Acqua:


Il Parlamento europeo ha fatto propria la proposta dei movimenti per l’acqua

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In evidenza

31.05.2018

Alessandro Avvisato

da Contropiano

 

 

Dopo ore di indiscrezioni e rumor, ecco la lista dei ministri del governo 5Stelle-Lega letta dal nuovo presidente del consiglio al Quirinale alle ore 21.50.

Presidente del consiglio

Giuseppe Conte

Vicepresidente del consiglio e ministro del Lavoro, del Welfare e dello Sviluppo

on. Luigi Di Maio (M5S)

Vicepresidente del consiglio e ministro dell’Interno

sen. Matteo Salvini (Lega)

SOTTOSEGRETARIO ALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO

on. Giancarlo Giorgetti (Lega)

RAPPORTI CON IL PARLAMENTO E DEMOCRAZIA DIRETTA

on. Carlo Fraccaro (M5S)

AFFARI EUROPEI

prof. Paolo Savona

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

sen. avv. Giulia Bongiorno (Lega)

AFFARI REGIONALI E AUTONOMIE

sen. avv. Erika Stèfani (Lega)

SUD

sen. Barbara Lezzi (M5S)

FAMIGLIA E DISABILITÀ

on. Lorenzo Fontana (Lega)

ESTERI E COOPERAZIONE

prof. avv. Enzo Moavero Milanesi

GIUSTIZIA

on. avv. Alfonso Bonafede (M5S)

DIFESA

dott.ssa Elisabetta Trenta (M5S)

ECONOMIA E FINANZE

prof. Giovanni Tria

AGRICOLTURA

sen. Gian Marco Centinaio (Lega)

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI

sen. Danilo Toninelli (M5S)

ISTRUZIONE, UNIVERSITÀ E RICERCA

prof. Marco Bussetti (Lega)

BENI CULTURALI E TURISMO

dott. Alberto Bonisoli (M5S)

SALUTE

on. Giulia Grillo (M5S)

AMBIENTE

gen. Sergio Costa

 

Si lavora ad una pareggio. E a un governo che sia la sintesi tra i due fin qui proposti.

 

Se si vuole cogliere l’essenza di quel che sta accadendo all’88° giorno di crisi post-elettorale è meglio non farsi deviare dal fiume di dichiarazioni smentite un attimo dopo.

 

Di certo c’è soltanto che il governo grillin-leghista (dunque politico-politico) è rientrato dalla finestra perché non era possibile arginare la speculazione finanziaria con un esecutivo Cottarelli (politico-tecnico) “figlio di nessuno” e senza neanche un voto in Parlamento.

 

Ma nessuno può immaginare che si possa tornare a sabato scorso, come se si fosse scherzato, e con una “squadra” di ministri identica a quella presentata a – e rifiutata da – Sergio Mattarella.

 

La casella strategica è quella del ministero dell’economia, come sanno ormai anche i sordi. E su quella poltrona di certo non puà più andare Paolo Savona, la “pietra dello scandalo”, l’”euroscettico” senza se e senza ma, il nome inviso all’establishment di Bruxelles. Ma non si può neanche scaricarlo, perché questa apparirebbe come una resa di Salvini e Di Maio.

Le voci più insistenti parlano di Pierluigi Ciocca a via XX Settembre, e questo è certamente un tecnico di prima fascia a lunga esperienza. La sua carriera si è svolta quasi per intero in Banca d’Italia, di cui è stato anche vicedirettore generale, fino ad essere uno dei pochissimi candidati a sostituire Antonio Fazio alla fine del 2005. Particolare non secondario, fino al momento dell’introduzione dell’euro è stato il rappresentante della Banca d’Italia nel Comitato per l’Euro presso il Ministero del Tesoro. Di recente, però, i suoi contributi al dibattito economico – come si vede da Il Sole 24 Ore di oggi – sono piuttosto interni alla visione macroeconomica supply side, ovvero alla “politica dell’offerta”, tra Laffer e Feldstein, nota negli anni come Reaganomics.

 

Secondo le stesse voci, Savona verrebbe destinato al ministero delle Politiche europee, o agli esteri; un modo di continuare ad usarlo come spauracchio anti-Bruxelles, con forti poteri di negoziazione, lasciando però le leve della disastrata economia nazionale in mani più “affidabili” agli occhi dell’establishment.

 

Un compromesso. Che illumina il caos. Anche se il nome definitivo fosse un altro, l’ipotesi Ciocca chiarisce la direzione dei colloqui segreti di queste ore:mettere nelle caselle sensibili personaggi “affidabili” e lasciarsi le mani libere nelle faccende che non richiedono grandi risorse finanziarie. 

 

A spingere in questa direzione, da giorni, sono i grillini in versione Di Maio, pronti a mollare qualsiasi trincea pur di arrivare a governare e in palese affanno. Tanto che deputata Laura Castelli, considerata vicinissima a Di Maio e unica donna ad essere ammessa nel “gruppo di lavoro” grillin-leghista che ha redatto “il contratto”, ha addirittura invitato il povero Savona a farsi da parte spontaneamente («Stupisce che non abbia ancora maturato la decisione di fare un passo indietro»), togliendo così d’imbarazzo il putto di Pomigliano d’Arco.

 

La Lega ufficialmente non si pronuncia su questa ipotesi, ma sembra chiaro che il compromesso in grado di “tranqullizzare i mercati” prevede grossi passi indietro sul tema dell’euro e dell’Unione Europea. Passi che stanno facendo a ritmo forsennato, visto che la storica scritta sul muro di cinta di via Bellerio – sede centrale della Lega, dove da sempre campeggiava un gigantesco “Lega Nord Padania. Basta euro” – è improvvisamente stata cancellata. Palazzo Chigi val bene qualche messa…

 

Un governo misto – grillini e leghisti, ma con robuste iniezioni “tecniche” pro-Bruxelles – è “rassicurante” per la stabilità della moneta unica e dei “mercati”, senza perdere alcun tratto fasciorazzista e xenofobo. Ricordiamo sempre che il “buon” Mattarella non ha avuto nulla da eccepire al ruspante Salvini come ministro dell’interni anti-immigrati, a favore di sgomberi violenti e libertà di sparare. Dunque si va profilando con nettezza la feroce sintesi di politica economica “europeista” e politica interna fasciorazzista.

 

Questa fusione a freddo dei tratti peggiori dei due governi congelati spiazza molti, specie “a sinistra” (si fa per dire, ovvio). Sbrigativamente scesi in campo per dire #iostoconMattarella facendo finta che questi avesse fermato un esecutivo per puro antifascismo, Pd e Leu hanno messo in moto un riavvicinamento a tappe forzate che prelude chiaramente alla “riunificazione”. Unico intoppo, temporaneo, è la presenza di Matteo Renzi, che comunque ha già depositato il marchio del suo partitino macroniano (il “patto repubblicano” di cui parla anche Calenda) e probabilmente – a settembre – partirà per altri lidi.

 

Del resto, per lo schieramento “democratico” sarà difficilissimo abbozzare una opposizione credibile a un governo che sul piano economico farà esattamente quello che ha fatto il Pd fin quando è stato in sella e sul piano della “sicurezza” continuerà – con qualche estremizzazione molto propagandata – l’opera di Minniti. E questo vanifica anche le ultime illusioni di poter mettere insieme frammenti delle “diverse sinistre”, aggregate per disperazione attorno a qualche nome noto.

 

Lo spazio dell’opposizione vera è insomma totalmente libero. Sta a Potere al Popolo! Darsi gli strumenti per attraversarlo e riempirlo.

30-05-2018

intervista a Emiliano Brancaccio di Giacomo Russo Spena

da Micromega

 

Mentre i destini del Paese rimangono ignoti, l’economista propone una misura per tutelare il voto popolare da qualsiasi condizionamento: “Applichiamo l’art. 65 del Trattato dell’Unione europea”. Un provvedimento che dà la possibilità di bloccare le fughe di capitali e impedire le scorribande degli speculatori. “In questa fase così decisiva sarebbe bene attivare fin d’ora questi strumenti legislativi, già applicati in passato, per evitare interferenze dei mercati sulle prossime scelte politiche”.
I mercati finanziari fibrillano, lo spread aumenta, la borsa perde punti e gli speculatori, come un tempo disse l’ex ministro Padoa Schioppa, iniziano a sentire “l’odore del sangue”. Ci attende un’estate di passione, con il rischio di nuove elezioni e la speculazione finanziaria a spargere altra benzina su una battaglia politica già infuocata. Esiste un modo per evitare che in una fase così delicata le manovre degli speculatori condizionino le scelte politiche? Lo abbiamo chiesto a Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica all’Università del Sannio ed estensore qualche anno fa del “monito degli economisti”, un documento premonitore che annunciava molti dei problemi in cui oggi versa l’eurozona. Per l’economista una soluzione per contenere gli attacchi speculativi esiste, e si basa sull’immediata applicazione delle norme europee sul controllo dei movimenti di capitale.

 

Professor Brancaccio, il “governo del cambiamento” di Salvini e Di Maio non riesce a partire. Cosa ne pensa?

 

E’ un’ipotesi di governo appiattita sulle posizioni della destra xenofoba, con l’annuncio di una riforma fiscale a vantaggio pressoché esclusivo dei ricchi e la promessa di una caccia grossa all’immigrato, un facile capro espiatorio che non rappresenta affatto il problema principale delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Detto questo, la Lega e il M5S hanno la maggioranza parlamentare e quindi a mio avviso bisognerebbe lasciarli governare.

 

Dunque Lei critica il veto del Presidente della Repubblica sulla lista dei ministri?

 

Non ho le competenze per entrare nel dibattito tra i costituzionalisti sui poteri del Presidente. Mi limito a osservare che il veto di Mattarella ha gettato la Presidenza della Repubblica nel ring di una lotta politica feroce, che lascerà nuove ferite sul già fragile tessuto istituzionale del paese. Avrei preferito un esito diverso, che lasciasse il Quirinale al di sopra della contesa.

 

Il dialogo istituzionale è precipitato sull’indicazione di Paolo Savona come ministro dell’Economia. Qual è il suo giudizio su di lui?

 

Uno studioso di buone letture e una discreta penna, come ormai se ne vedono poche tra i colleghi economisti. Ma anche un liberista di vecchia scuola, che fino all’altro ieri pareva convinto che il debito pubblico italiano potesse essere ridotto a colpi di tagli drastici alla spesa pubblica e ulteriori dismissioni del patrimonio statale. L’esperienza infelice dell’austerity e delle privatizzazioni degli anni Novanta, a quanto pare, non gli è bastata.

 

Però la pietra dello scandalo è stato il “piano B” per uscire dall’euro, che Savona ritiene necessario e che invece Mattarella e i suoi sostenitori considerano una bestemmia.

 

Bisognerebbe ricordare che una proposta ufficiale di “piano B” era già stata resa pubblica diversi anni fa: è la soluzione di uscita della Grecia dalla moneta unica che venne avanzata dall’ex ministro delle Finanze tedesco Schauble e che l’Eurogruppo fece propria nel 2015. In termini ufficiosi, poi, si ragiona di “piano B” già da tempo tra gli addetti ai lavori, anche ai massimi livelli istituzionali. Chi reputa scandaloso un ragionamento sul “piano B” non ha capito molto dei problemi di tenuta dell’eurozona. Come a denti stretti riconosce persino il Presidente della BCE, sono problemi che restano in gran parte irrisolti e che inevitabilmente riaffioreranno alla prossima recessione, indipendentemente dal successo politico delle cosiddette forze anti-sistema. La questione, semmai, è “quale piano B”: ad esempio, quello di Schauble per la Grecia era da strozzinaggio, poiché pretendeva che i greci mantenessero i loro debiti in euro anche dopo aver abbandonato la moneta unica.

 

Intanto però i mercati sono in subbuglio e lo spread sui titoli italiani è tornato a correre. C’è di nuovo sfiducia sulla tenuta dei conti pubblici?

 

La sostenibilità dei conti pubblici c’entra solo in via secondaria. L’aumento dello spread dipende soprattutto dal risveglio delle scommesse sulle ipotesi di uscita dall’euro e di svalutazione di una ipotetica nuova moneta, con conseguente deprezzamento dei titoli denominati in essa. Non a caso il fenomeno sta riguardando non solo l’Italia ma anche gli altri paesi che potrebbero eventualmente seguirla al di fuori dell’eurozona.

 

Se andremo a nuove elezioni, sarà una campagna elettorale condizionata dalle scommesse della finanza sul futuro dell’euro?

 

E’ un rischio concreto. Eppure strumenti per contenere le interferenze dei mercati sulla politica esistono.

 

Si riferisce agli interventi della Banca centrale europea? Circola voce che ieri la BCE abbia ridotto gli acquisti di titoli italiani lasciando che lo spread aumentasse.

 

La valutazione sull’orientamento di politica monetaria non può essere fatta su archi di tempo così brevi. E’ vero, tuttavia, che nel direttorio BCE i conflitti sono sempre più aspri e che a un certo punto potrebbe prevalere la linea restrittiva dei cosiddetti “falchi”, come è già accaduto durante le passate crisi. Anche per questo occorre intervenire subito con misure ulteriori.

 

Qual è la sua idea, Professore?

 

Suggerisco l’applicazione immediata dell’articolo 65 del Trattato dell’Unione Europea che ammette l’introduzione di controlli sulle fughe di capitali, e di tutti i dispositivi già previsti dall’attuale legislazione per ridurre la volatilità dei mercati finanziari. L’ex capo economista del FMI li definisce strumenti di “repressione finanziaria”. Che si vada a elezioni o meno, in questa fase decisiva per il futuro dell’Italia e dell’Unione sarebbe bene attivare fin d’ora questi strumenti legislativi per evitare interferenze dei mercati sulle prossime scelte politiche. Si tratta di una soluzione di buon senso quale che sia la nostra opinione sulla permanenza o sull’abbandono dell’eurozona.

 

L’Italia potrebbe autonomamente introdurre queste misure di “repressione finanziaria” senza il consenso delle istituzioni europee?

 

L’articolo 65 può essere applicato da uno stato membro se sussistono condizioni “di ordine pubblico” tali da rendere necessari i controlli sugli spostamenti di capitale da e verso l’estero. Le istituzioni europee hanno già ammesso un’interpretazione estensiva della definizione di “ordine pubblico” durante le crisi di Cipro e della Grecia. In quelle occasioni, però, l’articolo 65 fu applicato con un ritardo scandaloso, solo dopo una lunga agonia finanziaria che colpì duramente le economie di quei paesi e condizionò pesantemente le loro decisioni. L’Italia e gli altri paesi sotto attacco oggi possono e debbono rivendicare il diritto di applicare immediatamente i controlli sui capitali e le altre misure necessarie di “repressione finanziaria”, prima che sia tardi.

 

Cottarelli sarebbe l’uomo giusto per avviare procedure di questo tipo?

 

Ho dei dubbi. Temo rientri in quel filone di economisti secondo i quali il mercato ha sempre ragione e deve esser lasciato libero di operare. Un’idea che trova ampie smentite nella letteratura scientifica ma che purtroppo risulta ancora à la page in ambito politico. Con lui si rischia di applicare i controlli quando la situazione è già precipitata.

Alfonso Gianni

 

Pensavamo di avere toccato il fondo con il disastroso esito elettorale del 4 marzo. Quindi magari di potere godere di qualche vantaggio dall’effetto rinculo. Invece no. In diversi si sono messi a scavare. Ora ci si trova in fondo ad una crisi istituzionale dalle dimensioni e natura inedite con l’aggravante di una destra arrembante che annusa il profumo inebriante di una vittoria di proporzioni fino a poco fa imprevedibili. Ciò che non è accaduto in Francia, la vittoria del lepenismo, potrebbe accadere in Italia. Non a caso gli editorialisti de la Repubblica lamentano l’assenza di un Macron italiano in grado di evitare un simile esito.

 

Certo non possono contare, e da tempo, su un Renzi che alterna pop corn con proclami «antisfascisti», pallida caricatura di un radicale d’antan. A tutto ciò si è giunti con un precipitare di ora in ora, tra palesi furbizie e clamorose insipienze. La terza pessima legge elettorale ha offerto il contrario della governabilità. Chi l’ha propugnata e difesa ne porta tutta la responsabilità. Al posto del governo subito c’è la crisi profonda degli equilibri tra i poteri istituzionali previsti dalla Costituzione. Il sistema delle coalizioni senza programma, più simili a container che ad alleanze politiche, hanno facilitato lo scomporsi delle aggregazioni elettorali come non mai. Da qui, dopo un poco di melina e la più che prevedibile paralisi del Pd che avrebbe pagato con ulteriori fratture qualunque mossa, si è giunti ad un «contratto» di governo, espressione che già rivela la concezione privatistica di rapporti politici e istituzionali, fra Lega e M5Stelle.

 

I QUALI HANNO calpestato con disinvoltura tutti gli articoli costituzionali che regolano le modalità della nascita di un nuovo governo, presentando a Mattarella un pacchetto preconfezionato di «contratto», premier e ministri. Che non potesse essere accettato in quanto tale tutti lo sapevano. Che il capo dello Stato si incartasse in un diniego rispetto all’incarico di Savona a ministro dell’economia, era assai meno prevedibile. Ma è appunto questo che ha fatto da detonatore. Già si è ben detto sui limiti intrinseci alla moral suasion che un Presidente della Repubblica può esercitare avvalendosi del suo potere di nomina dei ministri. Non solo sono stati ampiamente superati ma le motivazioni fornite hanno inchiodato lo scontro politico tra no-euro ed entusiasti di Maastricht. Il terreno più fertile per fare crescere il nazionalismo populista. Tanto più che mass media, euroburocrati ed esponenti politici europei hanno gettato benzina sul fuoco con dichiarazioni sprezzanti e padronali, ultime quelle di ieri del commissario europeo al Bilancio, Hoettinger.

 

Eppure sia la Lega che il M5S avevano di molto attenuato il loro antieuropeismo. Per la prima in particolare il tema principe era ed è l’immigrazione e la sicurezza, come conferma uno spavaldo Salvini in queste ore. E persino Orfini si è accorto che le politiche e le parole di Minniti hanno portato acqua al mulino leghista. Nel «contratto» non compare l’uscita dall’euro e naturalmente neppure il piano B, che se ci fosse mai verrebbe reso noto prima di essere applicato per ovvi motivi.

 

È VERO, IL GIORNALE della Confindustria ha alimentato in tutta la campagna elettorale la tesi dello scontro fra le due Europe, quella di Maastricht (che loro chiamano di Ventotene) e quella di Visegrad. Ma i mercati se ne erano stati tranquilli, e lo spread è cominciato a salire a balzelloni, così come i rendimenti dei nostri titoli anche a breve, e le borse a scendere dopo la liquidazione della candidatura di Savona, non prima. La scelta di Cottarelli, l’uomo della fallimentare spending review, incarnazione ambulante del rigorismo più ostinato, a lungo direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale per Italia, Albania, Grecia, Malta, Portogallo, chiude il cerchio e dà il senso dell’operazione condotta da Mattarella. Ma non è detto che neppure questa fili liscia, visto che il primo incontro fra i due non ha ancora partorito alcunché e che si parla con insistenza in queste ore di elezioni in piena estate. Da queste ne guadagnerebbe solo la destra estrema. I sondaggi indicano una flessione del M5stelle e un balzo addirittura di dieci punti di Salvini. Il quale può ben lasciare ai primi la richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della repubblica per cui non esistono peraltro presupposti costituzionali né tempi attuativi.

 

MENTRE IL REGGENTE del Pd dichiara l’astensione di fronte al governo Cottarelli, c’è chi, nelle file del Mdp pensa (e speriamo abbia smesso) addirittura di fare peggio, votando a favore. Quel voto potrà anche avere un esito scontato, ma assume un senso politico discriminante. Si tratta di uscire dalla tenaglia dell’europeismo «angelicato» (nel senso di Anggela Merkel) e quella del ritorno allo stato nazione; di non confondere l’antifascismo con gli ammonimenti dei mercati finanziari; di mettere in campo concretamente una posizione che si è sentita troppo poco e flebilmente nell’ultima campagna elettorale. Come vaso di coccio tra vasi di ferro. Se la sinistra vorrà esserci, anche in caso di elezioni più che imminenti, dovrà trovare una dimensione unitaria attorno ad un programma che per quanto essenziale eviti di venire schiacciato in uno scontro che appartiene sì alla crisi del neoliberismo, ma non certo alla sua sconfitta

28 mag 2018

COMUNICATO STAMPA

 

Governo – Acerbo (Prc): «Noi non stiamo con Mattarella. Non sta difendendo la Costituzione. Nè con Cottarelli nè con Salvini.  Costruiamo uno schieramento di sinistra popolare antiliberista»Maurizio Acerbo, segretario nazionale Partito della Rifondazione Comunista, S.E. Coordinamento nazionale di Potere al Popolo, dichiara:

 

«Le scelte e le parole del Presidente della Repubblica suscitano rabbia e sconcerto.
Il nostro giudizio negativo su Salvini e Di Maio non ci impedisce di condannare con nettezza la scelta del Presidente della Repubblica.


Il comportamento di Mattarella ha le sembianze più di un golpe bianco che di una rigorosa difesa della Costituzione. Nella Costituzione è previsto il divieto di ricostituire il partito fascista, non quello di mettere in discussione i trattati europei o la moneta unica.
La sovranità non appartiene agli “operatori economici o finanziari” e agli “investitori italiani e stranieri” citati da Mattarella. Il comportamento del Presidente e il suo intervento così pesante sul terreno delle scelte politiche è per noi indifendibile.


Non ci stupisce che a sostegno di Mattarella si siano schierati immediatamente due improbabili campioni del costituzionalismo come Renzi e Berlusconi. Questa operazione è la prosecuzione delle ingerenze dell’UE ed avevamo già da tempo profetizzato che Cottarelli, onnipresente su giornali e tv, sarebbe stato il nuovo Monti da imporre a colpi di spread. 

 

Proprio perchè ci siamo sempre schierati in difesa della democrazia costituzionale non possiamo che dire NO a questa operazione e all’incarico a un uomo del Fondo Monetario Internazionale. Chi difende la Costituzione non può schierarsi per un’acritica difesa di Mattarella. Rifiutiamo di dover scegliere tra la peste e il colera, tra Salvini e Di Maio da una parte e Renzi e Berlusconi dall’altra. Si tratta di due versioni diverse del neoliberismo.


Ci schieriamo dalla parte della democrazia e della Costituzione come abbiamo sempre fatto.


La classe dirigente di centrodestra e centrosinistra che ha condiviso le scelte strategiche dagli anni ’90 é ormai delegittimata e trascina nel discredito le stesse istituzioni.
Il Presidente della Repubblica, come il suo predecessore, assume il ruolo di garante non della Costituzione ma di di uno stato permanente di eccezione.


La richiesta di impeachment non è fondata sul piano costituzionale e il comportamento di M5S e Lega, a partire dalla scelta di un premier inconsistente sul piano politico, ha contribuito a questo esito. Certo Mattarella ha fatto un gran regalo a Salvini che può ergersi a difensore degli italiani e il M5S cerca di competere alzando il volume.


Da sempre denunciamo che il cosiddetto “pilota automatico” non è compatibile con la democrazia e che la mette in crisi sul piano formale e sostanziale. A cosa serve poter votare se le scelte di fondo sono già predeterminate? E come si può rafforzare il legame tra cittadine/i e istituzioni repubblicane se un rigore insensato riduce progressivamente diritti?


Se Mattarella avesse detto no alla nomina di un demagogo razzista xenofobo come Salvini al ministero degli Interni avremmo apprezzato. Ma il suo intervento in nome dell’ordine post-democratico nato a Maastricht nel 1992 non è condivisibile e accettabile.


Lo ricordiamo come ministro della difesa ai tempi della guerra nella ex-Jugoslavia e ci è ben chiaro che tende ad anteporre il quadro internazionale alla Costituzione.


Rivendichiamo con orgoglio il nostro voto da sempre contrario ai trattati europei e la nostra lotta per un’altra Europa non in nome del nazionalismo ma della democrazia e della difesa e dell’estensione dei diritti. Costruiamo uno schieramento di sinistra popolare antiliberista per l’attuazione della Costituzione e dunque contro i trattati europei e alternativo a tutti i poli esistenti. Né con Cottarelli né con Salvini».

 

27.05.2018

da Contropiano

 

Con un colpo di mano che si andava profilando già da ieri, il Quirinale ha ufficialmente bloccato la nascita del nuovo governo M5S/Lega perchè il posizionamento eurocritico del ministro dell’economia proposto, Paolo Savona, è incompatibile con i diktat della Commissione europea e i desiderata dei mercati finanziari.

 

Lo stesso Presidente Mattarella che ha stoppato il nuovo esecutivo, ha già dato mandato ad un noto “tagliatore di teste” del Fmi come Cottarelli (lo strapagato plenipotenziario per la spending review).

 

Cottarelli è un personaggio sicuramente gradito ai banchieri, agli oligarchi di Bruxelles e, paradossalmente anche al M5S di cui oggi cammina sulle ceneri. Al di là dei soggetti destinatari di questo colpo di mano da parte del Quirinale per conto delle istituzioni europee, soprattutto della Germania, quanto è accaduto è di una assoluta gravità. 

 

Guai a sottovalutarlo. La gabbia europea si è chiusa di nuovo, ma dentro questa volta c’è un paese ed una popolazione, i nostri, in cui ormai solo il 39% aveva fiducia nella Ue. Dopo i fatti di oggi è un consenso destinato a diminuire vertiginosamente – e legittimamente.

 

Vogliamo regalare tutto questo al M5S e alla Lega o nella sinistra popolare si comincia a battere qualche colpo?

Vincenzo Maccarrone

DUBLINO

 

Ottavo emendamento. I favorevoli all’abrogazione della legge in Costituzione al 67% Alta l’affluenza, 65%. Se la Storia ha preso un altro corso, il merito è in gran parte dei movimenti femministi

 

Una giornata storica per l’Irlanda. Quando venerdì notte, poco dopo la chiusura dei seggi, esce il primo exit poll, nel quartier generale del comitato per il Sì scoppiano in lacrime per la gioia.

 

I favorevoli all’abolizione del famigerato ottavo emendamento della Costituzione, che proibisce l’aborto in quasi ogni circostanza, sono dati al 68 per cento. Alla fine della conta dei voti, il Sì raggiunge il 66.4 per cento.

 

UN RISULTATO ENORME e per certi versi inaspettato. Per settimane i sondaggi hanno dato in vantaggio il Sì, ma con un margine che si è andato riducendo nel corso dell’ultimo mese, mentre una quota significativa di elettori rimaneva indecisa. Ma oggi l’alta partecipazione al referendum 64.13 per cento e la vittoria schiacciante dei sostenitori del diritto all’aborto restituiscono l’immagine di un paese completamente diverso rispetto a quello che 35 anni fa inseriva, con una maggioranza altrettanto numerosa, il divieto esplicito dell’aborto in Costituzione.

 

Il merito è in gran parte dei movimenti femministi e per i diritti civili che per anni hanno lottato per cambiare una legislazione inumana, che costringe ogni anno migliaia di donne a recarsi all’estero per abortire legalmente, o ad abortire senza assistenza medica in Irlanda, ordinando la pillola su internet e rischiando fino 14 anni di carcere. A partire dalla tragica morte di Savita Halappanavar nel 2012 a causa di una setticemia a seguito di un aborto negato, le manifestazioni per l’introduzione di una nuova legislazione sull’aborto si sono moltiplicate. La pressione dei movimenti ha portato a un progressivo spostamento dell’opinione pubblica sul tema dell’aborto, in un paese in cui il partito di governo Fine Gael, e il principale partito di opposizione Fianna Fáil, sono entrambi di centro-destra. Fiutando il cambiamento nell’opinione pubblica sia il premier Leo Varadkar sia il leader del Fianna Fáil Micheál Martin, che in passato avevano avuto una visione più restrittiva sull’aborto, si sono espressi a favore dell’abrogazione dell’ottavo emendamento e dell’introduzione di una legge che permetta l’aborto senza condizioni fino a 12 settimane dal concepimento.

 

VISTO ANCHE IL SOSTEGNO al Sì di larga parte dei repubblicani del Sinn Féin, del Labour Party e della coalizione di sinistra People Before Profit-Solidarity, a difendere l’ottavo emendamento in parlamento erano rimasti solo alcuni deputati indipendenti, più i dissidenti all’interno dei partiti maggiori. Eppure, fra i sostenitori del Sì non vi era certezza assoluta della vittoria referendaria. La campagna per il mantenimento dell’ottavo emendamento, portata avanti da una serie di gruppi cattolici conservatori, si è dimostrata fin da subito agguerrita e ben finanziata. L’influenza della Chiesa cattolica, seppur minata da una lunga storia di scandali e abusi, rimane alta, in un paese in cui più del 90 per cento delle scuole primarie sono ancora a gestione clericale. Inoltre, più di un’attivista per il Sì aveva manifestato il timore che in caso di una vittoria risicata vi potessero essere ribaltoni in parlamento, magari introducendo una legge che permettesse l’aborto solo nei casi più estremi come lo stupro o le malformazioni fatali del feto. Tutti timori cancellati da una vittoria del Sì oltre ogni rosea aspettativa.

 

SE SI GUARDANO più in profondità i dati degli exit poll pubblicati dall’Irish Times, il principale quotidiano irlandese, si capiscono appieno le dimensioni del terremoto politico causato da questo referendum. Come previsto, il Sì prevale a larga maggioranza nelle aree urbane (71 per cento e 77 per cento nella capitale Dublino) e fra i giovani (87 per cento nella fascia 18-24 anni). Ma il referendum sembra ridefinire anche alcune geografie politiche che si credevano consolidate: il Sì prevale anche nelle aree rurali, tradizionalmente più conservatrici, con un solido 60 per cento. E se il supporto al Sì rimane più alto fra le donne (il 70 per cento vota a favore), anche la maggioranza degli uomini ha votato a favore (65 a 35 per il Sì). L’unico bastione conservatrice rimangono gli over 65, dove sei su dieci hanno votato No. È la vecchia guardia che nel 1983 aveva votato per introdurre l’ottavo emendamento. Oggi la storia rema in direzione opposta.

 

L’IRLANDA COMPIE così un altro passo nel processo di secolarizzazione, dopo il referendum che nel 1995 introdusse il divorzio e quello sui matrimoni fra persone dello stesso sesso del 2015. L’ottavo emendamento rappresentava uno degli ultimi bastioni di un’idea di società in cui lo Stato e la Chiesa esercitavano un forte controllo sui diritti riproduttivi delle donne. Il referendum del 2018 potrebbe segnare definitivamente la fine di questa idea.

Tommaso Di Francesco

 

Se è vero che le chiacchiere stanno a zero, l’allarme però resta necessario. Il populismo di governo – Trump docet con la crisi coreana – è e sarà prevedibilmente imprevedibile. Il caos sarà quasi la costante, confermando alcuni elementi che lo contraddistinguono: il nazionalismo, il condizionamento nella e della Rete che, da valore d’uso comunicativo è diventato il simulacro onnivoro dei rapporti umani; poi il mantra del «nuovo»; la conflittualità nominale dell’annuncio in un mélange di tutto e il suo contrario; la terra di mezzo del ceto medio come società di riferimento (di lavoratori, articolo 18 e Jobs Act, stragi sul lavoro non c’è traccia); e sui migranti, l’allargamento del solco coloniale tracciato dal ministro Minniti.

 

Il fatto è che la nascita del governo Conte in Italia si inscrive nell’avvento di una stagione-deriva del nazional-populismo al governo del mondo. Dalla Brexit contro l’Unione europea realizzata, della sola moneta e della mancata risposta solidale e comune sull’immigrazione; a Trump, l’interprete della «pancia» degli americani e dell’America first in difesa della classe operaia e dell’economia a stelle e striscie; da Macron, che scompagina l’avvicendamento dei partiti storici e si afferma sull’onda di una primazia neogollista e neocoloniale; alla destra estrema, patinata di socialdemocrazia come a Praga, nell’Est Europa e in Austria. Va sottolineato un punto.

 

La dichiarazione del testo integrale dell’incaricato presidente del Consiglio, (rimaneggiata da Mattarella), porta in calce la «consapevolezza di confermare la collocazione europea e internazionale dell’Italia»; certo il governo aprirà fronti in Europa per «i negoziati in corso sui temi del bilancio europeo, della riforma del diritto d’asilo e del completamento dell’unione bancaria». Ma la sostanza è che, dopo tante dichiarazioni elettorali provocatorie di Grillo e Salvini, restiamo nell’euro e, fatto non secondario, ben saldi nell’Alleanza atlantica. A qualcosa devono pur essere serviti i via vai di Di Maio e Salvini all’ambasciata Usa di Via Veneto a Roma.

 

Che fine faranno dunque le tante promesse di rimettere in discussione le troppe inutili e dispendiose missioni di guerra che chiamiamo «di pace», a cominciare dall’Afghanistan che dura da 16 anni più di ogni altro conflitto mondiale mai esistito? Certo, c’è la promessa di togliere le pesanti sanzioni alla Russia dopo la crisi ucraina, ma solo perché ci penalizzano (e magari con una strizzatina d’occhio di Salvini all’iper-nazionalista Putin), non perché strategicamente contro il ruolo dell’Europa e contro la pace; mentre si tace sull’allargamento a est della Nato a guida Usa, strategia rischiosa all’origine della crisi ucraina. Ci saranno dunque schermaglie con l’ordoliberismo ormai precario della Germania e l’europeismo sarà perfino rivendicato. Ma in che modo? Alla maniera ricattatoria dei Quattro di Visegrad, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca, paesi con leader come Orbán di riferimento ideale per Salvini. Del resto sono tutti Paesi dove lo stato di diritto è stato rimesso in discussione, che più che all’Unione europea, della quale minacciano ogni giorno l’omogeneità politica, aderiscono mani, piedi e bilancio alla Nato, l’unico, inossidabile organismo sovranazionale del Vecchio Continente. Certo ora si parla di difesa europea, ma i costi si sommerebbero a quelli dei bilanci Nato, non sarebbero alternativi. L’Italia diventerà molto probabilmente il quinto paese di Visegrad, o il sesto visto l’ingresso tra i disobbedienti sull’immigrazione del governo di estrema destra di Vienna. Trump, oltre che minaccia sospesa nel mondo, per la compagine nazional-populista è anche un faro. Intanto vediamo quanto durerà il silenzio dell’Italia sulle sanzioni all’Iran; e quanto l’omertà verso la tragedia palestinese e le provocazioni di Netanyahu.

 

Quindi avremo una ripresa di statalismo accentratore di destra – dopo che la sinistra ha dismesso la questione del ruolo dello Stato in economia – per la difesa del «first», prima la nazione mia contro la tua; per una Europa che diventi baluardo degli esclusivismi: la nazione contro la finanza internazionale, i dazi contro quello che finora è stato definito libero commercio, gli interessi nazionali contro l’«invasione» dei migranti da ricacciare via dalla «civiltà occidentale». A proposito: tutti sbraitano per Savona all’economia, ma nessuno protesta per Salvini ministro degli interni.

 

Quanto ai migranti, basterà seguire le orme tracciate dal ministro Minniti che per fermare la destra si è fatto destra: criminalizzazione del soccorso ai migranti – gli «ultimi degli ultimi» di cui parla Marco Revelli – e di ogni apertura a chi fugge dalle nostre guerre e dai risultati del nostro modello di sviluppo-rapina; con l’deologia dell’«aiutiamoli a casa loro» come viatico di un nuovo protezionismo-colonialismo, già praticato impunemente da decenni dalla Francia in Africa e confermato dal disastro provocato con la guerra in Libia; dove torneremo in armi e controlli, regalando fondi alle milizie di turno perché allarghino l’universo concentrazionario e criminale dei campi e delle prigioni libiche, fino alla «nuova frontiera» coloniale dell’Europa che, secondo la Commissione europea, è il Niger.

 

Se dopo il terremoto del 4 marzo le chiacchiere stanno a zero, allora approfittiamone per stabilire, con un nuovo lavoro “filologico” di opposizione quel che finalmente è di destra e di sinistra, di fronte all’avventura nazional-populista che è tutto meno che scontata. E che apre da subito conflitti al proprio interno e con il mondo.

25.05.2018

 

Salvini apre al centrodestra e auspica che possa, in futuro, sostenere il governo.

Siamo convinti che nelle prossime ore si possa partire con soddisfazione anche di coloro che magari cominciano all’opposizione. Penso agli alleati di centrodestra, che sapremo convincere non coi posti, ma coi progetti” ha affermato il segretario della Lega. Più esplicito di così, non si può.

L’obiettivo di Salvini è soprattutto coinvolgere Fratelli d’Italia. Con Giorgia Meloni c’è stato uno scambio di intesa. La leader di Fdi ha attaccato il Quirinale per il no di Mattarella a Paolo Savona ministro dell’economia:

Savona sarebbe un ottimo ministro dell’Economia mi dispiace che Mattarella sia così ingerente su alcuni nomi

Fratelli d’Italia non voterà la fiducia ma sono parole che sottolineano una sintonia politica. Quello che Fratelli d’Italia potrebbe fare è puntellare il governo sui provvedimenti graditi, dalle tasse all’immigrazione ad esempio. Potrebbe fare lo stesso Forza Italia? Berlusconi ha taciuto dopo avere incontrato il presidente del Consiglio incaricato ma la strategia dell’abbraccio a Salvini gli consentirebbe di non venire emarginato dalla vita politica. Ma se Salvini si rivolge al partito Fratelli d’Italia, non fa altrettanto con Forza Italia in quanto organizzazione ma si appella singolarmente ai suoi parlamentari. Con il consenso del Movimento 5 Stelle che non hanno nulla in contrario a Fratelli d’Italia, quantomeno non ha nulla in contrario Di Maio, e nei confronti dei deputati e senatori eletti nella formazione di Berlusconi.

 

La maggioranza punta a rafforzarsi e intanto Lega e 5 Stelle conducono la loro battaglia sui ministeri con il Capo dello Stato. Salvini ha affermato che i nomi li proporrà Conte. Il presidente incaricato prende tempo, la lista potrebbe non essere pronta prima di sabato. Non è solo il ministero dell’economia, di cui abbiamo scritto. In discussione ci sono altri ministeri. Agli esteri il Capo dello Stato vuole un suo uomo di fiducia, Giampiero Massolo. Un nome sospetto, perché considerato in ambienti della maggioranza come la possibile carta di riserva di Mattarella se il governo in costruzione dovesse fallire.

 

Ma Lega e 5 Stelle non hanno ancora chiuso la trattativa tra loro su altri dicasteri. Le infrastrutture per esempio. I 5 Stelle vorrebbero Laura Castelli, che è su posizioni No Tav. Ma sempre Salvini ha affermato: “Le infrastrutture sono da fare e non da smontare”.

Mario Pianta

 

Con il nuovo governo M5 Stelle-Lega il ‘populismo all’italiana’ sembra arrivato al potere. Non è così. La Lega ha governato per nove anni con Berlusconi votando ogni politica neoliberista che ha favorito finanza, imprese e modello di integrazione europea che ora critica.

 

I 5 Stelle sono pronti a scendere a compromessi su tutto con chiunque – Washington, Bruxelles, imprese, finanza, militari – pur di avere il loro turno al potere, sapendo che il loro grande consenso è nel migliore dei casi temporaneo. Il risultato è che – retorica a parte – il programma di governo è dominato da politiche neoliberali a favore dei ricchi e delle imprese, con una verniciata di populismo: dure misure contro i migranti e piccole mance ai più poveri. Potremmo chiamarla ‘politica lib-pop’.

 

IL VINCITORE di questa fase politica è il capo della Lega, Matteo Salvini, che ha trasformato la Lega da partito ‘separatista’ del Nord in un partito nazionalista e reazionario sul modello del Front National francese. Ha quadruplicato i voti della Lega (nel 2013 erano il 4%) e nel Nord ha oltre un terzo dei voti; soprattutto è diventato il leader di una coalizione di centro-destra (superando il 14% di Forza Italia) che a marzo ha avuto il 37% dei voti ed è vicina a una maggioranza dei seggi alle prossime elezioni.

 

SALVINI ha tenuto insieme la coalizione – nonostante i litigi – e ha avuto il via libera per il governo dai partner di centro-destra che hanno promesso un’opposizione morbida e il sostegno parlamentare per le (molte) politiche su cui saranno d’accordo. Salvini è così nella posizione di guidare dall’estrema destra una larga coalizione di centro-destra che comprende i moderati e l’élite; una situazione inedita in Europa.

 

LA CRESCITA POLITICA di Salvini si è rafforzata con le elezioni in Valle d’Aosta di domenica scorsa, in Molise e in Friuli di un mese fa. I sondaggi confermano l’immagine di una Lega in crescita e un sostegno stabile per il partito di Luigi Di Maio; quando il consenso ai 5 Stelle si indebolisce – come per le periferie di Roma e Torino, governate dai 5 Stelle – la Lega riesce a intercettare gran parte dei loro elettori delusi. Lo scenario politico vede così Matteo Salvini probabile vincitore di una maggioranza assoluta dei seggi per il centro-destra alle prossime elezioni, dando così a Salvini una posizione di forza nelle trattative di governo. Infine, la capacità egemonica della Lega viene anche dalla sua capacità di unire gestione del potere e voto di protesta: è stata a lungo al potere in tutti i governi Berlusconi e guida molte regioni-chiave, ma non è percepita come responsabile della crisi attuale. Allo stesso tempo, la Lega cavalca la protesta sociale con la sua retorica contro l’Europa, le tasse, la burocrazia e i migranti.

 

TRA LE CINQUE STELLE del movimento fondato da Beppe Grillo manca ancora una ‘stella polare’ che ne caratterizzi il progetto politico; l’unica priorità sembra ora la rivendicazione del potere, indipendentemente dal tipo di alleanza e programma. L’anti-corruzione e la democrazia dal basso sono poco più di un rumore di fondo; il 94% dei sostenitori dei 5 Stelle ha approvato il programma di governo in una consultazione elettronica tenuta in un pomeriggio; le decisioni dall’alto su priorità lontane dai temi tradizionali dei 5 Stelle non sono state messe in discussione dalla base; solo il ‘candidato a ministro del lavoro’ Pasquale Tridico si è ‘dimesso’ dopo l’annuncio del programma. La difficile ricerca di un Presidente del consiglio diverso da Luigi Di Maio riflette la fragilità di una gestione dall’alto del movimento che impedisce l’emergere di un più ampio gruppo dirigente.

 

LA DEBOLEZZA di fondo dei 5 Stelle è nella loro stessa visione ‘post-ideologica’; con la ‘casta’ come nemico principale e l’illusione di superare la divisione destra-sinistra, sembra che non abbiano ancora imparato come usare il potere politico per affrontare interessi di classe contrastanti e come costruire politiche capaci di sostenere il loro consenso elettorale. Al contrario, la Lega ha rafforzato le sue radici ideologiche di destra, dando ai suoi elettori forte identità e visione del mondo. Nessuna sorpresa quindi che molti tra gli italiani più poveri – classe operaia e senza lavoro nel Mezzogiorno – dopo aver scelto i 5 Stelle come anti-sistema, finiscano per votare Lega.

 

L’ASIMMETRIA tra una Lega con priorità chiare – in termini di classe e nazione – e i 5 Stelle con l’unica preoccupazione di arrivare a un accordo, ha prodotto un programma di governo che comprende alcuni temi generali dei 5 Stelle – anti-corruzione, legalità e reddito minimo – e molte misure concrete volute dalla Lega – su tasse e migranti soprattutto. Le richieste di rinegoziare i trattati europei e tornare alla sovranità nazionale in alcuni ambiti sono abbastanza rumorose per aprire uno scontro retorico con Bruxelles – e avere molta attenzione mediatica – ma hanno finora poco contenuto concreto.

 

LA MISURA più importante che verrà introdotta dal nuovo governo è la versione italiana della ‘flat tax’; persone e imprese pagheranno un’imposta sul reddito del 15 o del 20%, contro l’attuale 43% per la fascia di reddito più alta. Nel programma si dichiara che non verrà introdotta alcuna imposta sul patrimonio (l’Italia è stata spesso criticata dall’Ue per aver abolito le tasse immobiliari sulla prima casa). I controlli fiscali su piccole imprese e lavoratori autonomi saranno ridimensionati, legalizzando in sostanza l’evasione fiscale per un gran numero di elettori di centro-destra con redditi medio-alti. Per la finanza e le banche non verrà introdotto alcun controllo o limite alle loro attività. Tutto questo farà dell’Italia un paradiso fiscale per le imprese, in competizione con l’Irlanda nella ‘rincorsa verso il basso’ a chi riduce più le tasse. Un ‘neoliberismo da sogno’ che, in pratica, offrirà un po’ di margini di sopravvivenza alle piccole imprese italiane drammaticamente colpite da un decennio di crisi, ma che non ha prospettive di sviluppo. Con questo programma, il trasferimento di reddito al 20% più ricco degli italiani sarà enorme, con i ricchissimi a beneficiarne di più. Berlusconi non sarebbe mai stato in grado, con le sue maggioranze precedenti, di introdurre un programma così favorevole ai più ricchi e alle imprese.

 

QUESTE MISURE sono le più facili da realizzare: riducono semplicemente la redistribuzione attraverso l’azione dello stato, ‘lasciando fare’ al mercato – e aprendo una falla enorme nei conti pubblici. Costosa, ma in una direzione ragionevole, è invece la correzione di rotta sulle pensioni. Più difficile è l’attuazione dell’unica misura ‘a favore dei poveri’, cavallo di battaglia dei 5 Stelle, il ‘reddito di cittadinanza’. Nel programma è ridotto ad un sostegno al reddito di 780 euro al mese per un massimo di due anni per gli italiani disoccupati (nessun residente con cittadinanza straniera potrà ottenerlo) pronti ad accettare qualsiasi offerta di lavoro; nessuna cifra sui potenziali beneficiari e sui finanziamenti necessari per la sua attuazione è fornita dal programma.

 

MA IL SUCCESSO più oscuro della Lega nel programma di governo è il capitolo sui migranti, che prevede di bloccare i flussi di rifugiati, cambiamenti nelle norme europee su asilo e libera circolazione e propone il rimpatrio dei 500 mila immigrati con status irregolare ora presenti in Italia. Insieme alle altre misure su legittima difesa, legge e ordine, queste politiche offrono una risposta all’‘effetto paura’ che sta dietro alla crescita del voto della Lega. In parallelo, il voto ai 5 Stelle si basava su un ‘effetto povertà’, specialmente al Sud. La tragedia è che gli italiani più poveri hanno votato in modo larghissimo per due forze politiche che, al governo, faranno i regali più grossi ai più ricchi e alle imprese. Peggio ancora, questa ‘politica lib-pop’ potrebbe essere l’anticipazione di un futuro politico all’insegna della destra più estrema.

19.05.2018

 

Si impone una visione ideologica e culturale di destra radicale, parte di origine Lega e fatta propria dal Movimento 5 Stelle -pensiamo all’immigrazione- e parte patrimonio comune, in relazione ad esempio alla concezione delle Istituzioni.

Della politica fiscale si è detto molto. Salvini ottiene l’introduzione della cosiddetta ‘flat tax’ ossia una riduzione delle aliquote fiscali a due, la prima al 15 per cento per i redditi più bassi, la seconda al 20 per cento. E’ una misura iniqua, che favorisce i ricchi che pagheranno molte meno tasse di oggi, e penalizza i poveri, che avranno vantaggi marginali e rischiano di vedersi smantellati i servizi che con quelle tasse sono finanziati. I ricchi vincono, i poveri perdono.

 

Altri capitoli del programma delineano una impostazione autoritaria e razzista.

 

Gli immigrati sono discriminati rispetto agli italiani. Non avranno diritto alle misure di sostegno al reddito. Il cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’ e che in realtà è un sussidio di disoccupazione è riservato agli italiani. Lo stesso vale per le integrazioni alle pensioni più basse. E gli asili nido gratuiti? Solo per le famiglie italiane. Sottolineato italiane, sottolineato famiglie.

 

Passa il ‘prima gli italiani’ di Salvini e il Movimento 5 Stelle lo accetta.

 

E per la prima volta un programma elettorale mette nero su bianco il numero di immigrati da espellere: 500mila. Per le persone da cacciare, Lega e 5 Stelle pensano di istituire dei centri di detenzione, uno in ogni regione italiana.

 

Le norme per la richiesta dell’asilo vengono rese molto più dure, di fatto impossibili se si pensa all’idea di costringere il richiedente asilo a fare domanda nel proprio Paese. Tu scappi da un regime autoritario e ti devi rivolgere a quel regime per chiedere di ottenere asilo in Italia.

 

E ancora, procedure di espulsione rapide e un trattamento giuridico speciale. “Occorre poi prevedere specifiche fattispecie di reato che comportino, qualora commessi da richiedenti asilo, il loro immediato allontanamento dal territorio nazionale” è scritto.

 

La concezione della politica, dello Stato, della democrazia. Il semplice fatto che Lega e Movimento 5 Stelle abbiano scritto non un programma ma un ‘contratto’, che dovrà essere firmato dai leader dei due partiti davanti a un pubblico ufficiale che autenticherà le firme -così è previsto- denota una concezione privatistica della politica.

 

Ma questa forse potrebbe ancora essere considerata questione astratta. Molto più concreta, drammaticamente concreta, la prospettiva della riforma della Costituzione per introdurre il vincolo di mandato dei Parlamentari. La Costituzione figlia della Resistenza al fascismo fa della libertà del Parlamentare da qualsiasi vincolo di mandato uno dei suoi capisaldi per garantire libertà e democrazia. La ragione dovrebbe essere intuibile. Un deputato il cui destino fosse legato alla fedeltà al partito con cui è stato eletto, si ridurrebbe a essere un mero esecutore delle scelte di chi quel partito comanda.

 

Del resto, quali libertà di azione avrebbe un Parlamentare a cui venisse imposto, se volesse presentare un disegno di legge, di ottenere il consenso congiunto dei capigruppo dei due partiti? Fantasie? No, lo prevede il ‘contratto’.

 

Del ‘comitato di conciliazione’ nella bozza definitiva si dice poco. Il ‘contratto’ prevede, dopo le polemiche dei giorni scorsi, non un passo indietro ma un semplice rinvio a successivi accordi per la definizione della sua composizione. Rimane inalterato il principio: sui temi di interesse principale e ogni volta che ci saranno contrasti, sarebbero i partiti a decidere. 

 

Il Governo e il Parlamento sarebbero svuotati delle loro prerogative, ridotti a esecutori di volontà altrui.

 

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