza italica di oltre due volte e mezzo, anche se in termini assoluti si tratta di 143mila cittadini.

In questo senso, però, proprio i millennials segnano una novità: “La loro mobilità – fa rilevare il rapporto Migrantes – è in itinere e può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su opportunità lavorative sempre nuove”. I millennials, sottolinea la fondazione che fa capo ai vescovi italiani, “cercano di mettersi alla prova, hanno voglia di nuove e migliori condizioni lavorative, puntano a conoscere e scoprire”. Sono, insomma, la “prima generazione mobile”. E il 43 per cento di loro afferma di considerare questo status come “unica opportunità di realizzazione”.

I DOPPI MIGRANTI – Se i millennials sono l'immagine dell'emigrante single, l'altra faccia nuova dell'emigrazione dall'Italia è costituita dai padri di famiglia che il rapporto Migrantes definisce “doppi migranti”: si tratta di coloro che sono arrivati in Italia da altri Paesi, si sono fermati almeno dieci anni acquisendo la cittadinanza e ora però decidono di partire per cercare fortuna altrove. Si tratta in particolare di persone originarie del Bangladesh. E la loro meta prediletta è ancora il Regno Unito.

06.10.2016

Da il Manifesto
del 06.10.2016
Norma Rangeri

Per vincere il referendum e scongiurare i cattivi presagi di sconfitta forse non basta avere a fianco il grande Roberto Benigni rapidamente convertito al Sì renziano.

Le sonore smentite venute dai guardiani dell’austerità (dal Fmi, all'Ocse, al nostro ufficio parlamentare di bilancio) e il dietrofront del Financial Times indicano un cambio di umore e forse anche di cavallo della finanza internazionale rispetto al governo italiano. Del resto anche sulle colonne dei giornaloni i cori di osanna all'uomo nuovo della politica italiana stanno ripiegando su toni più bassi e assai più accorti via via che l’esito referendario del 4 dicembre si fa più incerto.

Ieri, in senato, il gruppo di Verdini ha salvato la maggioranza perché grazie ai suoi voti è stato approvato il rendiconto del bilancio 2015 e l’assestamento di quello del 2016. Un altro pronto soccorso a salvaguardia dell’amico premier (a buon rendere). Ma nonostante il soccorrevole Verdini, la barca non va.

I dieci miliardi finiti nella pioggia elettorale degli 80 euro, circa il doppio messi sugli sgravi fiscali alle imprese per il jobs act, i 2 previsti per i pensionati nella prossima legge di bilancio non producono i risultati sperati. Il paese arranca e il ministro Padoan ha dovuto sparare quell'1% di crescita che gli ha fatto guadagnare la poco commendevole qualifica di scarsa affidabilità spingendolo in difesa «i mie dati non sono una scommessa».

Anche per questi spifferi fastidiosi che cominciano a soffiare su Palazzo Chigi e dintorni è obbligatorio per il presidente del consiglio vincere il referendum e tornare saldamente in sella a quel partito unico e trasversale che con la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale dovrebbe blindare questa e la prossima legislatura.

Per riuscire nell'impresa Renzi non bada a spese. E’ vero che avere molti soldi non sempre fa vincere le elezioni. Per dire, la sindaca Appendino ha usato meno di 100mila euro per la campagna elettorale, contro i milioni di Fassino, eppure ha conquistato la città di Torino.
Rovesciare tre milioni di euro, di cui circa 400mila nelle tasche del guru americano del porta a porta, non è detto che equivalga a firmare l’assicurazione sulla vittoria referendaria ma è sicuro che questo fiume di denaro darà potenza alla propaganda governativa consentendole di raggiungere la grande platea degli indecisi.

E certo non è indifferente avere a fianco un testimonial del Sì come Roberto Benigni anche se la sua audience non è più quella di una volta quando prendeva in giro Berlusconi e decantava la “Costituzione più bella del mondo”. Adesso l’irriverente folletto fa una acrobatica capriola e si associa alla campagna per il Sì alla rottamazione di un bel pezzo della Carta, con qualche difficoltà a risultare credibile proprio per averci convinto ad amarla e a difenderla. Oltretutto l’impressione è che nella guerra dei comici, il favore del pubblico del piccolo schermo sia più dalla parte del popolare Maurizio Crozza che dalla sua. Anche perché mentre Benigni prende a prestito un brutto slogan di altri («Se vince il No è peggio della Brexit»), cercando in qualche modo di giustificarsi («Nella riforma c’è qualcosa da rivedere…»), Crozza ne ha appena sfornato uno assi più brillante e divertente: «Sulla riforma di Renzi il paese è diviso a metà tra chi voterà Sì e chi l’ha capita».
L'immagine sottostante dice tutto

Da il Manifesto
del 04.10.2016
di Rachele Gonnelli

Sciopero generale delle donne, domani in Polonia, quasi una prima assoluta: perché l’astensione tanto i compiti di riproduzione, quanto quelli di produzione. Non porteranno i bambini a scuola, non faranno la spesa, non caricheranno lavatrici, l’indicazione è: «state con i vostri figli, donate il sangue, fatevi portare il caffè a letto». Una protesta simile fu tentata nel 1975 nella lontana e progredita Islanda, e paralizzò il paese dei geyser. Ora ci proveranno le polacche, come estrema forma di rivolta dopo che ieri- e già una settimana fa – sono scese in piazza in massa, vestite di nero, a Varsavia, sempre per protestare contro la proposta di legge oscurantista sull'aborto che proprio domani dovrebbe andare in discussione in Parlamento.

La legge polacca, risultato di un compromesso tra Chiesa e Stato risalente al 1993, vieta l’interruzione volontaria di gravidanza, eccetto che in caso di stupro, incesto, gravissime malformazioni del feto e seri rischi per la vita della madre entro la 12esima settimana di gestazione.

La proposta depositata nella primavera scorsa in Parlamento su iniziativa del movimento fondamentalista cattolico pro-life Ordo Iuris con l’appoggio delle forze della destra mira a stralciare anche queste poche eccezioni, portando il divieto in un assoluto cosmico degno della gnosi trascendentale, comunque in uno spazio non abitato da corpi. Una proposta di legge concorrente in direzione di una regolamentazione meno restrittiva è stata boicottata, mentre questa oltranzista prosegue il suo iter.

E così le donne hanno deciso di indossare abiti da guerriere punk, a cominciare dal video che ha iniziato a circolare sui social nell'aprile scorso realizzato dalla attivista Angela Cekin. Perciò l'hashtag della protesta davanti al Parlamento è Black Protest e sempre perciò le decine di migliaia di partecipanti, così come le attrici e opinioniste che sono comparse nei talk show in tv, erano vestite di nero.

Dai filmati della televisione Tvn24, la piazza di Varsavia che ospitava la manifestazione di ieri era stracolma di gente, in maggioranza donne di tutte le età. «Vogliamo amare, non morire», «Stop ai fanatici della destra», «Ogni donna deve avere il diritto di scegliere», alcuni degli slogan scritti sui cartelli. O anche: «Girls just have rights». «Il Pis (il partito conservatore Diritto e giustizia del leader Jaroslaw Kaczynski che detiene la maggioranza assoluta in Parlamento, ndr) tiene in poco conto le opinioni dei cittadini. Questi fanatici devono essere fermati», ha gridato al microfono Barbara Nowacka, del gruppo di organizzatori della manifestazione, «Iniziativa polacca», come si leggeva sullo striscione su fondo rosso che campeggiava sul palco.

La battaglia dei numeri sulla partecipazione è intanto più surreale del solito. Secondo il portavoce della polizia di Varsavia le manifestanti in piazza ieri non erano più di 5 mila, addirittura 3 mila a sentire il portavoce del municipio. Mentre dalle panoramiche aeree sembra più probabile che questi numeri debbano moltiplicarsi almeno per dieci. E comunque la proposta di legge di iniziativa popolare «Save Women» – che poi è stata insabbiata al Sejm, la Camera bassa – aveva raccolto oltre 250 mila firme.

Il numero degli aborti legali in Polonia finora ha oscillato, in base alla legge del ’93, tra i 600 e i mille all'anno, una delle cifre più basse d’Europa. Ma le organizzazioni femministe stimano gli aborti effettivamente praticati dalle donne polacche tra i 100 e i 150 mila l’anno: praticati o clandestinamente in patria o privatamente all’estero, specialmente in cliniche slovacche, ceche, austriache e tedesche.

Nella legge proposta da Ordo Iuris, e che i conservatori minacciano di approvare, per aver abortito una donna rischia fino a cinque anni di detenzione.

Lo scorso giugno per far arrivare pillole abortive in Polonia le attiviste estere hanno utilizzato persino un drone. Ora una ong olandese si dice pronta a inviare una nave-clinica a largo di Danzica.

In un opuscolo del governo per attrarre gli investimenti esteri il Ministero dello Sviluppo Economico “confessa” il vero effetto di vent'anni di riforme del lavoro: salari bassi e che crescono meno della media europea.

“Se Scalfarotto fosse stato leader del movimento di liberazione dei neri invece di quello LGBT, oggi sarebbero ancora a raccogliere il cotone, ma con l'iPhone”.

Questa battuta di qualche tempo fa raccoglieva l'efficacia del politico PD nel promuovere e difendere i diritti della comunità di cui si era fatto in qualche modo portavoce all'interno delle istituzioni, durante la discussione sui matrimoni omosessuali che con gran squilli di trombe diventò la simbolica Unione Civile, con molta soddisfazione di Scalfarotto che definiva la legge l'unica cosa che si potesse fare al momento, e che quindi bisognasse accontentarsi. Forse però la battuta era riduttiva, perché a leggere l'opuscolo pubblicato sul neo-portale www.investinitaly.com si potrebbe pensare che Scalfarotto avrebbe potuto avere una parte ben più attiva nella compravendita di schiavi, esaltando la forza e l'economicità della merce lavoro in vendita.

Se infatti si sfoglia la brochure, dopo il solito elenco di motivi per cui le aziende straniere dovrebbero venire a investire i loro soldi da noi, tra cui le “eccellenze italiane” e gli incentivi fiscali, si arriva alla sezione HUMAN CAPITAL & TALENT, in cui non si esalta tanto l'alta specializzazione dei lavoratori qualificati italiani, ma il loro basso costo, o meglio proprio il rapporto costo/qualità.

“L'Italia offre un livello salariale competitivo (che cresce meno che nel resto della UE) e una forza lavoro altamente qualificata”. Così recita il sottotitolo. Un esempio? “Un ingegnere in Italia guadagna in media un salario annuale di 38.500 €, mentre negli altri paesi europei lo stesso profilo guadagna in media 48.500 € all'anno”. Investitori, guardate qua! I nostri ingegneri costano 10.000 euro all'anno meno di quegli altri!

Ma non è finita: con tanto di grafici vengono presentati altri due dati, che possono apparire esaltanti o deprimenti a seconda che voi siate il Ministro per lo Sviluppo o un giovane laureato in cerca di lavoro: non solo la media dei salari è più bassa, ma cresce anche meno che negli altri paesi (+1,18% dal 2011 al 2014 contro il +1,69% inglese o il +2,32% tedesco), mentre un raffronto fra veri settori mostri che i salari italiani sono più bassi nel Chimico, nel Civile, nell'Elettronico e anche nel Meccanico. “Il costo del lavoro è ben al di sotto di economie simili come la Germania e la Francia” chiude trionfale il capitolo. Poi Renzi fa gli spot per il referendum costituzionale con il bambino che vuole fare “l'inventore” ma non vuole emigrare, come se la ragione del “furto di cervelli” da parte degli Stati centrali della UE (già da tempo abbiamo rifiutato la visione di una spontanea “fuga” visto che come dimostrano anche i dati c'è un disegno criminale per fare sì che i lavoratori più qualificati se ne vadano) sia dato dalla struttura istituzionale piuttosto che da quella del mercato del lavoro.

Al di là dell'effetto comunicativo che può fare storcere il naso anche ad alcuni liberali, perché certe cose è meglio farle ma non dirle, il governo ha ben ragione di festeggiare questo risultato.
Il Jobs Act insieme all'introduzione del sistema di sfruttamento legalizzato dei Voucher si sono inseriti perfettamente in un percorso di smantellamento dei diritti del lavoro e degli stipendi iniziato nel 1997 con il Pacchetto Treu e perfezionato dalle varie leggi Brunetta e Fornero, fino a quelle ultime.
Queste riforme pubblicizzate anche dalla maggior parte dell'informazione nazionale come necessarie per rendere il mondo del lavoro più “dinamico” però finalmente mostrano il loro vero volto. Non erano certo bastati decine e decine di articoli scientifici su tutte le riviste economiche mondiali che dicevano che la liberalizzazione del mondo del lavoro ha come primo obiettivo ed effetto la riduzione del potere contrattuale e quindi dei salari. Ecco, ora lo dice anche il Governo: siamo a tutti gli effetti i più competitivi di tutta Europa. Evviva!

Articolo
di Riccardo Rinaldi
da CONTROPIANO

Pubblicato
il 30 set 2016

Gli ultimi dati Istat confermano il fallimento ormai conclamato del Jobs Act rispetto alla creazione di nuova occupazione, in particolare per quel che riguarda i giovani. Su base annua, da agosto 2015 ad agosto 2016 gli occupati complessivi aumentano di 162mila ma la crescita è integralmente attribuibile alle persone con oltre 50 anni di età. L’aumento di 401mila occupati in questa fascia di età sta insieme alla diminuzione di 74mila occupati nella fascia tra 25 e 34 anni e di 164mila occupati nella fascia tra 35 e 49 anni. Nonostante la gigantesca quantità di risorse regalate alle imprese, i dati sono un disastro con i nuovi occupati che sembrano dipendere assai più dalla controriforma Fornero delle pensioni che dalle politiche del lavoro.
Nel frattempo il Jobs Act ha abbassato micidialmente i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e incrementato solo la precarietà con i voucher, i contratti a termine senza causale e la cancellazione dell’articolo 18 che rende precaria anche l’occupazione “permanente” giacchè i nuovi assunti sono tutti licenziabili.
La sua abrogazione è necessaria e sono di decisiva importanza i referendum sul lavoro promossi dalla CGIL.
http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2016/03/Referendum...
Paolo Ferrero
segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

Pubblicato
il 29.09.2016
di Massimo Villone

«Ringrazio l’ambasciata per aver organizzato questo incontro», dice la ministra Boschi prima del suo comizio per il Sì. La serata con la comunità italiana a Buenos Aires, 400mila elettori che peseranno nel referendum, è una tappa elettorale preparata dalla diplomazia italiana. E non è l’unico caso

Boschi si autocelebra in un tour mondiale per il Sì fra gli italiani all'estero. Fin qui si può forse capire, anche se è bassa cucina propagandistica. Non si capisce e non si perdona, invece, il supporto logistico e la presenza ufficiale di un’ambasciata. I pubblici impiegati – inclusi quelli di altissimo rango come gli ambasciatori – sono al servizio esclusivo della Nazione (art. 98.1 Cost.). Non del governo o di singoli ministri. Mezzo paese vuole il No, unitamente a un ampio arco di forze politiche parlamentari. Dovremmo forse cambiare cittadinanza e passaporto? E come potremo domani fidarci che il voto sia libero e uguale, non inquinato come le scorse esperienze di voto all'estero ci fanno temere? Prepariamo le carte bollate? E poi, ha detto la Boschi agli esultanti convenuti che la riforma li espelle dal senato, e li esclude dal ballottaggio per la camera?

Una lunga galleria di spot ci accompagnerà al voto referendario. È rispuntato persino il ponte sullo Stretto, che, senza mettere una pietra, ci è già costato – pare – circa 600 milioni. Equivalenti, secondo le stime dei risparmi fatte dalla Ragioneria dello Stato, a oltre 12 anni di riforma del senato, che sopravvive, mentre si abolisce il diritto dei cittadini di votare per i senatori.
Qualcuno ancora finge di non capire che il no referendario non viene da chi pretende un insuperabile bicameralismo paritario, ma da chi rivendica il diritto di scegliere i propri rappresentanti in parlamento. Il diritto di voto è in democrazia come il farmaco salvavita nel sistema sanitario: per entrambi non vale il criterio del massimo risparmio. Ora, per i gravosi impegni del ponte, riformeremo anche la camera? Potremmo chiuderla del tutto. Sarebbe un miliardo tondo risparmiato.
Lo spot pubblicitario di Renzi non reca traccia delle tante polemiche pregresse. A che serve traversare lo Stretto a grande velocità se prima e dopo si va a passo di lumaca? Quisquilie. Conta il colpo di teatro, i 100mila posti di lavoro che fanno il paio con i 500 milioni di euro della riforma costituzionale. Cifre fantasiose, ma basta l’annuncio. Tanto prima del voto referendario nulla potrebbe davvero succedere.

Si dice che abbiamo bisogno di un governo autorevole. Ma tale non è un governo che racconta favole smentite dai fatti, come per l’uscita dalla crisi o i vantaggi per i lavoratori derivanti dal Jobs Act, mentre stiamo diventando il paese dei voucher.
Per spiegare e convincere ci vuole certo autorevolezza. Ma per rendere la menzogna una verità di stato ci vuole un governo blindato nelle stanze del potere. Un governo non già autorevole, ma vestito di autoritarismo, sia pure blando. Una democrazia decidente, come dicono i sostenitori, tralasciando che si tratta di un decidere reso possibile da una legge elettorale taroccata e da un governo che domina il parlamento e spiega una pesante influenza sugli organi di garanzia. Mentre le voci fuori dal coro sono messe nell’angolo.
Circola una teoria per cui la perdurante crisi economica mette in crisi la democrazia come l’abbiamo conosciuta, e ne rende anzi necessario il superamento. E certo sentiamo scricchiolii preoccupanti. Ma qual è la risposta? Ridurre la rappresentanza politica attraverso leggi elettorali capestro, indebolire il parlamento, concentrare il potere sull’esecutivo e in particolare sul leader al comando? Al fine di lasciare il futuro al dominio del dio mercato, tagliando diritti conquistati con il sangue di generazioni ed esaltando le diseguaglianze? O al contrario puntare sulla più ampia partecipazione, sulla piena rappresentatività delle assemblee elettive, sulla necessità di ritrovare la coesione attraverso la politica, il confronto, la mediazione, il consenso? Con l’obiettivo di recuperare parità nei diritti e protezione dei più deboli?

l’Italia ha sostanzialmente fin qui seguito la prima strada, che si vuole ora definitivamente consolidare con le riforme in campo, costituzionale ed elettorale. Salvare la democrazia serrandola in catene, e riducendo i cittadini a sudditi. E perché non eleggendo solo il presidente del consiglio, magari trovandogli una location – in inglese per Renzi – sul balcone di palazzo Venezia? Massimo risparmio, esito garantito. Votiamo No, grazie.

Riportiamo alcuni stralci dei documenti emersi nell’Assemblea dei Comitati territoriali svoltasi a Roma il 18 settembre 2016, organizzata dal Comitato nazionale per il No nel referendum costituzionale

Il governo Renzi dopo infiniti ritardi si prepara a fissare la data del voto, ma il COORDINAMENTO PER UN NO SOCIALE ALLA CONTRORIFORMA COSTITUZIONALE propone già le date nelle quali far sentire le ragioni del NO.
IL 21 ottobre SCIOPERO GENERALE per la difesa dei diritti del lavoro e dello stato sociale, per difendere ed applicare la Costituzione del 1948, per dire basta al governo Renzi e al massacro sociale.
Il 22 ottobre NO RENZI DAY, manifestazione nazionale a Roma per dire NO alla Controriforma Costituzionale ed a tutti i suoi autori.
Diamo voce alla campagna per il NO, in sintonia con il COMITATO PER IL NO, nel nome del popolo sfruttato, precario, senza lavoro, impoverito, avvelenato. Per questo

VOGLIAMO
- L’APPLICAZIONE DEI PRINCIPI E DEI DIRITTI DELLA COSTITUZIONE DEL1948
- IL LAVORO, LA FORMAZIONE E LA SCUOLA PUBBLICA, LA CASA, IL REDDITO, LO STATO SOCIALE E I BENI COMUNI IN MANO PUBBLICA, L'AMBIENTE E LA DEMOCRAZIA, LA SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO.
- LA LIBERTÀ E LA SOVRANITÀ DEMOCRATICA DEL POPOLO ITALIANO, OGGI SOTTOPOSTA AD UN VERGOGNOSO ATTACCO DA PARTE DEI GOVERNI DEGLI USA E DELLA GERMANIA E DALLA BUROCRAZIA DELLA UE.

DICIAMO NO
- ALLA CONTRORIFORMA COSTITUZIONALE DEL GOVERNO, DELLA CONFINDUSTRIA, DELLE BANCHE E DELL' UNIONE EUROPEA.
- AL JOBSACT, ALLA PRECARIETA’ SOCIALE, ALLA BUONA SCUOLA, ALLA LEGGE FORNERO, AL DECRETO MADIA, ALLA TAV ALLE GRANDI OPERE, ALLA PERSECUZIONE DEI MIGRANTI, ALLA DISTRUZIONE DELLO STATO SOCIALE, ALLE PRIVATIZZAZIONI, AI TAGLI ALLA SANITA’, AGLI INTERVENTI SULLE PENSIONI A FAVORE DELLE BANCHE.
- ALLA GUERRA , ALLA NATO, ALLE SPESE E ALLE MISSIONI MILITARI
- ALLA REPRESSIONE PADRONALE, POLIZIESCA E GIUDIZIARIA

21/22 OTTOBRE NO ALLA CONTRORIFORMA
E AL GOVERNO RENZI

Tutte e tutti in corteo a Roma per il NO RENZI DAY da piazza San Giovanni

Coordinamento per NO Sociale alla Controriforma Costituzionale

Pubblicato il 19 set 2016

Dopo il fallimento delle politiche neoliberiste e dell’austerità, crollano anche i partiti che le rappresentano, come la grosse koalition in Germania. Bene quindi il risultato delle elezioni regionali a Berlino, con un’ottima affermazione dei nostri compagni della Linke, che, come Rifondazione, fanno parte della Sinistra Europea. Con ogni evidenza è proprio la proposta della Sinistra europea e di Tsipras, di uscita dalle politiche neoliberiste, con politiche di redistribuzione del reddito e giustizia, l’unica vera uscita dalla crisi e la sola alternativa ai neonazisti.
Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

Pubblicato il 16 set 2016

di Paolo Ferrero

E’ morto Carlo Azeglio Ciampi ed esprimo il mio cordoglio ai familiari.
Ciampi viene presentato come colui che ha restituito prestigio all’Italia. Non è vero: Ciampi con Andreatta, nel 1981, decise la separazione tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro. Quella decisione ha obbligato lo stato italiano ad approvvigionarsi sui mercati, diventando preda della speculazione internazionale. Da quel momento ed a causa di quella decisione, l’Italia ha visto crescere il suo debito pubblico in modo esponenziale: Ciampi ed Andreatta sono i veri padri del debito pubblico italiano, che da decenni viene usato come una clava contro il welfare e i diritti dei lavoratori. Ciampi è all’origine del disastro italiano, non del prestigio dell’Italia
Ps. Salvini ha dato del traditore a Ciampi. Peccato che la Lega Nord abbia condiviso tutte le principali porcherie fatte nella linea indicata da Ciampi, dal trattato di Maastricht a quello di Lisbona, fino al pareggio di bilancio in Costituzione

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