Acqua:


Il Parlamento europeo ha fatto propria la proposta dei movimenti per l’acqua

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Paolo Berdini

 

Evidentemente la capitale d’Italia non riesce a far tesoro degli scandali degli ultimi anni, quelli che hanno svelato una città dominata da un mondo affaristico-malavitoso capace di mettere la politica alle proprie dipendenze.

 

Era il 2 dicembre del 2014 quando prese il via l’inchiesta “mondo di mezzo” che azzerò la classe politica al governo della città. Imprese e cooperative colluse con la malavita per l’accaparramento di funzioni fino a pochi anni prima svolte egregiamente dalle amministrazioni pubbliche.

 

Il sistema degli appalti fu sottoposto ad una profonda verifica, anche grazie all’Anac di Cantone. E fu sempre in risposta alla domanda di trasparenza e onestà che nel giugno 2016 Roma affidò ai 5Stelle e a Virginia Raggi le chiavi del governo della città.

 

La nuova giunta si era dunque affermata per porre in essere una profonda discontinuità di metodo e di contenuti.

 

In quello stesso periodo, il governo delle città, la vera radice di tutti i mali italiani, non fu però sottoposto ad identica attenzione. Anzi.

 

Oggi i «piani casa» di ogni regione permettono di demolire e ricostruire immobili, anche in zone di pregio storico e ambientale, con notevoli incrementi di volumetrie. Le coste italiane, e perfino quartieri bellissimi come quello di corso Trieste a Roma, sono stati aggrediti dalla eterna speculazione immobiliare.

 

Alla camera dei deputati è stata fortunatamente bloccata una legge di cosiddetta rigenerazione urbana che avrebbe permesso alla proprietà fondiaria di intervenire ulteriormente senza alcuna regola.

 

Ma identica filosofia è contenuta nella recente legge urbanistica della regione Emilia Romagna, nella legge della rigenerazione urbana del Lazio e nella proposta di legge che l’attuale giunta regionale dell’Abruzzo vuole approvare ad ogni costo.

 

Si continua a pensare che solo la cancellazione del governo pubblico sia l’obiettivo da raggiungere.

 

A ROMA, I SEGNALI che sull’urbanistica si sarebbero dovuti accendere i fari dell’attenzione erano stati molto espliciti.

 

Il 16 dicembre 2016 viene arrestato Raffaele Marra, potente braccio destro del sindaco Raggi.

 

Narrano le cronache che nel suo appartamento furono trovate alcune pratiche urbanistiche che avrebbero dovuto essere ospitate nell’assessorato che dirigevo.

 

L’urbanistica mette in moto interessi così giganteschi che la trasparenza dà fastidio a chi ha il potere economico – fondiario ed è molto meglio lasciare tutto nell’ombra di oscure trattative.

 

In poco tempo, anche grazie al “commissariamento” della Raggi imposto da Di Maio attraverso due uomini di sua fiducia (i deputati -oggi ministri- Fraccaro e Bonafede), l’urbanistica romana è tornata nel porto delle nebbie e nella continuità con le precedenti amministrazioni comunali.

 

La vicenda dello Stadio della Roma sta tutta in questa forbice con l’esigenza di trasparenza e di moralità che la giunta Raggi aveva promesso ad una città che sperava in un cambiamento radicale.

 

La stessa Raggi, ad esempio, aveva condotto una limpida battaglia contro la decisione del sindaco Marino di costruire lo stadio a Tor di Valle, salvo poi cambiare punto di vista e annullare tutto il lavoro di recupero di trasparenza e legalità che, durante il mio impegno nella giunta capitolina, avevo impostato.

 

Del resto, nelle trattative oscure con la proprietà fondiaria non servono assessori competenti, servono mediatori e affaristi.

 

MA LA VICENDA STADIO non è la sola. Ad Ostia, sciolta per mafia, nonostante due anni e mezzo di commissariamento è stata approvata solo una bozza di piano degli arenili che lascia in mano al potente partito dei balneari il destino del litorale.

 

Del resto, le meritorie demolizioni degli abusi iniziate per merito dell’allora commissario al litorale, il magistrato Sabella, sono state abbandonate.

 

Il settore del commercio ambulante è stato riportato indietro rispetto alle politiche di Ignazio Marino.

 

La rete delle esperienze sociali che tengono viva la città, come la Casa internazionale delle Donne, sono ignorate e rischiano lo sgombero.

 

Sulla fame di case pubbliche non si è fatto nulla e continuano le dolorose occupazione da parte della città dei poveri.

 

Sull’area pubblica dei Mercati generali di Ostiense si vuole approvare un progetto che prevede il verde per gli abitanti di quel quartiere, del tutto privo di parchi, ubicato a venticinque chilometri di distanza.

 

Dalla svolta urbanistica siamo tornati agli orrori dell’urbanistica contrattata.

 

E’ sul tradimento delle speranze per una città migliore che doveva guardare ai bisogni delle periferie e non agli affari, che dovremmo portare la discussione.

 

E’ infatti indubbio che questo ennesimo grave colpo d’immagine della capitale potrà provocare disorientamento e ulteriore distacco dalla partecipazione politica.

 

Per riportare la capitale degli scandali urbanistici ad avere fiducia nel futuro è necessario un progetto di città che sappia mettere per sempre in soffitta affaristi e politica succube.

 

E’ solo con una profonda svolta etica verso la città intesa come bene comune che potremo ricostruire il futuro di Roma e delle nostre città.

 

* L’autore è ex assessore all’urbanistica della giunta Raggi

Pubblicato il

13.06.2018

Strasburgo

 

Voglio ringraziare i sindaci che hanno aperto i porti delle città per accogliere la nave Aquarius. Mi hanno fatto provare meno vergogna di essere italiana ed europea” tuona così l’eurodeputata Eleonora Forenza (GUE/NGL) durante la plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo riunitasi per discutere l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo in seguito alle vicende legate alla nave Aquarius.

 

“ Vorrei sapere dai colleghi del Movimento 5 Stelle, con cui ho spesso lavorato, come altro definirebbero, se non xenofobo, chi afferma che la situazione dei migranti è una ‘pacchia’?

Come altro definirebbero, se non razzista, chi grida vittoria di fronte alla sofferenza di 629 vite umane? In tutto questo cinismo, il Presidente francese Macron è l’ultimo che può esprimersi.

Abbiamo davanti agli occhi la vergogna di Ventimiglia e di Bardonecchia, i porti francesi ostentatamente sigillati e i confini con l’Italia chiusi.”

 

 

 

12.06.2018

Francesco Cancellato

da Linkiesta

 

Il Trattato di Dublino, la Bossi-Fini, gli emendamenti ai trattati Sar e Solas: se oggi ci troviamo nei pasticci con la gestione degli sbarchi e dei richiedenti asilo è tutta colpa di tre leggi ratificate dal governo Berlusconi in carica dal 2001 al 2006. Di cui la Lega era fedele alleata.

Trattato di Dublino, legge Bossi-Fini, emendamenti alla convenzione Sar e Solas. Segnatevi queste tre norme, perché sono loro all’origine di tutto ciò che non funziona nell’attuale gestione dei richiedenti asilo in arrivo dall’Africa, e più nello specifico nella tragica vicenda della nave Aquarius, bloccata nella crisi diplomatica tra Italia e Malta e ora, pare, diretta in Spagna. Tre norme che, curiosamente, sono state tutte approvate tra il 2001 e il 2004. Anni in cui al governo c’era Silvio Berlusconi, insieme ad Alleanza Nazionale e - udite udite! - alla Lega Nord.

 

E insomma, è curioso che siamo proprio loro, gli incendiari di allora, a essere stati chiamati a gran voce dall’elettorato italiano per spegnere il fuoco. È curioso, ad esempio, che Salvini sbraiti contro la Convenzione di Dublino, ratificata nel 2003, secondo cui il primo Stato membro in cui vengono memorizzate le impronte digitali o viene registrata una richiesta di asilo è responsabile della richiesta d'asilo di un rifugiato. Già allora non ci voleva un genio per capire che un simile regolamento sarebbe stato un problema per i Paesi di confine, soprattutto quelli che affacciano sul Mediterraneo, in caso di crisi umanitarie. Tant’è, i nostri eroi l’hanno ratificata lo stesso.

Quel che si recupera in prossimità delle coste maltesi - come i naufraghi salvati sull'Aquarius - sbarca comunque in Italia, e sbarca col foglio di richiesta di asilo politico, perché solo così si può entrare, e tocca all’Italia occuparsene, perché così hanno deciso Berlusconi, Bossi e Fini. O se preferite, Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale

Nessuno, in effetti, l’aveva pensato. Ma i nostri prodi governanti di allora avrebbero dovuto immaginarlo. Il 30 luglio 2002, pochi mesi prima, era infatti entrata in vigore la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, la quale vincolava il permesso di soggiorno in Italia con un lavoro effettivo. Tradotto: se non ti chiamava qualcuno, in Italia non ci potevi entrare. A meno che. A meno che non ti definisci, per qualche motivo, richiedente asilo politico. Risultato? Il numero dei rifugiati cresce di anno in anno, soprattutto negli ultimi tre, e il motivo è piuttosto semplice: se vuoi sperare di arrivare ovunque in Europa l’unico modo che hai per non farti rimandare a casa è fare richiesta di asilo umanitario. Del resto, se la porta d’accesso è una sola, la macchina si ingolfa e possono passare anni prima che una richiesta sia accettata o meno, e i richiedenti asilo si accumulano, di anno in anno.

E sapete perché si accumulano? Perché l’anno dopo ancora i nostri eroi forza-leghisti si inventano un altro capolavoro e nel 2004 ratificano due emendamenti alle convenzioni Sar e Solas secondo i quali l’obbligo di fornire un luogo d’approdo sicuro per i naufraghi "ricade sul Governo contraente responsabile per la regione Sar in cui i sopravvissuti sono stati recuperati”.Ratificano, e probabilmente nessuno spiega loro che il fatto che la piccola isola di Malta non ratifichi sia in realtà un problema enorme, perché la sua area di search & rescue (cerca e salva) è immensa, rispetto alla sua superficie. Tradotto: quel che si recupera in prossimità delle coste maltesi - come i naufraghi salvati sull'Aquarius - sbarca comunque in Italia, e sbarca col foglio di richiesta di asilo politico, perché solo così si può entrare, e tocca all’Italia occuparsene, perché così hanno deciso Berlusconi, Bossi e Fini. O se preferite, Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale.

Sì, gli stessi che oggi si stringono a coorte col titolare del Viminale, nella sua strenua battaglia contro la nave Aquarius, le sue 629 anime, le organizzazioni non governative battenti bandiera di Gibilterra, i buonisti di sinistra, gli editorialisti radical chic. Non diteglielo, a Matteo Salvini, che il vero nemico, la causa di tutti i suoi crucci, ce l’ha davanti. Allo specchio.

Andrea Colombo

 

Governo. Il ministro del lavoro rassicura i commercianti senza sapere dove trovare i fondi necessari

 

C’è un punto sul quale si cementa l’unità nazionale, l’obbligo di disinnescare le clausole di salvaguardia evitando l’aumento dell’Iva, e c’è una voce che riassume quella di tutte le forze politiche e sociali, quella di Carluccio Sangalli, presidente di Confcommercio. Di fronte all’assemblea annuale dell’associazione scandisce una posizione netta: «Sull’Iva non si tratta e non si baratta. Dopo una campagna elettorale all’insegna di ‘Meno tasse per tutti’ gli aumenti Iva, pari nel 2019 a 200 euro per ogni italiano, sarebbero una beffa oltre che la fine delle già modeste prospettive di ripresa».

 

All’ovazione della sala fa subito eco quella di tutte le forze politiche, che dichiarano il loro accordo: quell’aumento va evitato a tutti i costi. In platea si fa vedere Salvini, limitandosi a mitragliare selfie. Ma sul palco sale Luigi Di Maio e non resta insensibile all’appello: «Do la mia parola e quella del governo che l’Iva non aumenterà. Le clausole saranno disinnescate».

 

E’ quello che i commercianti vogliono sentire e anche il prosieguo è, con qualche parziale eccezione, di loro gradimento. Apprezzano il ministro del Lavoro e dello Sviluppo quando illustra la sua ricetta per far decollare le imprese: «Lasciarle in pace». Concordano sentitamente quando il vicepremier assicura che d’ora in poi non si farà più ricorso a strumenti come il redditometro, essendo onere dello Stato dimostrare la colpa e non dei cittadini provare l’innocenza, o quando rassicura: «Chi racconta che questo è il governo del No alle infrastrutture sbaglia». Restano più tiepidi quando il leader dei 5S dettaglia l’ipotesi di salario minimo per chi è fuori dalla contrattazione nazionale. L’ultimo nodo che Di Maio affronta è quello della Ue che si lega, sia pur indirettamente, a quello dell’aumento dell’Iva: «Dobbiamo ricontrattare condizioni che l’Italia non può sostenere. Lo faremo con il dialogo, ma anche dicendo dei no».

 

L’impegno c’è, ed è quello che i commercianti, ma non solo loro, esigevano. Circolava una palpabile inquietudine, dovuta soprattutto alle posizioni assunte da Tria prima di avvicinarsi all’area ministero dell’Economia, con quella proposta invisa quanto altre mai di finanziare la Flat Tax proprio con l’aumento Iva. La rassicurazione è arrivata e sarà confermata il 19 giugno, con la presentazione del nuovo Def.

 

Nel Documento il disinnesco dell’Iva sarà ufficializzato, anche se difficilmente i nuovi governanti riusciranno nei prossimi 13 giorni a capire come mantenere l’impegno. Si limiteranno quindi alla dichiarazione d’intenti rinviando i particolari sull’attuazione dei medesimi alla legge di bilancio. Per il momento non hanno idea di come fare e il lavoretto non è semplice. Per impedire l’aumento nel 2019 servono 12,5 mld. Per sbarrare la strada a quello del 2020 ne occorrono 19,1. E’ probabile che il governo si limiti comunque a sterilizzare solo il primo aumento, rimandando il nodo del 2020 al prossimo anno.

 

Alla cospicua somma necessaria per tener fede all’impegno assunto da Di Maio bisognerà aggiungere i 3,6 mld che la Ue, come anticipato qualche settimana fa dal vicepresidente della Ue Dombrovskis, chiederà probabilmente ai fini del pareggio di bilancio e una cifra intorno ai 2,6 mld per interventi ordinari. Serviranno 18 mld e mezzo, ed è quasi inevitabile che almeno una parte debba essere coperta ricorrendo al deficit. Europa permettendo, certo, ma non è facile che la Ue, alle prese con un Paese di estrema importanza ed estremamente a rischio come l’Italia, oltre tutto con le elezioni europee alle porte, si mostri troppo arcigna.

 

Alla fine il governo manterrà la promessa, tanto più che sul fronte Iva potrà contare sul sostegno del Parlamento. La nota dolente è che rischiano di restare fuori dal conto proprio le roboanti riforme inserite nel contratto. Anche se ci si limitasse all’intervento sui Centri d’impiego, antipasto del Reddito di cittadinanza, servirebbero un paio di mld in più. Ma che Salvini accetti di avviare il Reddito rinviando a data da destinarsi la partenza della Flat Tax e la Fornero è una speranza poco realistica.

Alfonso Gianni

 

Fisco. Il falso mantra neoliberale

 

Diceva Mark Twain che una delle differenze più evidenti tra un gatto e una bugia è che il gatto ha solo nove vite. In effetti la “balla” ne ha di infinite. L’ultima prova ce la fornisce l’intervista radiofonica di ieri di Salvini.

 

A parte lo strafalcione di parlare di lira al posto di euro (“il nostro obiettivo è che tutti riescano ad avere qualche lira in più nelle tasche da spendere”: un lapsus freudiano?) il neoministro degli interni, evidentemente competente anche in economia, ha ribadito la sua ferma fiducia negli effetti strabilianti dell’introduzione della flat tax. Che il ministro Tria vorrebbe finanziare dando via libera agli aumenti dell’Iva, con grave danno per i consumi popolari.

 

L’articolo 53 della nostra Costituzione vincola il sistema tributario “a criteri di progressività”, ma l’argomento è un mantra del neoliberismo e non c’è populismo che tenga. Come la cd “curva di Laffer” che ne costituisce il background culturale (si fa per dire). Correvano gli anni settanta quando un giornalista del Wall Street Journal si incontrò in un ristorante di Washington con l’economista Arthur Laffer che disegnò su un tovagliolo una curva a campana che doveva dimostrare che più si alza il prelievo fiscale minore è conveniente l’attività economica. La conclusione è che bisognasse drasticamente ridurre le tasse. Reagan e poi Bush padre lo fecero e fu un disastro, portando a livelli altissimi il debito pubblico americano, senza alcun beneficio per l’occupazione (anzi tre milioni di posti di lavoro in meno). Eppure le sorti gloriose della Laffer hanno continuato negli anni a fare danni. Un quotidiano italiano riferì che anche Benjamin Netanyahu, durante una sua visita all’Expò, riprodusse la curva di Laffer per spiegare all’allora commissario di Expò Giuseppe Sala la necessità per l’Italia di ridurre le tasse.

 

Con questi illustri precedenti Salvini non poteva rischiare di sfigurare. Ed eccolo quindi spiegare al colto e all’inclita che se uno paga meno tasse “assume un operaio in più, acquista una macchina in più e crea lavoro in più”. Insomma la riedizione in chiave padana della tristemente nota teoria del trickle down, ovvero dello “sgocciolamento” della ricchezza dall’alto in basso. Cosa che le statistiche non solo italiane negano che sia mai avvenuta. Il fallimento americano al riguardo lo dimostra. George W.Bush aveva introdotto rilevanti tagli fiscali ai redditi maggiori nella speranza di incrementare gli investimenti. Si è trovato di fronte all’acquisto di beni durevoli, perlopiù di importazione. In Italia gli investimenti che nel 1999 erano pari al 20% del Pil, si sono ridotti oggi al 17,2%, dopo avere toccato il 22% prima della crisi. La maggiore ricchezza di alcuni ha preso la strada della finanza e dell’esportazione illegale di capitali non quella dell’investimento produttivo.

 

Solo gli strati meno abbienti trasformano in consumi l’aumento delle loro scarse entrate. Quando sono messi in condizione di farlo, perché anche qui ci sonoi dei limiti. Gli 80 euro di Renzi sono perlopiù finiti a coprire situazioni debitorie pregresse. La flat tax non farebbe altro che aumentare la tesaurizzazione della ricchezza da un lato e ridurre al lumicino uno stato sociale già devastato dalle privatizzazioni. Ce lo ribadisce il Censis: nel 2017 gli italiani hanno speso per la sanità quasi il 10 per cento in più rispetto al 2013-2017. Se non rinunciano a curarsi, e sono milioni, si devono indebitare. Un fenomeno in pesante aumento in un paese che soffriva di debito pubblico ma molto meno di quello privato rispetto al quadro europeo. Sette milioni di italiani si sono indebitati, 2,8 hanno venduto casa per poterlo fare, 44 milioni hanno speso di tasca propria una cifra media pro capite di 665 euro. Destinata a raggiungere i mille euro entro il 2025 in assenza di interventi correttivi. Ma quali? Se il rimedio è quello di una polizza sanitaria o di un fondo integrativo su base occupazionale ci si scontra con la disoccupazione e la precarizzazione dilaganti. Insomma il famoso gatto di morde la coda.

05.06.2018

Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – esponente del Coordinamento di Potere al popolo, dichiara:

 

«Una cosa è certa: il programma enunciato da Conte non è di sinistra. E nemmeno rivoluzionario. Non c’è alcuna redistribuzione del reddito a favore della metà più povera della popolazione italiana e nessuna misura contro la precarietà del lavoro.

 

Dov’è finita la cancellazione della legge Fornero? Il reddito di cittadinanza è diventato il rei? A sentire il discorso di Conte non c’è traccia dell’annunciata rivoluzione, a meno che non si ritenga tale l’ennesimo taglio di tasse ai più ricchi con la flat tax e il “potenziamento della legittima difesa”.

 

Persino sul taglio dei privilegi e la lotta alla corruzione il programma è debole. Neanche tagliano superstipendi dei parlamentari e nemmeno propongono la confisca dei beni ai reati di corruzione. Non c’è nemmeno lo stop al consumo di suolo e la ripubblicizzazione dell’acqua, nè una parola sulla scuola. La rottura con le politiche degli ultimi 25 anni è sui particolari ma non sulla sostanza. Non c’è davvero nessuna netta rottura con le politiche degli ultimi 25 anni. Rivoluzionario in questo paese sarebbe abolire le leggi che hanno precarizzato il lavoro e introdurre una patrimoniale sulle grandi ricchezze.

 

E’ possibile che, vista la devastazione prodotta dai governi precedenti, anche la modifica dei particolari possa determinare una situazione di aspettativa positiva. Ma fare gli avvocati del popolo significa difendere gli interessi del popolo, non limitarsi a qualche provvedimento di facciata, sullo stile degli 80 euro di Renzi.
Positivo il doveroso anche se tardivo ricordo e omaggio al sindacalista ucciso in Calabria, Soumayla Sacko, sul quale comunque ancora non abbiamo sentito una parola da parte dei ministri Salvini e Di Maio».

Silvio Messinetti

da Il Manifesto

 

 

Cronache di ordinario razzismo. La protesta dei migranti della Piana di Gioia Tauro dopo l’omicidio del sindacalista maliano ucciso domenica a fucilate. Gli amici del 29enne del Mali parlano «omicidio razzista». La pista delle ’ndrine

 

«Al campo di San Ferdinando la notte di domenica è stata di mestizia e rabbia. I maliani volevano sfogare la loro inquietudine. Hanno acceso qualche copertone ed eretto qualche estemporanea barricata di cartone. Nulla più. Quanto basta, tuttavia, per allertare il Viminale che di notte ha cinto la tendopoli di uno spropositato plotone di militari. Si temevano tumulti. Nulla di più esagerato.

 

LA GIORNATA DI IERI È STATA quella del ricordo e della lotta. Uno sciopero dei braccianti, indetto dalla Usb, e, a seguire, un’assemblea che si è poi trasformata in un pacifico corteo direzione municipio. Il dolce viso di Soumayla Sacko restava impresso nei tanti cartelli che i suoi amici hanno impugnato nel lungo percorso di 5 km che dalla zona industriale porta nel centro del paese. San Calogero, il luogo dell’agguato, invece, sta altrove. Lontano 20 km, un’ora di cammino e in un’altra provincia, Vibo Valentia.

ALL’EX FORNACE, «La tranquilla», la fabbrica dismessa, abbandonata e posta sotto sequestro perché divenuta sede di stoccaggio di tonnellate di rifiuti tossici, Soumayla Sacko era andato insieme ad altri due braccianti per prendere un po’ di lamiere. Servivano per costruire una baracca nella favela di San Ferdinando. Non per lui ma per un altro raccoglitore maliano. Era anche questo Soumayla, un generoso che aiutava tutti. In prima linea nelle mobilitazioni, era alla testa del corteo per Becky Moses, la nigeriana arsa viva nel tragico rogo di qualche mese fa. A queste latitudini, ormai, le tragedie sono rituali. A cadenza continua ci sono stati morti per assideramento, per denutrizione, per incendi dolosi. Ora per fucilate con armi da caccia grossa, di quelle usate per ammazzare i cinghiali. Probabilmente per mano delle ‘ndrine.

 

SOUMAYLA, 29 ANNI, è stato freddato in pieno giorno nella campagna vibonese davanti a quella fabbrica maledetta. E così, Soumayla sarà nei prossimi giorni «rimpatriato», ma in una bara, destinazione Bamoko. Ad attendere la salma, una bimba di 5 anni e una compagna di 30. «Poteva essere una strage e solo per caso non ci hanno rimesso la vita Madiheri Drame e Madoufoune Fofana. E non ci vengano a dire, come qualcuno ha provato a fare, che si è trattato di un furto visto che si trattava di un luogo abbandonato. E’ stato un agguato premeditato e xenofobo», dice Giuseppe Tiano, del movimento antirazzista della Piana. Gli inquirenti non formulano un’ipotesi precisa, ma le indiscrezioni portano alla criminalità organizzata per cui Soumalya potrebbe aver pagato una «invasione di campo». Il procuratore di Vibo, Bruno Giordano, da poco a capo degli inquirenti vibonesi (prima era a Paola e istruì la pratica sulle navi dei veleni), conferma: «In zona avevamo ricevuto diverse segnalazioni. Più di qualcuno era infastidito dalla presenza dei migranti».

 

D’ALTRONDE, meno di un anno fa, i carabinieri gioiesi avevano arrestato quattro ragazzi per una lunga serie di aggressioni. Di sera andavano a caccia di neri. Salivano su una Fiat Punto e iniziavano la ronda con i bastoni sotto ai sedili. Stavolta la macchina è una Alfetta, non ci sono bastoni ma una lupara. Ieri, la reazione dei migranti è stata ferma. «Non era un terrorista, non era un criminale, non aveva armi e gli hanno sparato alla testa come una bestia» dice Idris, ivoriano di 40 anni, amico della vittima.

 

I RAGAZZI IN CORTEO SONO tutti regolari ma vivono una condizione di lavoro irregolare schiavistico. Come braccianti, secondo il contratto nazionale di lavoro, avrebbero diritto ad un alloggio. I più sono invece costretti a vivere nella tendopoli, rinata come una brutta fenice dalle ceneri del vecchio insediamento andato a fuoco. «Bisognerebbe dare le case sfitte a questi lavoratori – s’infervora Maria Francesca D’Agostino, professoressa all’Unical ed esperta di migrazioni – e invece proliferano i megacampi. Il sindaco ci ha avvertiti che nei prossimi mesi sgombereranno la tendopoli. Ma cosa ne sarà di questi lavoratori quando in autunno torneranno per la raccolta delle arance? Le istituzioni procedono in ordine sparso. E’ tutto improvvisato. Dopo la morte di Becky non è cambiato nulla. I braccianti sono costretti a restare perchè in attesa del rinnovo della questura di Gioia e sono domiciliati qui a San Ferdinando, altri sono in attesa di ricorrere contro i dinieghi delle commissioni. Ma c’è anche una responsabilità politica e non solo del Viminale.

 

Grave è il comportamento della regione Calabria e del presidente Oliverio che avrebbero piena competenza ad attuare politiche di inclusione e invece non fanno nulla. Avrebbero fondi comunitari da investire ma preferiscono le passerelle per le inaugurazioni delle tendopoli». Soumayla viveva proprio nel nuovo campo, la soluzione «temporanea» in attesa di dare il via ai progetti di accoglienza diffusa. Che non si sono mai visti. Il corteo non è imponente perchè non è alta stagione. La manodopera bracciantile in perenne transumanza nelle campagne meridionali ora si è spostata nel foggiano e nell’agro nocerino. «Ci hanno comunicato che in Puglia 2mila raccoglitori hanno incrociato le braccia in onore di Soumalya. Lo sciopero è riuscito» grida al microfono Aboubakar Soumaulo, il leader dei braccianti. La rabbia è contro i giornalisti e organi istituzionali che avevano derubricato il fatto a furtarello di lamiere. Quasi che se la fossero andata a cercare.

 

«CHI TOCCA UNO, tocca tutti», «mai più schiavi», urlano in corteo. C’è chi porta un mazzo di fiori rossi, chi un drappo bianco in segno di lutto, sono quasi tutti ragazzi giovani, sotto i 40 anni, alcuni indossano magliette di squadre di calcio , un melting pot che trasuda angoscia e disperazione. «Questi lavoratori sono trattati in condizioni disumane, contro le regole, con salari da fame. Le istituzioni proteggono questo sistema – spiega Guido Lutrario – dell’esecutivo nazionale Usb – Queste persone non sono illegali piuttosto sono vittime di illegalità». È quanto andrà a reclamare una delegazione ricevuta dal questore di Reggio Calabria. Al termine, nel primo pomeriggio, il corteo si scioglie, i migranti defluiscono e ritornano nel campo. «La pacchia è finita, ma per il ministro Salvini» dicono mentre vanno via.

01.06.2018

 

Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, componente del coordinamento nazionale di Potere al Popolo, dichiara:

«Il governo gialloverde è un governo di destra, reazionario, neoliberista: è bastato annunciarne la nascita che la Borsa di Milano ha festeggiato con un aumento del 2%.
Milioni di italiani si aspettano una rivoluzione e invece hanno dato l’incarico a personaggi espressione dei potentati economici e dell’establishment della vecchia politica.
La tassa piatta per i ricchi e la repressione per i poveracci, con un ministro come Salvini, che ha fatto della xenofobia e della repressione i suoi cavalli di battaglia.


Difenderanno ancora una volta gli interessi dei ricchi, delle lobby, dei poteri forti; ne faranno le spese i migranti, i più deboli, i più poveri.
La vittoria delle destre populiste è il frutto avvelenato di anni di politiche neoliberiste imposte dall’UE e messe in pratica dal Pd e dai suoi alleati che oggi propongono un surreale fronte democratico.
In realà oggi in Italia esistono due destre: una tecnocratica e una populista in lotta per il potere sulle spalle del popolo.
Di fronte a questo sfacelo, serve costruire e rinforzare un quarto polo della sinistra, quella vera, che sia popolare, antiliberista e anticapitalista, per un’Europa di eguaglianza e non di esclusioni».

 

01.06.2018

da Contropiano

Giorgio Cremasci

 

Mattarella si è piegato a Savona ministro, seppure in un’altra casella. Salvini e Di Maio si sono piegati, in realtà il secondo l’aveva già fatto, ai vincoli UE ( e NATO). E tutti assieme si sono piegati ai colpi dello spread usati squadristicamente da UE e Germania.

 

A parole saranno tutti contro l’austerità, ma continueranno a praticarla nel nome del fiscal compact e dei trattati UE che non oseranno più mettere in discussione. In compenso potranno fascisteggiare con migranti, poveri, occupanti di case e conflitti sociali. Di questo a Mattarella e alla UE non è mai importato nulla, nonostante le stupidaggini dette in questi giorni dai ridicoli antifascisti europeisti. Anzi un governo che abbia il consenso degli elettori, non tecnico dunque, e che continui ad eseguire la politica delle banche mentre indirizza la rabbia popolare verso i migranti e gli esclusi, beh questo alla UE va benissimo. Lo hanno già accettato e persino lodato in Austria ed in Ungheria.

 

La UE è la principale macchina produttrice di antidemocrazia e autoritarismo, prima o poi deve servirsi dei suoi prodotti.

 

Potere al Popolo a questo punto è la sola vera forza di opposizione in questo paese. Perché tutte le altre, a partire dal PD e da Berlusconi, da un lato sono responsabili del disastro che ha portato a questo governo, dall’altro sono servi della UE, alla quale questo governo, se manterrà il fiscal compact e il resto come si è impegnato, va benissimo. D’altra parte la nostra opposizione non potrà che essere mille miglia lontana da chi ha fatto Jobsact, Fornero, Buona Scuola.

La nostra opposizione sarà la sola sociale e popolare, contro la dittatura dei mercati e i vincoli UE, nel nome dei principi sociali della Costituzione del 1948.

Cominciamo il 16 giugno a Roma, manifestando assieme alle forze sociali ed al sindacalismo che non si piega. Non ci chiuderanno nella paura.

Norma Rangeri

da il Manifesto

 

Nasce il governo gialloverde figlio del terremoto elettorale del 4 di marzo. Un esito che proietta il paese in una fase difficile e densa di incognite.

 

E che, anche per questo, impegna la sinistra a misurarsi nel nuovo scenario, a difesa dei diritti sociali e civili, del lavoro e dei migranti, dell’Europa e delle garanzie costituzionali.

 

Una sfida che la mette di fronte al laboratorio politico determinato dalle macerie lasciate dalla crisi economica e culturale che ha quasi azzerato la sua rappresentanza. Ora serve cambiare passo e darsi una prospettiva da misurare sui tempi della XVIII° legislatura.

 

Nel bilancio di questi mesi, il presidente della Repubblica esce dal tunnel evitando l’imbarazzante precedente di un governo tecnico votato da nessuno, e inoltre determinando alcune scelte dei ministri, a cominciare dallo spostamento del professor Savona, il casus belli che aveva fatto saltare l’accordo.

 

La lunga e tribolatissima navigazione gli è costata la contestazione di un’invasione di campo e il prezzo di una surreale minaccia di impeachment.

 

A decidere tutto alla fine è stato Salvini, il leader leghista, capace di gestire il rischio di un’alleanza così sbilanciata nel rapporto di forza elettorale, capitalizzando ruoli-chiave nell’organigramma di palazzo Chigi: interni e vicepresidenza per lui, cruciale sottosegretariato per il numero 2 Giorgetti, e un ministero dell’Economia dove anziché Savona va il collega Giovanni Tria, nome nuovo di area moderata.

 

Bilancio meno esaltante per i 5Stelle e il loro leader. Prendono i ministeri «sociali» (sanità, lavoro, sviluppo economico, sud). E un presidente del consiglio, Conte, che dovrà faticare parecchio per non essere schiacciato tra i due padrini politici.

 

Di Maio con il suo partito diventato di maggioranza relativa, grazie ai voti di sinistra, esce invece ferito da mosse autolesioniste e da una forte contestazione interna che non digerisce l’alleanza con la destra lepenista.

 

Una contraddizione che, come tutte le contraddizioni in seno al popolo, merita attenzione.

 

 

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