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14.04.2018

da Il Fatto quotidiano

 

“Ho ordinato all’esercito degli Stati Uniti di lanciare attacchi di precisione contro obiettivi associati al potenziale di armi chimiche del dittatore siriano Bashar al Assad“. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, parlando alla nazione dalla Casa Bianca e precisando che gli attacchi sono in corso, in coordinamento con Francia e Regno Unito.

 

“Non è finita. Quella che avete visto stanotte non è la fine della risposta degli Stati Uniti”: lo affermano fonti dell’amministrazione Trump, spiegando come il piano messo a punto dal Pentagono “prevede molta flessibilità che permette di procedere a ulteriori bombardamenti sulla base di quello che è stato colpito stanotte”. La più grande preoccupazione, si spiega inoltre, è l’accresciuta capacità della Russia rispetto allo scorso anno in termini di difese antimissili e antiaerea.

 

BASI MILITARI E SEGRETI DI STATO. NOI NO RESTIAMO IN SILENZIO

di Gregorio Piccin

 

L’Italia ospita 59 basi militari statunitensi, alcune delle quali risultano essere tra le più importanti dal punto di vista strategico/operativo a livello continentale (capacità nucleari comprese).

 

L’Italia ospita, il 15% (13.000 unità circa) del personale militare statunitense presente in Europa e con questi numeri il nostro Paese risulta essere il quinto avamposto statunitense a livello globale dopo Germania, Giappone, Afghanistan e Corea del Sud.

 

Negli ultimi venticinque gli Stati uniti (coadiuvati finanziariamente anche dai governi italiani) hanno investito ingenti risorse nelle basi italiane trasformandole in rampe di lancio per operazioni in Europa, Africa e Medio oriente.

 

Ogni volta che gli Stati Uniti annunciano ed eseguono un’aggressione militare verso Paesi terzi nel quadrante euro-mediterraneo, l’Italia viene sistematicamente coinvolta direttamente o indirettamente concedendo l’uso delle basi.

 

Oltre cha dal trasversale cieco atlantismo in politica estera, questo insensato automatismo deriva dal fatto che permane il segreto di stato sull’accordo bilaterale sulle basi militari alleate siglato nel 1954 dal governo Scelba e dall’allora ambasciatrice statunitense Clare Booth Luce (Bilateral Infrastructure Agreement meglio noto come “accordo ombrello”).

 

Il BIA, che si riferiva all’uso di 6 basi, è stato poi aggiornato e perfezionato negli anni per coprire tutte le installazioni successivamente insediate sul nostro territorio e trascinandosi dietro, di volta in volta, la consueta segretezza.

 

È solo grazie ad uno dei vari cablogrammi resi noti da Wikileaks  che oggi sappiamo che gli statunitensi sono seriamente preoccupati dalla declassificazione del BIA poiché in base all’articolo 2 del trattato stesso essi non potrebbero utilizzare le basi su suolo italiano per azioni di guerra a meno che non siano in osservanza a disposizioni NATO o concordate con il Governo italiano (come è stato per l’Iraq e come sarà per la Siria).

 

Ma se la prima guerra fredda si è conclusa nel 1989 e la sua versione 2.0 è in pieno svolgimento il nostro Paese non può più permettersi il segreto di stato sulla propria sovranità e sul fatto che diventa esso stesso, in quanto quinto avamposto statunitense, un obiettivo strategico per le ritorsioni degli altrui nemici.

 

L’Italia non ha bisogno di nemici, ma di pace, stabilità, e relazioni internazionali basate sulla cooperazione.

 

È tempo che il segreto di stato sulle basi statunitensi nel nostro Paese venga rimosso, come primo passo concreto per l’uscita dell’Italia dalla NATO, dalla belligeranza permanente che questa produce e dalla grave ipoteca che le basi statunitensi pongono sul nostro stesso futuro.

Tommaso Di Francesco

da Il Manifesto

12.04.2018

 

«Nessuna base in Italia per la nuova guerra “intelligente” di Trump e Macron»: questa dovrebbe essere la posizione del nostro Paese di fronte al brutto vento che tira nel Mediterraneo orientale, per una guerra quella in Siria, aizzata nel 2011 dall’asse degli «Amici della Siria» che, non contenti del disastro provocato finora che avrebbe dovuto sortire lo stesso effetto «riuscito» della Libia, rilanciano ora quasi la stessa coalizione di guerra di cinque anni fa.

 

Pronti a colpire in Siria obiettivi militari di Assad, difficilmente distinguibili però da quelli di Russia e Iran che lo sostengono in armi, come dimostra l’uccisione – certo mirata – da parte del raid israeliano che ha colpito una base siriana provocando 14 vittime tra cui quattro consiglieri di Teheran.

 

Nessuna base in Italia – non basta dire italiana – perché la configurazione geostrategica della penisola, piena zeppa di basi militari Usa e Nato, dice che oggettivamente è già coinvolta e lo sarà ancora di più nello scenario di un conflitto che rischia di deflagrare ed estendersi nel Medio Oriente in macerie.

 

Deve dire di no all’uso di base militari in Italia per colpire la Siria, il governo Gentiloni rimasto in carica per il disbrigo degli affari correnti, perché partecipare ad una guerra, anche «solo» concedendo la disponibilità delle basi, operative o logistiche, non è affare che può essere etichettato come «disbrigo degli affari correnti». Che pretende il ruolo del Parlamento e di un governo effettivo. Altro che Commisione speciale.

 

Dovrebbe dire di no anche il variegato schieramento dei partiti alla seconda consultazione dal presidente Mattarella dopo il voto di più di un mese fa. Per la quale consultazione le chiacchiere stanno a zero.

 

Ma potrebbe essere l’occasione, dopo le ambiguità e le promesse della campagna elettorale, per parlare finalmentre di contenuti di governo.

 

Così l’ipotesi ventilata dal M5 Stelle del famoso «contratto» – malamente paragonato a quello di Cdu-Csu e Spd per la Grosse Koalition tedesca – con dentro i contenuti del probabile accordo da proporre in modo «paritario» a Salvini-Meloni-Berlusconi o al Pd, potrebbe uscire dalle nebulose.

 

Per contenere o la cosiddetta lealtà al fronte occidentale, come da rassicurazioni di Di Maio e Salvini in reiterata missione all’ambasciata Usa, oppure il rifiuto a partecipare all’ennesima guerra scellerata che andrebbe ad aggiungersi ad un conflitto armato che finora ha fatto 400mila vittime e milioni di profughi.

 

Soprattutto perché la guerra che si annuncia dai due «giustizieri», entrambi con esperienza imperiale e coloniale, come vendetta bellica per le presunte responsabilità di Damasco nell’uso di armi chimiche, proprio mentre Assad sta vincendo la guerra ed è sotto i riflettori del mondo, serve a Trump come distrazione.

 

Dal fatto che è braccato in patria per la vicenda «Russiagate»; e se bombarda, di quello parleranno i media invece che di pornostar, e poi andrebbe a colpire interessi strategici della Russia.

 

Insomma sarebbe una prova di smarcamento e «indipendenza»: first America.

 

Anche per Macron è una distrazione, dal legame fortissimo con gli interessi dell’alleato Arabia saudita – viene in mente chissà perché Sarkozy con Gheddafi – e dalla prima vera crisi sociale e politica che lo investe in questi giorni.

 

Un intervento motivato da entrambi per punire la Siria, come se il ruolo dell’Europa e degli Stati uniti in primis non l’avesse già distrutta abbastanza. E che dal punto di vista militare non fiaccherà certo Damasco, ma che Trump deve fare a tutti i costi con il soccorso di Macron – Londra sembra guardinga – e sotto impulso di Israele, perché lo ha annunciato e non può perdere la faccia.

 

Magari non entro 24-48 ore come ha proclamato tronfio ma, dopo lo scontro all’Onu, aspettando l’inchiesta dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) sul campo.

 

Ma se intanto ci sarà il bombardamento su obiettivi siriani, stavolta la vicenda promette il peggio.

 

Perché la Russia minaccia di reagire colpendo mezzi e basi di lancio degli eventuali bombardamenti.

 

Siamo a quanto pare all’addio alla guerra per procura e all’appalesarsi di un confronto bellico diretto nell’area. Che non tarderà ad espandersi.

 

E l’Italia mediterranea, se coinvolta, è davvero a un tiro di missili.

10.04.2018

 

Diffondiamo queste immagini col cuore vicino ai palestinesi! 

 

Una strana guerra, quella in cui si muore solo da una parte.
Siete la vergogna di questa umanità.
Come si fa a esultare giustiziando con un colpo in fronte un innocente disarmato?

Il ministro della difesa israeliano ha dichiarato che il soldato ripreso "meriterebbe una medaglia".
L'esercito sionista è un esercito di assassini senza scrupoli.

 

Adriana Pollice

 

Condanna per Davide Falcioni. Documentò lo srotolamento di uno striscione. Il pm: doveva aspettare la polizia.

 

Condannato a quattro mesi per aver raccontato un’azione dimostrativa dei No Tav. È successo ieri al giornalista marchigiano Davide Falcioni, il tribunale di Torino l’ha riconosciuto colpevole di violazione di domicilio e violenza sulle cose. La pena è stata sospesa. L’avvocato difensore, Gianluca Vitale, definisce la sentenza «un bavaglio per la stampa». La vicenda inizia nel 2012, quando Falcioni scriveva per il portale Agoravox: «Un anno difficile per la Val Susa – spiega -, a febbraio Luca Abbà era precipitato da un traliccio dell’alta tensione, folgorato. C’erano manifestazioni e blocchi stradali continui. Ad agosto la redazione decide di mandarmi lì per un reportage sulle proteste, sei giorni a seguire il movimento contro la Tav dall’interno».
Il 24 agosto gli attivisti si presentano a Torino all’ingresso dello Geostudio, costola della Geovalsusa srl che partecipa al consorzio dei costruttori della tratta Torino-Lione. Doveva essere un volantinaggio, nell’ambito della campagna «C’è lavoro e lavoro», ma poi hanno un’idea: citofonano agli uffici dicendo di dover consegnare una raccomandata, la porta viene aperta e una ventina di No Tav entrano. «Entrai anch’io – racconta Falcioni -, rimanemmo dentro circa trenta minuti. Srotolarono uno striscione, dal balcone accesero un fumogeno. Nessuna violenza, il clima era molto rilassato, gli impiegati scherzavano. All’interno non c’era la polizia né i carabinieri».
Le forze dell’ordine alla fine arrivano e 19 attivisti vengono denunciati, l’accusa per tutti è violazione di domicilio e pure violenza sulle cose, che si traduce in «un vasetto di yogurt che qualcuno, non identificato, avrebbe rovesciato in un cassetto e la sparizione di una spillatrice», spiega Falcioni, che ora scrive per Fanpage ma all’epoca stava raccogliendo gli articoli necessari per iscriversi all’Ordine dei pubblicisti. Comincia il processo, uno degli imputati chiede al giornalista di testimoniare sul clima tranquillo nel corso dell’azione: «Durante la deposizione la pm Manuela Pedrotta mi ha informato che la mia posizione era stata stralciata e da testimone passavo a imputato. Se non fossi andato a raccontare cosa avevo visto, non avrei subito il processo».
La pm Pedrotta contesta a Falcioni di aver assistito all’azione allo Geostudio: «Non riesco a capire l’utilità di entrare dentro. Non poteva farsi raccontare quello che era successo dalle forze dell’ordine?». E ancora: «Lei è marchigiano, cose le interessava della Tav?». Infine: «Non era nemmeno un giornalista, ma anche se lo fosse stato non era scriminato» cioè non aveva una giustificazione perché, secondo la pm, «il diritto di cronaca è stato riconosciuto qualora ricorrano determinate condizioni, tra cui l’interesse pubblico» e in quel caso per la pm e la giudice Isabella Messina, che ha emesso la condanna, l’interesse pubblico non ci sarebbe stato.
«Avrei dovuto rinunciare a fare il giornalista per non commettere il reato di violazione di domicilio – commenta Falcioni -. Se mi ritrovassi in quella situazione mi comporterei allo stesso modo sono però turbato perché è un attacco a tutta la categoria. Aspettiamo le motivazioni per fare appello, speriamo in un giudice che faccia giustizia e non politica».
Duro il commento dell’avvocato Vitale: «Da quanto si ricava dalla requisitoria della pm, il problema è soltanto il contenuto dell’articolo. Evidentemente non è piaciuto alla procura. Siamo alla teorizzazione del giornalismo embedded: bisogna stare in redazione e passare solo le veline. Le parole della pm sono pericolose per la democrazia». Ieri è intervenuta anche la Federazione nazionale della stampa: «Il collega si è limitato a seguire i fatti. A meno che non venga dimostrato che Falcioni aveva preso parte alla violazione di domicilio, la condanna suona come un attacco al diritto di cronaca. L’auspicio è che in appello prevalgano le ragioni dell’articolo 21 della Costituzione».

08.04.2018

 

 

Il Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea condanna il massacro perpetrato ieri dall’esercito israeliano. "Non vi sono giustificazioni per la strage di cui si è reso responsabile ieri il governo israeliano", si legge in una nota firmata da Marco Consolo.

 

"Solo un governo criminale può dare l’ordine ai cecchini di sparare su una manifestazione pacifica di 30.000 persone. Si tratta di un crimine rispetto al quale chi tace è complice. Definire “scontri” il tiro al bersaglio su una manifestazione disarmata non è accettabile.

 

Ricordiamo che ogni 30 marzo, durante la grande marcia di ritorno per la Giornata della Terra, i palestinesi commemorano la morte nel 1976 di sei arabi israeliani uccisi durante una manifestazione contro la confisca della loro terra da parte di Israele", continua.

 

"Questo massacro è opera di un governo di estrema destra che si sente incoraggiato dalle decisioni e dalle dichiarazioni di Trump ma anche da una più generale complicità internazionale. Netanyahu e i suoi alleati procedono imperterriti nella violazione del diritto internazionale, dei diritti umani e di qualsiasi risoluzione delle Nazioni Unite con la colonizzazione dei territori palestinesi e mette in discussione lo stesso status degli "arabi israeliani", cioè i palestinesi rimasti in Israele dopo il 1948, con la legge sullo "stato-nazione" che costituzionalizzerà il carattere esclusivamente ebraico dello stato", conclude il Prc.

 

Per i suoi crimini, secondo il Prc, il governo Netanyahu dovrebbe essere sottoposto alla Corte Penale Internazionale "come chiedono autorevolmente i Giuristi Democratici".

 

Il Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea chiede al governo italiano, alla rappresentante europea per la politica estera Mogherini e all'intera comunità internazionale l'immediata condanna e di intervenire immediatamente per fermare le violenze e gli abusi del governo israeliano.

 

In questo contesto, il Prc ribadisce la richiesta di cancellare l’assurda decisione di far partire il Giro d’Italia da Gerusalemme, una scelta che rende il nostro paese odiosamente complice anche sul piano simbolico di Netanyahu e Trump.

 

Il Prc chiede inoltre al Presidente della Repubblica Mattarella di esprimere, come fece Sandro Pertini di fronte alla strage di Sabra e Chatila, la condanna del popolo italiano.

Michele Giorgio

Da il Manifesto

 

Israele/Striscia di Gaza. Almeno otto palestinesi sono stati uccisi e altri mille feriti dall'esercito israeliano nel secondo venerdì della "Marcia del Ritorno". L''Onu accusa Israele di fare uso non necessario di forza letale.

 

Doveva essere la giornata del “kawshù”, la giornata della gomma, ossia dei ‎pneumatici dati alle fiamme che, con il loro fumo nero e denso, avrebbero impedito ‎ai tiratori scelti israeliani di prendere di mira i manifestanti della “Marcia del ‎Ritorno” organizzata a Gaza. Invece è stata una nuova giornata di sangue simile a ‎quella del 30 maggio. Sotto i colpi sparati dai militari israeliani sono caduti almeno ‎otto palestinesi, tra i quali un 16enne Hussein Madi, e oltre mille feriti, stando ai ‎dati del ministero della sanità palestinese. Negli ultimi otto giorni, lungo le linee di ‎demarcazione tra Gaza e Israele, sono stati uccisi 30 palestinesi. L’esercito ‎israeliano ha di nuovo scaricato ogni responsabilità sui palestinesi, sul movimento ‎islamico Hamas che, a suo dire, sarebbe il regista della “Marcia del Ritorno”. Il ‎portavoce militare ha riferito di tentativi palestinesi di attaccare la recinzione e ‎infiltrarsi in Israele, di ordigni esplosivi e bottiglie molotov lanciati, attraverso la ‎barriera. “Atti di terrorismo” al quale l’esercito avrebbe risposto con ‎«moderazione» ‎facendo uso di cannoni ad acqua, ventilatori antifumo e di armi da fuoco ma solo ‎nelle situazioni più critiche. Una reazione ‎«contenuta» che non trova riscontro nei ‎tanti morti e feriti palestinesi. Ieri a Ginevra l’Alto Commissariato Onu per i diritti ‎umani ha espresso preoccupazione per le nuove violenze, parlando di “dichiarazioni ‎inquietanti” rilasciate dalle autorità israeliane. La portavoce Elizabeth Throssell ha ‎sottolineato che il 30 maggio l’equipaggiamento e le difese delle forze israeliane ‎‎”non avrebbero dovuto portare ad un uso della forza letale”. Ieri è andata allo stesso ‎modo.‎

 

‎ La giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a, uno ‎dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno. Migliaia di persone ‎sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei giorni scorsi. I più giovani hanno ‎cominciato ad accatastare in vari punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. ‎Qualcuno indossava delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri ‎oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha spiegato a ‎una televisione locale di essere andata all’accampamento ‎«per onorare le persone ‎uccise‎». Ha aggiunto di avere paura ma che sarebbe ugualmente avanzata verso le ‎barriere di confine: ‎«Siamo qui per dire all’occupazione che non siamo deboli‎». ‎Quindi i manifestanti, i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato ‎fuoco ai pneumatici.‎

 

‎In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo nero che spinte dal vento si sono ‎dirette verso le postazioni israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i ‎cannoni ad acqua per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi ‎gruppetti di giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei ‎soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata una replica del ‎‎30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est di Khan Yunis, divenuto ‎tristemente noto durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per ‎l’elevato numero di vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici. Il primo a ‎cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb, 29 anni. Poi ‎sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed Saleh, 33 anni, Ibrahim ‎Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri sera non era stata ancora accertata ‎l’identità. È stato uno stillicidio di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia ‎di sangue potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in condizioni ‎gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti, colpiti secondo i media locali, ‎nonostante fossero chiaramente identificabili come operatori dell’informazione. A ‎Khuzaa poco dopo è andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ‎ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di sostenitori che ‎scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha annunciato che il mondo presto ‎si troverà di fronte a ‎‎«una nostra grande mossa, con cui violeremo i confini e ‎pregheremo nella moschea di Al-Aqsa‎», riferendosi al principale sito religioso ‎islamico a Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e non ‎solo per per i palestinesi.‎

 

‎ Se questo – oltrepassare le linee di demarcazione con Israele – sia davvero ‎l’obiettivo di Hamas non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia ‎del Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen – piuttosto ‎tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a Gaza – e rafforzato gli ‎islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi impulsi e rinunciare ad imporre ‎nuove sanzioni contro Gaza, in risposta all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah ‎e al fallimento, almeno sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le ‎sue mosse rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino al ‎‎15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione popolare ‎l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.‎

06.04.2018

da il Fatto quotidiano

 

 

G8 di Genova, 28 tra medici, poliziotti e carabinieri condannati a pagare 6 milioni di danni allo Stato.

 

La Corte dei Conti di Genova ha stabilito che devono rifondere i soldi pagati a chi subì gli abusi nella caserma di Bolzaneto. Tra i condannati anche Alfonso Sabella, all’epoca capo dell’Ispettorato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nonostante la sua posizione fosse stata archiviata. I pm avevano chiesto che a questa cifra si aggiungesse anche il danno di immagine

Dovranno restituire allo Stato 6 milioni di euro per i danni causati in seguito ai risarcimenti pagati a chi subì gli abusi nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001. Lo hanno stabilito i giudici della Corte dei conti di Genova che hanno condannato 28 persone, tra personale medico-sanitario, appartenenti della polizia, carabinieri e polizia penitenziaria. La procura, a vario titolo, aveva chiesto un risarcimento di 7 milioni di euro per i ristori pagati alle parti offese in sede penale e le spese legali e altri 5 milioni per il danno di immagine.

Tra i condannati, come anticipato nell’edizione locale di Repubblica, anche Alfonso Sabella, all’epoca dei fatti capo dell’Ispettorato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e il generale Oronzo Doria, ex capo area della Liguria degli agenti di polizia penitenziaria. Per la procura contabile, nonostante la posizione di Sabella fosse stata archiviata, vista la sua elevata posizione ricoperta nell’amministrazione penitenziaria, avrebbe dovuto controllare e vigilare affinché non avvenissero violenze e comportamenti scorretti. Stesse argomentazioni anche per il generale Oronzo Doria, assolto dalle accuse.

 

Per il pm, oltre al danno patrimoniale, si doveva aggiungere anche il danno all’immagine dello Stato e delle varie amministrazioni, quantificato in 5 milioni di euro: gli episodi di violenza avvenuti a Bolzaneto “hanno determinato un danno d’immagine che forse non ha pari nella storia della Repubblica”.

Rachele Gonnelli

 

Anticipazioni sulle licenze di vendita di armi 2017 del ministro Azzarello ma senza relazione alle Camere. Vendite per oltre 10 miliardi incluso il Golfo. Riarmo in vista e solo 150 mila addetti, compreso l'indotto

 

 

Appena entrato in carica il nuovo Parlamento è già stato scavalcato, ignorato quale organo sovrano su un settore che dire strategico è dire poco: il controllo sull’export delle armi e dei sistemi militari.

 

Se ne sono accorte le organizzazioni che da quasi tre decenni sorvegliano l’attuazione della legge 185 sul rilascio delle licenze di esportazioni di armamenti: Amnesty international, Oxfam, Rete della Pace, Rete per il Disarmo, Movimento dei focolari e Fondazione Finanza Etica.

 

Hanno scoperto che il ministro plenipotenziario Francesco Azzarello, direttore dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) soltanto tre giorni fa, come una sorpresa da uovo di Pasqua, ha rilasciato una intervista all’agenzia Ansa fornendo anticipazioni “pesanti” sulle vendite di armi all’estero nell’anno appena trascorso.

 

Anticipazioni ancorate a «una serie di considerazioni anche di tipo politico prima dell’invio al Parlamento della relazione prevista dalla legge 185», denunciano le associazioni pacifiste, che parlano di «grave sgarbo istituzionale».

 

I DATI DIFFUSI con questa curiosa anteprima parlano chiaro: le autorizzazioni all’export armiero per il 2017 ammontano a 10, 3 miliardi di euro, quindi si attestano per il secondo anno di fila sopra la soglia dei 10 miliardi, anche se il dato complessivo, pari a 14,9 miliardi di commesse autorizzate è in calo del 31% sul 2016. E il bilancio dell’anno scorso resta, per esplicita e soddisfatta sottolineatura del ministro Azzarello “il secondo valore più alto di sempre”. Ciò che ha fatto la differenza due anni fa è stata la grossa partita dei 28 Eurofighter venduti al Kuwait per 7,3 miliardi ma la componente di export direzionata verso i Paesi del Golfo, e quindi verso i sanguinosi conflitti mediorientali, continuano a costituire la fetta più grossa della torta. Nel 2017 c’è infatti da considerare la partita del valore di 3,8 miliardi per navi e missili venduti al Qatar.

 

QUANTO ALLE BOMBE sfornate dagli stabilimenti sardi della Rwm Italia , per essere utilizzate – come ha denunciato anche l’Onu – dall’Arabia saudita nella strage di civili in Yemen, nell’anno appena trascorso e probabilmente proprio per merito delle denunce delle associazioni pacifiste e delle organizzazioni internazionali, le licenze sono passate da 486 milioni del 2016 a 68 milioni del 2017.

 

Nel frattempo il tradizionale mercato di sbocco delle industrie armiere italiane, in primis Leonardo-Finmeccanica e Fincantierima anche tutta una serie di aziende medio-piccole, cresciute di numero da 124 a 136 in un solo anno, che spesso producono in joint venture con imprese straniere in modo da aggirare leggi e limitazioni – cioè il mercato costituito dagli altri paesi della Ue e Nato – ha recentemente subito una contrazione. Ma a ben vedere si tratta di una impasse temporanea, destinata a essere soppiantata da un trend d’incremento.

 

L’avvisaglia viene proprio in queste ore dal Cile, dove – al salone International Air & Space Fair ancora in corso Leonardo ha appena siglato un contratto con il ministero della Difesa britannico per la fornitura di una suite di protezione elettronica per ammodernare la flotta di elicotteri da combattimento, una cinquantina in tutto, Apache della Raf.

 

L’ORIZZONTE DELLA BREXIT non frena affatto la compartecipazione tecnologica tra Leonardo, Thales, Bae Systems e la statunitense Boing per quanto riguarda radar, sensori e apparecchiatura da guerra. Al contrario l’Europa, che già oggi è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, nel prossimo futuro si riarmerà sempre di più.

 

Come denuncia un report del sito Sbilanciamoci.info con il nuovo strumento di cooperazione rafforzata per la creazione di una difesa comune europea – Permanent structure cooperation, in sigla PeSCo – è lecito prevedere, invece che un risparmio per la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, in realtà una esplosione delle spese per sistemi d’arma iper tecnologici.

 

Da quanto il Pesco è stato varato da 25 paesi Ue, in sordina, nel dicembre 2017 la spesa dei paesi europei per le armi è già aumentata e a partire dal 2020 si prevede uno stanziamento di 5,5 miliardi tra fondi europei e nazionali destinati all’acquisto di sistemi di difesa e per la ricerca, con la possibilità che questi soldi vengano anche svincolati dal conteggio dei deficit di spesa pubblica.

 

IN ITALIA IL BUSINESS bellico, a detta dello stesso Azzarello, rappresenta lo 0,9% del Pil e dà lavoro, incluso l’indotto, ad appena 150 mila persone.

 

Ed è bene ricordare che, a fronte di tutti questi miliardi spesi, il moltiplicatore della spesa militare – come ricorda il centro studi Rosa Luxemburg , è assai più basso di quello di servizi pubblici e manutenzione del territorio e beni comuni.

 

05.04.2018

da Repubblica

 

 Grave incidente sul lavoro stamattina a Crotone. Un vecchio muro di contenimento in cemento armato è crollato in un cantiere edile, investendo alcuni operai. Il bilancio attuale è di due morti e un ferito grave. Il cantiere si trova lungo in viale Magna Grecia, il lungomare che porta alla zona archeologica di Capo Colonna. 

Arrivati sul posto, i vigili del fuoco hanno estratto dalle macerie il terzo operaio, M.D.M., un italiano di 56 anni. È stato subito trasportato all'ospedale San Giovanni di Dio di Crotone. Le sue condizioni, da quanto si apprende, sono gravi: ha una frattura al bacino e ha subito la rottura della vescica. Niente da fare per i suoi due colleghi, morti sul colpo: si tratta di Giuseppe Greco, un 51enne di Isola Capo Rizzuto, e di Kiriac Dragos Petru, un romeno di 35 anni, residente a Rocca di Neto. 

I compagni di Rifondazione dichiarano che non è giusto  dover morire per lavorare , alle famiglie e agli amici delle vittime va il nostro pensiero.

04.04.2018

 

TRA CANTI E MUSICA SI CELEBRA (IN ANTICIPO) L’ENNESIMA DEVASTAZIONE AMBIENTALE

DEL TERRITORIO

 

La Società Sorgenia Spa vuole costruire una nuova centrale geotermica binaria da 5MW a Saragiolo, con un progetto che prevede la perforazione di nuovi pozzi geotermici (da 10 a 17) a valle di Saragiolo, Bagnolo e Marroneto: un’operazione devastante in zone già dichiarate a rischio frane. Come si fa a conquistare la benevolenza delle popolazioni per questo nuovo scempio ambientale?

 

Semplice: basta sponsorizzare sagre, feste ed iniziative culturali con la tecnica del Greenwashing geotermico, (strategia di comunicazione di certe imprese finalizzata a costruire un'immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale, allo scopo di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica dagli effetti negativi prodotti dalle proprie attività), cosa in cui è maestra l’Enel.

 

E’ ovvio che per fare ciò è necessaria la disponibilità delle istituzioni locali ma anche questo non è un problema: con la enorme quantità di incentivi, (che rappresentano dal 20 al 25% delle bollette pagate dei cittadini), si possono dare agli enti locali affamati di risorse qualche compensazione ambientale e una piscina geotermica.

 

Sorgenia ha imparato bene la lezione Enel e, ancor prima di avere realizzato la centrale, è già partita con la sponsorizzazione di Canta Fiora (Festival di musica popolare dal 27 aprile al 1 maggio a Santa Fiora).

 

Anche gli artisti devono vivere, però un problema etico se lo dovrebbero porre: ha senso farsi finanziare da società che fanno della devastazione ambientale la loro ragione di profitto?

 

Si canta e si balla mentre si devasta l’ambiente.

 

Basta con la colonizzazione dell’Amiata da parte delle multinazionali dell’energia.

 

Rifondazione Comunista per Potere al Popolo

“Circolo Raniero Amarugi” Santa Fiora

 

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