Acqua:


Il Parlamento europeo ha fatto propria la proposta dei movimenti per l’acqua

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19.05.2018

 

Si impone una visione ideologica e culturale di destra radicale, parte di origine Lega e fatta propria dal Movimento 5 Stelle -pensiamo all’immigrazione- e parte patrimonio comune, in relazione ad esempio alla concezione delle Istituzioni.

Della politica fiscale si è detto molto. Salvini ottiene l’introduzione della cosiddetta ‘flat tax’ ossia una riduzione delle aliquote fiscali a due, la prima al 15 per cento per i redditi più bassi, la seconda al 20 per cento. E’ una misura iniqua, che favorisce i ricchi che pagheranno molte meno tasse di oggi, e penalizza i poveri, che avranno vantaggi marginali e rischiano di vedersi smantellati i servizi che con quelle tasse sono finanziati. I ricchi vincono, i poveri perdono.

 

Altri capitoli del programma delineano una impostazione autoritaria e razzista.

 

Gli immigrati sono discriminati rispetto agli italiani. Non avranno diritto alle misure di sostegno al reddito. Il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’ e che in realtà è un sussidio di disoccupazione è riservato agli italiani. Lo stesso vale per le integrazioni alle pensioni più basse. E gli asili nido gratuiti? Solo per le famiglie italiane. Sottolineato italiane, sottolineato famiglie.

 

Passa il ‘prima gli italiani’ di Salvini e il Movimento 5 Stelle lo accetta.

 

E per la prima volta un programma elettorale mette nero su bianco il numero di immigrati da espellere: 500mila. Per le persone da cacciare, Lega e 5 Stelle pensano di istituire dei centri di detenzione, uno in ogni regione italiana.

 

Le norme per la richiesta dell’asilo vengono rese molto più dure, di fatto impossibili se si pensa all’idea di costringere il richiedente asilo a fare domanda nel proprio Paese. Tu scappi da un regime autoritario e ti devi rivolgere a quel regime per chiedere di ottenere asilo in Italia.

 

E ancora, procedure di espulsione rapide e un trattamento giuridico speciale. “Occorre poi prevedere specifiche fattispecie di reato che comportino, qualora commessi da richiedenti asilo, il loro immediato allontanamento dal territorio nazionale” è scritto.

 

La concezione della politica, dello Stato, della democrazia. Il semplice fatto che Lega e Movimento 5 Stelle abbiano scritto non un programma ma un ‘contratto’, che dovrà essere firmato dai leader dei due partiti davanti a un pubblico ufficiale che autenticherà le firme -così è previsto- denota una concezione privatistica della politica.

 

Ma questa forse potrebbe ancora essere considerata questione astratta. Molto più concreta, drammaticamente concreta, la prospettiva della riforma della Costituzione per introdurre il vincolo di mandato dei Parlamentari. La Costituzione figlia della Resistenza al fascismo fa della libertà del Parlamentare da qualsiasi vincolo di mandato uno dei suoi capisaldi per garantire libertà e democrazia. La ragione dovrebbe essere intuibile. Un deputato il cui destino fosse legato alla fedeltà al partito con cui è stato eletto, si ridurrebbe a essere un mero esecutore delle scelte di chi quel partito comanda.

 

Del resto, quali libertà di azione avrebbe un Parlamentare a cui venisse imposto, se volesse presentare un disegno di legge, di ottenere il consenso congiunto dei capigruppo dei due partiti? Fantasie? No, lo prevede il ‘contratto’.

 

Del ‘comitato di conciliazione’ nella bozza definitiva si dice poco. Il ‘contratto’ prevede, dopo le polemiche dei giorni scorsi, non un passo indietro ma un semplice rinvio a successivi accordi per la definizione della sua composizione. Rimane inalterato il principio: sui temi di interesse principale e ogni volta che ci saranno contrasti, sarebbero i partiti a decidere. 

 

Il Governo e il Parlamento sarebbero svuotati delle loro prerogative, ridotti a esecutori di volontà altrui.

 

 

Norma Rangeri

da Il Manifesto

 

Non c’è ancora un presidente del consiglio, non conosciamo i ministri e non sono dettagli di secondaria importanza.

Ma se questo è il programma, avremo un governo segnato da una forte impronta culturale. Vedremo all’opera una politica della giustizia, dell’ordine pubblico, dell’immigrazione e delle libertà civili che in Europa è già al governo in Ungheria.

Ci fosse una sinistra starebbe all’opposizione anche se con qualche problema a trovare ancora posti liberi.

Tanto affollamento nell’area dei contrari è perlomeno sospetto, a meno di sostenere che il fascismo è alle porte.

Una sinistra starebbe all’opposizione ma distinta e distante da quelli che si siedono affranti sulle poltroncine di Porta a Porta perché stanno arrivando i barbari e si parla di debito pubblico. Oltretutto, come si sa, i barbari furono capaci di rinvigorire la radice romana.

Il primo attore di questo teatro delle opposizioni è Berlusconi che si candida a sentinella dell’Unione europea e ci rassicura sull’inesistenza dei complotti. Come se non fosse stato proprio lui a parlare di quattro o cinque colpi di stato durante il suo governo.

Della compagnia di giro fa parte anche il quasi ex ministro Calenda, che sprona il Pd a scendere in piazza: potrebbe essere l’occasione per scoprire quali folle risponderebbero all’appello.

I giornali sono schierati come un sol partito dietro il Financial Times.

E Bruxelles difende l’indifendibile senza rendersi conto che, se non cambia rotta, alle prossime elezioni europee avrà contro la maggioranza dei paesi membri.

Questa è la ricca compagnia. Verrebbe voglia di andare controcorrente.

Un’opposizione di sinistra ai 16 milioni di elettori che il 4 marzo hanno votato Lega e 5Stelle è una bella sfida.

Perché l’esperimento del laboratorio politico giallo-verde ci metterà di fronte a scenari inediti.

Se non sono solo e tutte chiacchiere (come sembra con il dietro-front sulla Tav), non ci vorrà molto a scoprirlo.

Se invece sul fronte delle politiche sociali e ambientali si metteranno in campo cambiamenti veri, su quel terreno la sinistra già lottava quando di Di Maio e compagnia non v’era traccia.

17.05.2018


Stamattina siamo stati ospiti a Coffee Break La7, ascoltate Viola Carofalo su nuovo governo, Europa, debito pubblico e lavoro. Non ascolterete niente di simile da nessun'altra forza politica!

 

"Cosa pensa Potere al Popolo questo contratto fra Lega e 5 Stelle?" "Va benissimo ridiscutere i trattati, ma non per fare la flat tax, non per continuare ad avvantaggiare i ricchi, ma per andare verso la redistribuzione della ricchezza. C'è un'ingerenza dell'Europa, ma bisogna contestarla per fare gli interessi delle classi popolari. Di Sud poi nel contratto se ne parla solo una volta, e questo è assurdo rispetto alla situazione che denunciano anche i dati ISTAT usciti ieri. Di lavoro non si parla, di Sud non si parla e non si parla di questione sociale!"

 

17.05.2018

 

COMUNICATO STAMPA

 

ILVA – PRC: “Morti sul lavoro: numeri di una mattanza. Serve lo sciopero generale.

 

Maurizio Acerbo e Enrico Flamini, segretario nazionale e responsabile Lavoro di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, dichiarano:

Questa mattina all’Ilva di Taranto si è verificato l’ennesimo incidente mortale ai danni di un lavoratore. Angelo Fuggiano, di 28 anni, dipendente della ditta Ferplast, è morto travolto da un’enorme fune d’acciaio.

E’ la quarta morte sul lavoro in pochi giorni – dopo quelle di Carrara, Monfalcone e La Spezia, e senza contare i lavoratori delle Acciaierie Venete di Padova che lottano per rimanere in vita. Sono i numeri di una mattanza; un bollettino di guerra che ci dice una cosa inequivocabile: nell’Italia di oggi, nell’Italia del Jobs Act e della precarietà di massa, la vita di lavoratori e lavoratrici vale meno del denaro che le imprese devono spendere per garantire condizioni di sicurezza.


All’Ilva si tratta – come accade molto spesso – della cronaca di una morte annunciata: lavoratori delle ditte degli appalti esterni che lavorano fino a 12 ore, non si investe su sicurezza e manutenzione, i sindacati avevano scioperato poco tempo fa proprio denunciando la situazione.


Questo è il volto feroce della nuova lotta di classe: quella che i ricchi stanno portando avanti contro la gente che lavora. Per contrastare questa offensiva è necessaria la più ampia mobilitazione, in tutto il paese, fuori e dentro i luoghi di lavoro.


Rifondazione Comunista si stringe accanto alla famiglia di Angelo Fuggiano e sostiene ogni iniziativa di lotta che verrà messa in campo dalle rappresentanze dei lavoratori.
Per i governi e le imprese salvare la vita di lavoratrici e lavoratori non è un’emergenza da affrontare.
Ci vuole uno sciopero generale per pretendere che il prossimo governo ponga fra le sue priorità la sicurezza nei luoghi di lavoro e il ripristino e l’estensione dei diritti cancellati negli ultimi anni”.

 

16.05.2018

Paolo Ferrero 

 

Lega e 5 stelle stanno continuando a trattare sul governo. Gli speculatori e l’Unione Europea stanno facendo un po’ di terrorismo per condizionare tutta la questione. Mi pare che non ne abbiano bisogno….
Sull’Europa solo propaganda. Chiedere di cambiare i trattati e che la BCE ci regali 250 miliardi è pura propaganda. La vera decisione politica riguarda il cosa dire e cosa fare una volta che ti ridono in faccia. La retorica del “battere i pugni sul tavolo” è già stata usata una volta e non sposta un millimetro. La strada dovrebbe essere il disobbedire ai trattati, ma di questo non se ne parla perchè un conto è raccontare balle e un conto è scontrarsi sul serio con i ricchi e i poteri forti (che hanno ampiamente votato Lega e M5S).
Sulla distribuzione del reddito viene prevista la flat tax e cioè un favore ai ricchi che togliendo entrate allo stato apre la strada ad ulteriori privatizzazioni del welfare.
Un bel po’ di politiche securitarie contro i poveri e i migranti, come ogni governo di destra che si rispetti..
Poi ci sono un bel po’ di promesse su pensioni, reddito minimo, etc etc. Quando ci diranno dove trovano i soldi visto che ne vogliono regalare un bel po’ ai ricchi e l’Unione Europea non scucirà un quattrino, potremo discuterene seriamente. Prima è solo la prosecuzione di una campagna elettorale che comincia ad essere un po’ troppo lunga (mentre i padroni del vapore continuano a fare i loro comodi).

 

Ci troviamo quindi di fronte ad un governo con un profilo di destra a cui i giornali main stream con PD e Berlusconi contrappongono un impianto di destra tradizionalmente liberista. Uno scontro interno alle classi dominanti, non un terreno di alternativa.

 

Di fronte a questa situazione chi è destinato a deludere di più il suo elettorato è il Movimento 5 stelle. La Lega il suo elettorato lo sta tutelando..
Per uscire da questa situazione non servono governi tra PD e 5 stelle: difficile dire se sarebbe peggio o meglio dell’attuale visto che le critiche che il PD ha fatto alle indiscrezioni sul programma sono quasi tutte da destra… Con buona pace di Tomaso Montanari, attendere le palingenesi del PD, come se il problema fosse Matteo Renzi, costituisce un desiderio dotato di scarsi fondamenti, tecnicamente un miraggio.

 

Il punto è che è impossibile costruire l’alternativa se non si capisce che senza drastica redistribuzione del reddito dai ricchi ai poveri e un forte intervento pubblico in economia – dal welfare alla riconversione ambientale delle produzioni – non vi sarà alcuna alternativa ma solo la prosecuzione e l’accentuazione della guerra tra i poveri.
Per questo serve un soggetto politico e sociale dell’alternativa che sia in grado di dialogare positivamente con la delusione che stanno vivendo molti cittadini che avevano votato M5S “per cambiare”. Un soggetto completamente alternativo alle due destre – tanto quelle populiste come quelle liberiste – ma popolare, a bassa soglia d’ingresso, fondato sulla condivisione di pochi punti programmatici fondamentali e di una pratica sociale conflittuale e solidale. Potere al Popolo è nato su questa ipotesi politica e il cul de sac in cui si è infilato il M5S ci chiede di fare un salto di qualità proprio nel carattere ampio, popolare, plurale e inclusivo del nostro progetto. Non un nuovo partito ma una strumento dell’organizzazione solidale e conflittuale del popolo.

Tommaso Di Francesco

 

I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».

 

Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».

 

Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.

 

Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.

 

Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.

 

Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.

 

Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».

14.05.2018

 

Scienziati e medici italiani ed inglesi hanno pubblicato questa lettera dal titolo The Maiming Fields of Gaza (I campi dei mutilati di Gaza) sul British Medical Journal  https://www.bmj.com/content/34 9/bmj.g6644/rr.  A Roma convocato un sit in urgente sotto Montecitorio alle ore 17.30 di martedi 15 maggio.

 

La traduzione in italiano

 

Dal 30 marzo 2018, i civili palestinesi che vivevano come profughi ed esiliati a Gaza da quando erano stati cacciati dalla Palestina si sono radunati in manifestazioni disarmate di massa sul loro diritto al ritorno nella patria che hanno perso nel 1948. Affrontati dall’esercito israeliano, inclusi 100 cecchini, il bilancio dei morti e feriti civili palestinesi sta crescendo a un ritmo scioccante mentre scriviamo.
C’è uno sfondo per questo. In primo luogo, vi è l’impatto in atto del blocco israeliano di Gaza durato 12 anni circa la cura e la salute della sua gente e il degrado dei suoi servizi sanitari. La violenza e la distruzione inflitte dall’azione militare israeliana in Operazione Protective Edge nel 2014 e Operazione Cast Lead nel 2008-9 hanno segnato un netto punto di svolta nella pauperizzazione di Gaza, sullo sfondo di un blocco sempre più serrato dal 2006. Questo assalto nel 2014 è stato ucciso oltre 2.200 civili, un quarto dei quali erano bambini, feriti 11.000, distrutto 15 ospedali, 45 cliniche e 80.000 case. (1)

 

Dal 2014 Israele ha ulteriormente ristretto il passaggio di medicinali e attrezzature essenziali a Gaza e l’ingresso di medici ed esperti stranieri che offrono competenze tecniche non disponibili a livello locale. Gli ospedali di Gaza si sono impoveriti di antibiotici, agenti anestetici, antidolorifici, altri farmaci essenziali, articoli usa e getta e carburante per gestire i teatri chirurgici. (2) I pazienti muoiono mentre aspettano il permesso di andare in terapia specialistica fuori da Gaza. Tutti gli interventi di chirurgia elettiva sono stati annullati dallo scorso gennaio 2018 e 3 ospedali sono stati chiusi a causa di farmaci, attrezzature e scarsità di carburante (3). Il personale medico ha lavorato a stipendi ridotti. I professionisti della sanità di Gaza trovano quasi impossibile ottenere il permesso israeliano di recarsi all’estero per migliorare la loro formazione. I regolari episodi di assalto militare a Gaza e l’attuale attacco di manifestanti disarmati fanno parte di un modello di emergenze periodicamente indotte dalla politica israeliana. Gli effetti cumulativi dell’impatto sull’assistenza sanitaria per la popolazione generale sono stati documentati in più rapporti da ONG, agenzie delle Nazioni Unite e OMS. (4). Questa sembra essere una strategia per il de-sviluppo dei servizi sanitari e sociali che colpiscono tutta la popolazione di Gaza.

 

L’attuale uso sistematico di una forza eccessiva nei confronti di civili disarmati, compresi bambini e giornalisti, sta provocando un’ulteriore crisi per il popolo di Gaza. Dal 30 marzo 2018, i cecchini che sparano munizioni di grado militare hanno causato ferite paralizzanti a dimostranti disarmati. (5) A partire dal 23 aprile 2018, 5511 palestinesi, inclusi almeno 454 bambini, sono stati feriti dalle forze israeliane, inclusi 1.739 da munizioni vere secondo il Ministero della Sanità palestinese a Gaza. A partire dal 27 aprile, il bilancio delle vittime ha raggiunto i 48 (a cui si aggiungono i 55 del massacro di oggi lunedi 14 maggio, ndr) e altre centinaia di feriti.

 

Persino la BBC ha mostrato film sulle deliberate sparatorie di persone che stavano in piedi inoffensive o che stavano scappando, compresi bambini e giornalisti (6). Il fuoco da cecchino è per lo più non alla testa, con la maggior parte delle ferite alla parte inferiore del tronco e alle gambe. Dozzine hanno avuto bisogno dell’amputazione di emergenza di una o di entrambe le gambe, e altre 1.300 hanno richiesto fissazioni esterne immediate che comporteranno circa 7.800 ore di chirurgia ricostruttiva complessa successiva se si vogliono salvare gli arti. Questo è calcolato maiming. Altre persone potrebbero morire o incorrere in invalidità per tutta la vita a causa del degradato stato di salute del paese, il divieto da parte di Israele del trasferimento per i feriti gravi (7). In che modo Gaza sopravvive a questa situazione? E nel frattempo, ai molti che hanno perso l’assistenza sanitaria non di emergenza a causa della continua mancanza di medicine ed energia, si aggiungeranno molti altri, ora che tutte le scarse risorse vanno a sostenere gli sforzi per cercare di salvare gli arti colpiti.

 

Mentre varie agenzie delle Nazioni Unite e dell’OMS hanno condannato le azioni israeliane, i governi occidentali non hanno fiatato e quindi rafforzano l’impunità che Israele sembra sempre godere nelle azioni sostenute verso la società palestinese. Altri che cercano di documentare e attirare l’attenzione su eventi come questo, anche su riviste mediche, sono spesso soggetti a denigrazioni e attacchi ad hominem, così come gli editori di riviste (8). Sono questioni di vergogna internazionale.

14.05.2018

 

Quattro lavoratori delle Acciaierie Venete sono stati investiti da una colata di acciaio. Due di loro sono in condizioni gravissime con ustioni sul 100% del corpo. Un terzo lavoratore presenta ustioni al 70% del corpo. Un quarto, meno grave, è all'ospedale Sant'Antonio di Padova. Secondo le prime ricostruzioni di ieri, l'incidente si sarebbe verificato a causa della rottura di alcuni supporti che sostengono i tubi nei quali scorre l'acciaio allo stato liquido. Terribile il racconto dei sopravvissuti, come Simone Vivian, 34 anni, residente a Vigonovo: «E' stato un inferno di fuoco, ma sono vivo» è il messaggio inviato subito al padre. E' stato dimesso ieri notte con una prognosi di 15 giorni.
Stabili, anche se ancora molto gravi, le condizioni dei tre operai rimasti feriti con ustioni in gran parte del corpo e ricoverati negli ospedali di Padova, Cesena e Verona. Sergio Todita, 39 anni, moldavo, Marian Bratu, 43 anni, di origine rumene sono i più gravi. Colpito dall'esplosione anche David Frederic Gerard Di Natale, 39 anni, italo-francese.



"Nessuno parli di fatalità. Il ripetersi quotidiano di gravissimi incidenti sul lavoro, spesso mortali - si legge in una nota del Prc del Veneto - ci parla di altro. Ci parla del mancato rispetto delle norme di sicurezza e dello sfruttamento sempre più intenso del lavoro. E' il risultato di anni di politiche di devastazione delle tutele e dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori".
Per il Prc, c'è solo una strada da percorrere: quella della lotta "per difendere le nostre vite e per il nostro futuro. La sola risposta è lo sciopero generale, almeno nel Veneto, dove i grassi profitti dei padroni vengono pagati da noi con i bassi salari, la precarietà e la catena infinita di infortuni che si ripetono quotidianamente".



Sono in corso da questa mattina 24 ore di sciopero nei 6 stabilimenti del gruppo Acciaierie Venete. Sempre per oggi è previsto, presso il sito di via Silvio Pellico a Padova, un "presidio di solidarietà" per i lavoratori feriti. Ricordiamo, inoltre, che lo stabilimento di riviera Francia è stato posto sotto sequestro e tutte le attività produttive e lavorative sono naturalmente ferme fino a data da destinarsi. Anche i lavoratori di altre aziende siderurgiche del Veneto aderiranno allo sciopero di domani.

 

Dopo questa indegna giornata per il mondo del lavoro, Loris Scarpa, segretario della Fiom Cgil di Padova, ha dichiarato: "Basta è ora di fermarsi e di ripristinare le priorità! Il lavoro e il come si lavora sono l'unica priorità! Non possiamo permetterci più altre tragedie, non possiamo più contare solo i morti, i feriti e gli invalidi. È necessario fermarci e ripensare profondamente a quali sono le priorità di un Paese evoluto e che vuole progredire. Perché dobbiamo lavorare in queste condizioni? A noi non interessano i costi né i profitti, ma vogliamo lavorare solo per costruire un futuro dignitoso per noi e i nostri figli. Il lavoro, e non il mero contenimento dei costi, dovrebbe essere il segno del vero progresso. Questi fatti non riguardano più solo i sindacati e le imprese, ma devono riguardare chi governa e chi vuole governare questo Paese."

 

Subito dopo l’incidente la Cgil nazionale ha diffuso una nota: “Siamo di fronte ad una drammatica emergenza nazionale che ci interroga sul legame tra condizioni di lavoro e modello di sviluppo e innovazione”.‘Nella lotta contro gli infortuni - prosegue la Cgil, che esprime vicinanza ai lavoratori vittime degli infortuni e alle loro famiglie -siamo tra due fuochi: da un lato il vecchio modo di lavorare, specie nei settori più colpiti, in cui si continua a morire esattamente come mezzo secolo fa; dall’altro, il nuovo che avanza, il futuro 4.0, portatore di nuovi fattori di rischio e malattie professionali, in parte ancora non indagati” . Per la Cgil, “occorre, dunque, potenziare i controlli per rendere esigibili le leggi esistenti, da implementare e modellare anche sulla base delle nuove esigenze” .

13.05.2018

Giorgio Cremaschi

 

 

Io non ho dubbi che il governo Salvini Di Maio sarà un governo di destra, nel senso sociale e politico che questa parola ha nella storia d'Italia.

Credo che la flat tax, cioè la riduzione delle tasse ai ricchi sperando che con i soldi così intascati facciano girare l'economia, sia il segno più chiaro che questo sarà un governo di destra. È bene ricordare che questa misura fu introdotta negli USA dal super reazionario Ronald Reagan e produsse una valanga di poveri. Una finta abolizione della Fornero e un finto reddito di cittadinanza dovrebbero riequilibrare la flat tax dal lato sinistro, ma secondo me non cambieranno la sostanza.


A questo governo nascente di destra oggi il presidente della Repubblica ha dato un altolà. Nel nome dell'eguaglianza sociale e dei diritti dei lavoratori? Ma neanche per sogno.

Mattarella ha fatto capire che non accetterebbe senza discutere ciò che avessero concordato Cinquestelle e Lega. E per essere più chiaro ha usato l'esempio del presidente Einaudi che nel 1953 nominò capo del governo Giuseppe Pella contro il volere di gran parte della DC.

È bene allora ricordare che il liberale Einaudi nel dopoguerra fu il primo sostenitore delle terribili politiche economiche liberiste, ferocemente antisociali e antioperaie, che non solo le sinistre comuniste e socialiste, ma anche una parte della DC combattevano.

Giuseppe Pella era un democristiano di estrema destra, clerico fascista si diceva allora, che come ministro economico aveva sostenuto politiche rispetto alle quali quelle di Monti Fornero potrebbero sembrare progressiste.

Nel 1953 per far dispetto a De Gasperi, troppo a sinistra per lui, Einaudi nominò capo del governo Pella, che ebbe la fiducia grazie al voto determinante dei monarchici, allora presenti in parlamento con una certa forza. Anche il fascista MSI guardò a Pella con benevolenza. Che da critica divenne entusiasta quando il capo del governo mobilitò l'esercito alla frontiera orientale minacciando la guerra alla Jugoslavia per Trieste, ancora sotto amministrazione angloamericana.

Per fortuna la sua stessa follia guerrafondaia mise in crisi il governo e Pella si dimise. Rimanendo però per anni una figura di riferimento per tutte le peggiori destre.
Ora questo reazionario patentato sarebbe diventato un esempio rispetto al governo che stanno preparando Salvini e Di Maio. E la sinistra riformista guidata da La Repubblica si esalta. Quanto sia trasmigrata a destra tutta la politica italiana lo dimostra proprio l'uso di Pella come esempio positivo.

Di questa catastrofe politica e culturale sono primi responsabili il PD e il centrosinistra. Che per venticinque anni hanno fatto politiche di destra, e arrivano oggi a sostenere idee e persone che la vera sinistra ha sempre ripudiato.

12.05.2018

 

“La proposta del governo sulla vertenza Ilva è irricevibile. La trattativa non è mai entrata nel merito, ma nulla è comunque cambiato sull’occupazione. La Fiom non mette la firma su un accordo che prevede licenziamenti”. Lo ha affermato ieri il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, la Fiom, su Twitter al termine dell’incontro al ministero dello Sviluppo che si è concluso con un nulla di fatto. “Nella proposta – ha specificato poi la segretaria generale Francesca Re David – non ci sono cambiamenti da parte di Mittal. Il problema è che tutto il negoziato è condizionato dal contratto di affitto e la trattativa è bloccata da questo contratto. Mittal – osserva ancora la dirigente sindacale – non ha bisogno di un accordo sindacale per acquisire l'Ilva, l'accordo è solo vincolante per averla alle condizioni imposte dalla società. Noi non potremmo mai firmare un accordo che poi ci viene bocciato dai lavoratori”. A suo giudizio la questione non è politica, bensì sindacale. “A me non interessa da chi è formato il governo, ma interessa il merito”, spiega Re David, rispondendo alle accuse di aver respinto il piano Calenda per aspettare il prossimo esecutivo. Oggi è stato fatto “solo qualche cambiamento da parte del governo e non di Mittal che non si è spostata mai di un centimetro. I lavoratori boccerebbero l'accordo, noi non siamo al servizio di nessuno”. "Per quanto ci riguarda – aggiunga le sindacalista – siamo pronti a riprendere il negoziato senza vincoli predeterminati”.

Alcune ore dopo l'interruzione della trattativa la Fiom ha reso noti nel dettaglio i punti di dissenso. Il documento nella sostanza, per i meccanici della Cgil, non rappresenta altro che la sintesi dei punti e delle condizioni che il Governo ha negoziato con ArcelorMittal e che da ormai diversi incontri viene riproposto alle organizzazioni sindacali come possibile accordo. Vengono riconfermati i 10.000 lavoratori che ArcelorMittal intenderebbe assumere sempre con il criterio della discontinuità formale e non sostanziale del rapporto di lavoro. "Unitariamente abbiamo ribadito che l’acquisizione di Ilva non può prescindere dai circa 14.000 lavoratori coinvolti e che ArcelorMittal deve farsi carico di tutti i lavoratori. Assunzione che deve essere effettuata in continuità del rapporto di lavoro. Viene data la possibilità per ArcelorMittal, a partire da subito e fino al giugno 2021, di esternalizzare una serie di attività da lei individuate affidate a una società di servizi di nuova costituzione con la presenza di Ilva e da Invitalia aperta alla partecipazione di altri soggetti pubblici e privati a cui sarebbe collegata un’operazione di esternalizzazione di 1.500 lavoratori", spiega la nota.
Si tratta di "lavoratori che per un certo periodo ruoteranno anche in Cigs e che non passeranno ad ArcelorMittal. Questa operazione - da noi giudicata inaccettabile - consentirebbe ad ArcelorMittal di esternalizzare una serie di attività e di lavoratori in una prima fase alla 'procedura' e in un secondo tempo ad aziende terze che si occuperebbero di queste attività. ArcelorMittal inizierebbe da subito a esternalizzare le attività senza alcun vincolo e garanzia per i lavoratori coinvolti".
"Per i rimanenti lavoratori vengono individuati una serie di strumenti per favorire esodi volontari, attraverso incentivi economici, outplacement, autoimprenditorialità e accompagnamento alla pensione. Per questi interventi il Governo mette a disposizione fino a 200 milioni di euro per garantire importanti piani di incentivazione all’esodo – aggiunge la Fiom –. Strumenti, che anche per alcuni di essi di carattere volontario, contrastano con la richiesta sindacale di garantire i livelli occupazionali".
Sulla base di questi punti, "abbiamo ritenuto unitariamente non sottoscrivibile il testo consegnato dal Governo, e di conseguenza l’interruzione della trattativa fino a quando non interverranno novità rilevanti rispetto alle richieste avanzate unitariamente dai sindacati. Alla luce della situazione attuale è necessario continuare con le assemblee dei lavoratori sia per un aggiornamento della situazione sia anche per valutare l’avvio di una fase di mobilitazione sindacale", conclude la Fiom. La bocciatura è condivisa dai metalmeccanici di Cisl e Uil. “Il testo non è condivisibile”, aggiunge Rocco Palombella (Uilm). “Gli esuberi restano”, conferma Fabrizio Bentivogli (Fim). Secondo quanto riferiscono i sindacati, a sospendere il tavolo sarebbe stato il ministro Carlo Calenda perché secondo alcuni “non legittimato a trattare”. I rappresentanti dei lavoratori sperano comunque in una ripresa della trattativa. “Per noi è importante andare avanti – sottolinea Palombella – ma non si può trattare con i diktat. Affidiamo alla responsabilità del governo, che per noi è ancora un valido interlocutore, di riconvocare ancora il tavolo”.

Duro anche il giudizio dal sindacato dei territori dove operano gli stabilimenti Ilva. "Il Governo un minuto prima di andarsene, tenta di scaricare sul sindacato le sue responsabilità contenute nell’accordo segreto siglato con Mittal che un anno fa ha precostituito: esuberi, taglio del salario e aggiramento della legge dello Stato che prevede la continuità del rapporto di lavoro, possibilità di esternalizzare attività ora gestite in modo diretto e, per Genova, il non rispetto dell'Accordo di Programma. Scrivere, come ha fatto il governo che convocherà un tavolo per attuare gli impegni dell'Accordo di programma mentre si confermano 600 esuberi a Genova è una bella presa in giro, che la Fiom Cgil respinge al mittente", si legge in una nota di Bruno Manganaro, segretario generale della Fiom di Genova. "Gli ultimi 10 mesi, il Governo li ha passati cercando di farci ingoiare questi rospi, atteggiamento reiterato nell’incontro di oggi dove ha ripresentato lo stesso schema, con qualche brillantino (vedi incentivi all'esodo). Una delle più grandi aziende siderurgiche in Europa svenduta con meno lavoratori ed in condizioni peggiori: è questo che offre il Governo al Paese. Per la Fiom Cgil, Mittal può acquisire Ilva nel rispetto della continuità del posto di lavoro, reddito, diritti e nel rispetto dell'Accordo di Programma per Genova e questo è il messaggio che ci sentiamo di consegnare al prossimo esecutivo", conclude il sindacalista.

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