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Alessandro Avvisato 05.11.2017 da Contropiano  I media filogovernativi (tutti, di fatto) hanno presentato come una “grande concessione umanitaria” l’idea di non far scattare l’aumento automatico dell’età pensionabile per alcune categorie di lavoratori che sicuramente hanno mansioni più logoranti della media. Contemporaneamente, viene presentato come “normale” lo stesso aumento automatico – da 66 anni e sette mesi a 67 anni – giustificandolo con un analogo aumento delle aspettative di vita registrato dall’Istat. Cinque mesi in più di vita, dunque cinque mesi in più di lavoro. Come se fosse la stessa cosa vivere e lavorare, o peggio ancora vivere per lavorare. C’è una logica mortifera sotto questi ragionamenti che abbiamo messo in evidenza molte volte. Ma non abbiamo l’illusione che basti pubblicare un’analisi seria o ironica sulle nostre pagine per smontare una “narrazione” che giustifica un prevedibile sterminio di massa. Proviamo dunque ad accendere i riflettori su alcuni trucchi statistici piuttosto grossolani, che nessun giornalista mainstream osa neppure menzionare. I cinque mesi di “aumento dell’aspettativa di vita” sono infatti estrapolati dal raffronto tra il 2013 e il triennio successivo. Da cui risultano per l’appunto mediamente cinque mesi in più. Dov’è il trucco? Nel fatto che il 2016, per esempio, registra invece un calo dell’aspettativa di vita rispetto all’anno precedente, pienamente e drammaticamente confermato dal primo trimestre 2017. In pratica usando i grafici, si vedrebbe che la curva dell’età aumenta fino al 2015 e poi prende ad abbassarsi. Un governo serio – e un consiglio direttivo dell’Istat meno servile – si preoccuperebbero di una così clamorosa inversione di tendenza rispetto alle dinamiche precedenti, che mette in discussione tutta una serie di aspettative sul futuro prossimo. Ma, come sappiamo, l’imperativo contenuto nelle indicazioni dell’Unione Europea è contenere la spesa pubblica per ridurre il debito, il deficit e raggiungere il pareggio di bilancio (diventato nel frattempo “obbligo costituzionale” senza neppure uno straccio di dibattito parlamentare). Dunque l’impegno del governo (di tutte le forze “politiche”) e del sistema mediatico è per la giustificazione dell’aumento automatico dell’età pensionabile. Per non apparire “prevenuti” riportiamo qui di seguito l’articolo pubblicato a ferragosto dal docente di demografia Gian Carlo Blangiardo sul quotidiano “sovversivo” L’Avvenire (organo della Cei, insomma i vescovi italiani). Oltre ai numeri da lui presentati, ci sembra utile qui chiarire alcune dinamiche che preparano una tagliola mortifera. L’aspettativa di vita – dipendendo dalle condizioni materiali di vita (lavoro, sicurezza sul lavoro, istruzione, diritti, sanità, frequenza fisiologica di ferie e riposi, ecc) – può infatti anche scendere. E dai dati recentissimi sembra che questo stia già avvenendo. Ma il “meccanismo automatico” previsto dalla legge Fornero, oltre a essere criminale, non prevede retroazioni. Una volta fissata per legge una certa età pensionabile, questa non potrà essere “automaticamente” abbassata. E’ insomma un meccanismo predisposto solo per salire, non viceversa. Ne consegue che ci potremmo trovare nel giro di un decennio o poco più davanti a una situazione in cui l’età pensionabile è vicinissima o superiore alle aspettative di vita! A quel punto i conti Inps sarebbero perfettamente in ordine, visto che non dovrebbe più erogare pensioni… Nel frattempo l’età pensionabile delle donne – cui quotidianamente vengono rivolti alti apprezzamenti e propositi di “promozione sociale” – è aumentata di ben 7 anni. Per chi avrà iniziato a lavorare nel 1996 arriverà tranquillamente a 71 anni. Diciamo che è l’unico punto su cui è stata veramente raggiunta la parità di genere… I giovani – che sono indicati in cima alle priorità in ogni discorso governativo – si trovano invece in una situazione ancora peggiore. Inchiodando gli anziani al lavoro finché morte non li liberi, infatti, ritardano progressivamente l’ingresso nel mondo del lavoro “vero” (diciamo mediamente stabile, nulla di più). Nel frattempo, grazie alla “decontribuzione previdenziale” messa come incentivo all’assunzione, si vedranno drasticamente decurtati i contributi validi ai fini pensionistici futuri, venendo così condannati a pensioni da fame (se ci arriveranno vivi). Inutile aggiungere che, con la decontribuzione, intanto calano le entrate annue dell’Inps, il cui garrulo presidente potrà così continuare a dire che “non abbiamo i conti a posto” per giustificare altre e più infami modifiche al sistema (senza peraltro lamentarsi troppo delle aziende, che evadono contributi previdenziali per almeno 8 miliardi ogni anno). Ultimo appunto. Aumentare l’età pensionabile non significa affatto che le persone avranno un lavoro fino a quell’età. Significa soltanto che prima di quell’età non verrà corrisposta loro una pensione. Il Jobs Act, abolendo l’art. 18 (che vietava i licenziamenti “senza giusta causa”), permette alle aziende di licenziare individualmente in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo. Dunque è facile prevedere – ma sta già avvenendo – che tenderanno a liberarsi in anticipo di dipendenti così invecchiati da non poter essere abbastanza “produttivi”. E naturalmente questo avviene ed avverrà soprattutto in quelle mansioni più “usuranti”. Il cerchio si chiude. ”Dovete morire prima”, come ha osato dire il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan… ***** Morti in forte aumento e pochi nati: il vero deficit italiano Gian Carlo Blangiardo – L’Avvenire, 13 agosto 2017 Nel primo trimestre 2017 le morti sono aumentate del 15 per cento, i nati sono in ancora in calo (-2,6%) e Il saldo naturale negativo è a livelli record: 346mila unità. Parlare di demografia attorno alla metà del mese d’agosto, quando i ritmi della vita rallentano e si vorrebbe assaporare il piacere del meritato riposo, sembra un accanimento che solo Giovanni Sartori, con le sue vivaci (e francamente spesso discutibili) considerazioni sui temi della popolazione, si poteva permettere. Tuttavia, il recente aggiornamento del bilancio demografico della popolazione italiana, fornito dall’Istat per il primo trimestre del 2017, offre spunti che inducono a travalicare gli scrupoli nel proporre una riflessione impegnativa pur in presenza di un clima agostano e vacanziero. Alla luce dei nuovi dati, ciò su cui conviene innanzitutto soffermarsi non è tanto il prosieguo della tendenza a perdere popolazione – altri 57mila residenti in meno tra il 1° gennaio e il 31 marzo 2017 che si aggiungono agli oltre 200mila persi nel biennio 2015-2016 – quanto le modalità con cui tale risultato è andato concretizzandosi. Ci troviamo infatti in presenza di un quadro statistico che anticipa la prospettiva di un nuovo anno contraddistinto da record negativi su tutti i fronti. Partiamo dalle nascite. La loro frequenza nel primo trimestre del 2017, pari a 112mila unità, è inferiore del 2,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Anno in cui – è bene ricordarlo – si era già registrato il più basso numero di nati dai tempi dell’Unità Nazionale (1862-1916). Se dovessimo estrapolare su base annua il dato parziale di questo inizio 2017 avremmo un bilancio finale di 461mila nascite. Un valore che, stando ai più recenti scenari previsionali diffusi dall’Istat, ben si concilia con una prospettiva di ulteriore estremo regresso sul piano della vitalità demografica del nostro Paese, lasciando intendere un calo di quasi 3 milioni di abitanti nel prossimo ventennio e una discesa del peso relativo della componente più giovane (i residenti in età 0-14 anni) dall’attuale 13,5% al 10,9%. Ma il messaggio più impressionante che ci consegnano le statistiche di questo primo scorcio del 2017 è quello relativo alla frequenza dei decessi. Ne sono stati conteggiati 192mila nel trimestre in oggetto: il 14,9% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Con persino una crescita del 2% rispetto ai primi tre mesi del 2015, un anno che – come è ben noto – si era distinto negativamente per una sorprendente impennata della mortalità (a suo tempo messa tempestivamente in luce proprio sulle colonne di “Avvenire”). Siamo dunque in presenza di un nuovo improvviso peggioramento dei livelli di sopravvivenza della popolazione italiana, e soprattutto della sua componente più anziana e fragile? Attualmente i dati disponibili non consentono ancora adeguati accertamenti sulle cause dei decessi e sulle caratteristiche dei soggetti coinvolti, ma è senz’altro da escludere che un aumento così consistente della frequenza di morti sia unicamente imputabile a cambiamenti quantitativi o strutturali dei residenti. L’invecchiamento della popolazione tra il 1° gennaio 2016 e la stessa data del 2017 potrebbe, infatti, spiegare al più un incremento dei decessi nell’ordine del 3%: non quel quasi 15% di cui si è detto! Per altro va rilevato che se la variazione osservata in questo primo trimestre dovesse valere per l’intero anno ci troveremmo a contabilizzare nel 2017 ben 707mila morti. Occorre risalire al 1944 per trovare un dato simile! Nel complesso, estrapolando su base annua i primi dati trimestrali su natalità e mortalità avremmo un saldo naturale per il 2017 di segno negativo, più morti che nati, per 346mila unità: un valore quasi equivalente alla somma dei due saldi – già negativi e di dimensione preoccupante – che hanno caratterizzato il precedente biennio 2015-2016. Che dire davanti a un tale scenario? Per prima cosa si può sperare che, trattandosi di dati ancora parziali, ci sia strada facendo una qualche correzione di rotta. Tuttavia, affinché un cambiamento sia realisticamente configurabile sarebbe necessaria una strategia condivisa e tempestiva capace di rimettere al centro la famiglia, sia come protagonista delle scelte legate alla genitorialità, sia come rete di supporto ai membri fragili sul piano socio economico e sanitario. Ma quali novità ci sono, se ci sono, su questo fronte? Anche per questo è importante che sia stata confermata la terza Conferenza nazionale sulla famiglia (Roma 28 e 29 settembre 2017) e che essa possa essere, come previsto, l’occasione per discutere una versione aggiornata del ‘Piano nazionale per la famiglia’ e renderne operativi i contenuti. Non dimentichiamo però che mentre la Seconda Conferenza (Milano, 2010) si interrogava – già allora con toni preoccupati – sul futuro demografico di un’Italia caratterizzata da 562mila nascite e da un saldo naturale negativo per ‘sole’ 25mila unità (dati 2010), l’edizione 2017 sembrerebbe capitare in un anno con circa 100mila nati in meno e con un ipotetico squilibrio naturale di quattordici volte più grande. Ce n’è dunque quanto basta per sottolineare l’urgenza che, sul fronte dei risultati, il nuovo Piano Nazionale sappia essere, diversamente dalla sua precedente versione, ben più che un bel ‘libro dei sogni’.

04.11.2017

Albena Azmanova, Barbara Spinelli e 188 intellettuali, accademici e parlamentari europei chiedono il rispetto dello stato di diritto in Spagna e sollecitano una mediazione europea in una lettera aperta al Presidente della Commissione Juncker, al Presidente del Consiglio europeo Tusk e per conoscenza al Primo vice presidente Frans Timmermans Caro presidente Juncker, caro presidente Tusk, siamo accademici, politici, intellettuali, eurodeputati, e ci rivolgiamo a Voi per esprimere le seguenti preoccupazioni: L’Unione ha proclamato che lo stato di diritto e il rispetto dei diritti fondamentali sono vincolanti per gli Stati membri (articoli 2 e 6 del Trattato di Lisbona). La leadership UE è stata il custode di queste norme, da ultimo nel contrastare gli attacchi del governo polacco all’indipendenza dei giudici e le limitazioni delle libertà della società civile e dei media in Ungheria. Tuttavia, siamo profondamente preoccupati dal modo in cui le istituzioni UE stanno condonando la violazione dello stato di diritto in Spagna, in particolare per quanto riguarda l’atteggiamento delle autorità spagnole verso il referendum del 1 ottobre sull’indipendenza catalana. Non prendiamo posizione sulla sostanza della disputa concernente la sovranità territoriale, e siamo coscienti dei difetti procedurali nell’organizzazione del referendum. La nostra preoccupazione centrale riguarda l’applicazione dello stato di diritto in uno Stato membro dell’UE. Il governo spagnolo ha giustificato le proprie azioni invocando la difesa o il ripristino dell’ordine costituzionale. L’Unione ha dichiarato che si tratta di affari interni alla Spagna. In effetti, nelle democrazie liberali le questioni di sovranità nazionale sono interne. Tuttavia, il modo in cui le autorità spagnole hanno trattato la domanda di indipendenza espressa da una parte significativa dei catalani costituisce una violazione dello stato di diritto, e precisamente: 1/ Il Tribunale costituzionale spagnolo ha proibito il referendum sull’indipendenza indetto per il 1 ottobre, così come la sessione del Parlamento catalano programmata per il 9 ottobre, denunciando la violazione dell’articolo 2 della Costituzione che stabilisce l’unità indissolubile della nazione, e rendendo dunque illegale la secessione. Tuttavia, applicando in tal modo l’articolo 2, il Tribunale ha violato precise disposizioni costituzionali sulla libertà di riunione pacifica e di parola – i due principii incarnati dai referendum e dalle deliberazioni parlamentari, indipendentemente dalla materia su cui si esplicano. Senza interferire nelle controversie costituzionali in Spagna o nel suo codice penale, notiamo che applicare una disposizione costituzionale violando i diritti fondamentali è una caricatura della giustizia. Le sentenze del Tribunale, e le azioni governative alle quali queste sentenze hanno fornito una base legale, violano quindi sia lo spirito sia la lettera dello stato di diritto. 2/ Nei giorni che hanno preceduto il referendum le autorità spagnole hanno attuato una serie di azioni repressive contro funzionari pubblici, parlamentari, sindaci, media, società e cittadini. L’oscuramento di Internet e altre reti di comunicazione durante e dopo la campagna referendaria hanno avuto conseguenze gravi sulla libera espressione. 3/ Nel giorno del referendum, la polizia spagnola è ricorsa all'uso eccessivo della forza e della violenza contro votanti e dimostranti pacifici, secondo Human Rights Watch. Si tratta di un incontrovertibile abuso di potere nell'applicazione della legge. 4/ L’arresto e l’incarcerazione il 16 ottobre di Jordi Cuixart e Jordi Sànchez (presidenti rispettivamente dell’Assemblea Nazionale Catalana e di Omnium Cultural) con l’accusa di sedizione è un esempio di mala giustizia. I fatti all’origine dell’incriminazione vanno qualificati non come sedizione, ma come libero esercizio del diritto di manifestazione pacifica, sancito nell’articolo 21 della Costituzione spagnola. Il governo spagnolo, nello sforzo di salvaguardare la sovranità dello Stato e l’indivisibilità della nazione, ha violato diritti e libertà basilari, garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dagli articoli 2 e 6 del Trattato di Lisbona. In nessun Paese membro la violazione dei diritti e delle libertà tutelati dalla legge internazionale ed europea può essere un affare interno. Il silenzio dell’UE e il suo rifiuto di mediazioni inventive è ingiustificabile. Le misure del governo spagnolo non possono giustificarsi come azioni volte a proteggere lo stato di diritto, anche se basate su specifiche disposizioni legali. Contrariamente al “governo per mezzo della legge” (rule-by-law), applicata in forza di norme emanate attraverso una corretta procedura legale o emesse da un’autorità pubblica, lo stato di diritto (rule of law) implica la contemporanea salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali – una legge è vincolante non semplicemente perché proceduralmente corretta, ma perché rappresenta al tempo stesso la giustizia. È quest’accezione di stato di diritto a conferire legittimità alle autorità pubbliche nelle democrazie liberali. Chiediamo dunque alla Commissione di esaminare la situazione in Spagna nel quadro dello stato di diritto, come ha fatto per altri Stati membri. La leadership UE ha ribadito che la violenza non può essere uno strumento in politica, eppure ha implicitamente condonato le azioni della polizia spagnola, considerando le azioni del governo di Madrid in linea con lo stato di diritto. Tale versione riduzionista e menomata dello stato di diritto non deve diventare il nuovo senso comune politico in Europa. È pericoloso e rischia di causare danni a lungo termine nell’Unione. Chiediamo perciò al Consiglio europeo e alla Commissione di fare il necessario per restaurare il principio dello stato di diritto quale fondamento della democrazia liberale in Europa, contrastando ogni forma di abuso di potere commesso dagli Stati membri. In assenza di ciò, e di seri sforzi di mediazione, l’UE rischia di perdere la fiducia dei suoi cittadini. Nel frattempo la crisi si è approfondita (il governo catalano in detenzione, un mandato di arresto spiccato nei confronti di Puigdemont). Seguiamo da vicino la situazione, avendo in mente gli inseparabili interessi della democrazia in Catalogna, in Spagna, in Europa, e insistiamo più che mai sull'importanza che l’UE eserciti vigilanza, affinché le libertà fondamentali siano rispettate da tutte le parti. Seguono 185 Co-firmatari (a titolo personale).

Marco Bascetta da il Manifesto 04.11.2017  Madrid sta giocando alla guerra civile. Si comporta incredibilmente come se avesse avuto luogo un’insurrezione armata. Barcellona, invece, mantiene la calma e non valica il limite della protesta pacifica e del discorso democratico. Ciò che accade in Spagna è assolutamente inaudito. La destra spagnola sta sfruttando la crisi catalana per spostare in senso autoritario e repressivo gli equilibri politici del paese. Un governo democraticamente eletto viene incarcerato in blocco in seguito a una iniziativa politica rimasta, in buona sostanza, sul piano simbolico-comunicativo e già neutralizzata dall’esautorazione delle istituzioni catalane. Nessuna violenza, discriminazione o negazione di qualsivoglia diritto può essere imputata agli indipendentisti catalani, organizzati del resto in associazioni e partiti legalmente riconosciuti, per motivarne la criminalizzazione. L’arresto dei ministri rimasti in Spagna e l’incriminazione di quelli riparati all’estero rappresentano a tutti gli effetti una persecuzione politica e una indegna manifestazione di vendetta. Il trucco della «legalità» che si sostituisce politicamente alla politica ha condotto a tutto questo, mettendo nelle mani di una magistratura notoriamente orientata a destra e forte di una Costituzione scesa a patti con l’eredità del fascismo, il futuro della convivenza civile in Catalogna e, probabilmente, anche in altre regioni di Spagna. Quale clima possa instaurarsi in un paese nel quale la rappresentanza della metà dei cittadini è dichiarata criminale e trattata di conseguenza è facile immaginare. Fino ad ora non ci sono che da ammirare i nervi saldi dei catalani, trascinati in una guerra intestina immaginaria da una politica che, nascosta dietro la magistratura, ha sistematicamente boicottato qualsiasi possibilità di dialogo. Giunto all'ultimo atto Puigdemont aveva di fatto ceduto accettando di congelare la dichiarazione d’indipendenza e di indire elezioni anticipate. Chiedeva in cambio la salvaguardia dell’autonomia catalana e la rinuncia a misure repressive nei confronti degli indipendentisti. Ma proprio questi erano, fin dall’inizio, gli obiettivi del governo di Madrid, guidato da una forza politica, il Partito popolare, da sempre impegnato nell'impedire ogni approfondimento delle autonomie per non parlare dell’evoluzione della Spagna in senso federalista. Ha dunque dell’incredibile l’appoggio offerto dal Partito socialista spagnolo alla crociata di Mariano Rajoy in cambio di una chimerica riforma federale. I socialisti spagnoli hanno di fatto indegnamente votato i crediti di guerra contro la Catalogna la cui distanza dal resto della Spagna è stata sancita assai più dalla linea di condotta del governo di Madrid che non dal referendum del primo di ottobre. Fino ad oggi le aspirazioni indipendentiste catalane avevano ragioni assai discutibili, per non dire errate. Ma come atteggiarsi nel momento in cui dovessero assumere natura difensiva nei confronti di un nazionalismo unionista dal volto repressivo e violento? L’Unione europea di quest’ultimo si è mostrata finora complice, a conferma di quanto sovranismo nazionale scorra nelle sue vene. Il feticcio della «legalità» non servirà certo a fare i conti con quelle speciose «interpretazioni» della democrazia che da Budapest a Varsavia, oggi a Madrid e domani a Vienna, avvelenano e avveleneranno il Vecchio continente. L’affermarsi di politiche discriminatorie, l’applicazione arbitrariamente distorta di articoli di legge previsti per fronteggiare un rovesciamento violento dell’ordine istituzionale, mai avvenuto, costituiscono un problema che oltrepassa i confini della Catalogna e della stessa Spagna. Il causidico opportunismo di Bruxelles rappresenta l’ennesimo interessato fallimento dell’Unione europea. Si può dissentire radicalmente dalle scelte di Puigdemont e dei suoi ministri, ma sul fatto che costoro siano oggi dei perseguitati politici non c’è discussione. L’Europa dovrebbe rendersi rapidamente conto delle catastrofiche conseguenze del gioco condotto dal governo di Madrid.

il 31 ott 2017
Paolo Ciofi


Il lettino dello psichiatra, suggerito da Eugenio Scalfari, non basta per portare allo scoperto le ferite inferte da Matteo Renzi alla sinistra e alla democrazia. Con l’uomo di Rignano il Pd ha compiuto la sua parabola ed è diventato il partito di un uomo solo al comando: un altro partito padronale schierato sfacciatamente sul fronte del capitale, che usando l’etichetta del socialismo tenta di coprire con la demagogia una politica di destra. Dannosa soprattutto per tutti coloro, uomini e donne, i quali per vivere devono lavorare, ma anche per l’intero Paese.

È una realtà che la comunicazione dominante edulcora o nasconde. D’altra parte, scissa dal sociale, la politica è stata pressoché privatizzata, con il risultato che il mondo del lavoro e i ceti subalterni si sono ritrovati senza un partito che li rappresentasse e li organizzasse. Rigettati nel recinto della prepolitica, oggi vivono in uno stato di sofferenza, di precarietà e di paura, che opportunamente eccitato finirà per favorire Berlusconi e le destre più estreme. Se non si prende atto di questo stato delle cose, a sinistra non si farà alcun reale passo avanti.

Dopo la clamorosa sconfitta nel referendum costituzionale subita dal segretario del Pd, dovrebbe essere chiaro che serve una svolta radicale di prospettiva e di contenuti, facendo piazza pulita del tatticismo elettoralistico. Per costruire la sinistra che non c’è sono necessarie almeno due condizioni. In primo luogo, un progetto di nuova società, che alimenti la speranza di un effettivo cambiamento. E al riguardo noi abbiamo con la Costituzione una bussola preziosa che illumina il cammino, se si bandisce ogni forma di sottovalutazione diffusa anche a sinistra. In secondo luogo, un programma concreto che su tale base affronti le questioni più urgenti e drammatiche del nostro tempo, muovendo dalla condizione di disagio e di sfruttamento in cui milioni di persone, donne e uomini, giovani e anziani, sono costretti a vivere.

Proprio sul programma credo sia necessario concentrarsi in questo momento, spostando l’attenzione dall’inutile e stucchevole chiacchiericcio sui leader o presunti tali, sui personalismi, tatticismi e politicismi, che sono il contrario della politica intesa come impegno e lotta di massa per cambiare la società. Prima i contenuti, poi gli schieramenti: questa dovrebbe essere la regola per dare vita a una lista unitaria come primo passo per la costruzione di una sinistra nuova.

Prioritario in proposito è il tema del lavoro, fattore imprescindibile per assicurare agli esseri umani una vita dignitosa, sul quale la Costituzione del 1948 fonda l’intero edificio della Repubblica democratica ridefinendo i principi di libertà e uguaglianza. E ponendo il problema di un ordinamento sociale diverso da quello dominato dal capitale, in cui l’economia sia posta al servizio degli esseri umani e non viceversa. Se, come recita l’articolo 4, «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», affermando con ciò l’obiettivo della piena occupazione, allora, di fronte al degrado dei lavoratori retrocessi allo stato di pura merce e alle politiche di “flessibilità” condotte in Italia e promosse dall’Europa, forte si deve alzare la protesta diffondendo la consapevolezza che tutto ciò è anticostituzionale. Fuori dal patto che ci lega come italiani, cittadini della Repubblica democratica.

Ma in pari tempo è urgente definire un piano per il lavoro che metta in sicurezza il Paese dal punto di vista umano e ambientale, da porre a fondamento del programma su cui imbastire la lista unitaria della sinistra. Non si può rinunciare all’obiettivo della piena occupazione, né a un’occupazione stabile e sicura con una«retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» di pari entità tra uomini e donne, e comunque sufficiente ad assicurare un’esistenza «libera e dignitosa», secondo il principio che «la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni» (artt. 35, 36, 37). Un obiettivo che va posto con chiarezza su un duplice versante.

Da un lato, di fronte alle drammatiche emergenze con le quali siamo costretti a misurarci ogni giorno, finalizzando l’occupazione a un piano rivolto alla tutela del territorio, al riassetto idrogeologico della penisola, al rinnovamento e alla manutenzione degli edifici scolastici e di tutte le infrastrutture indispensabili al buon vivere della società, puntando sul risparmio energetico e sulla riduzione delle emissioni inquinanti. Dall’altro, promuovendo decisamente la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica, ciò che comporta una riduzione progressiva dei tempi di lavoro per tutti e per tutte, e una qualificazione culturale sempre più elevata degli addetti al ciclo della produzione materiale e immateriale. Quindi, la disponibilità per tutti e per tutte dei saperi, nonché dei mezzi di produzione e di comunicazione, come la Costituzione prevede (art. 42 e 43).

All’obiezione secondo cui, di fronte alla dimensione europea e ai problemi dell’Europa, la Costituzione non incide e non ha rilievo, faccio notare che oggi in tutto il Vecchio Continente come in Italia una domanda non si può più evitare: da che parte stai? Se vuoi stare dalla parte del lavoro e non del capitale, allora la nostra Carta fondamentale è un punto di riferimento ineludibile. E noi italiani dovremmo impugnarla come una tavola di valori da portare in Europa per aprire le porte a una civiltà più avanzata.

Non solo perché è sempre più urgente costruire l’unità dei lavoratori di tutto il continente intorno a obiettivi comuni, come un salario unico europeo e uno standard europeo di welfare. Pena un’ulteriore disgregazione e la moltiplicazione delle guerre tra poveri dagli esiti imprevedibili. Ma anche perché la presenza in Costituzione di principi universali come la pace, l’uguaglianza sostanziale, i diritti sociali va nella direzione di un’altra Europa: non l’Europa delle oligarchie finanziarie, bensì quella dei popoli e dei lavoratori.

30.10.2017 Salvatore Allocca Alla notizia che l’attesa di vita è aumentata di circa 5 mesi, Tito Boeri ha festeggiato ribadendo la necessità di allungare ulteriormente l’età anagrafica di pensionamento portandola a 67 anni. In realtà dietro tale conteggio c’è una “truffa colossale” ai danni delle classi economicamente più deboli. Infatti il dato pubblicizzato si riferisce ad una “media” che non restituisce la concreta realtà della nostra società così come è divisa in classi e non solo per il fattore reddito, ma anche sotto il profilo della salute e quindi della attesa di vita. Insomma in Italia, come nel resto del mondo capitalistico, nemmeno la morte costituisce la “livella” che supera steccati di censo, di ruolo sociale e di vita lavorativa. È insomma un po’ come sul Titanic dove la media dei passeggeri annegati era complessivamente del 52% ma la differenza tra la I e la III classe era di oltre 25 punti. ( per la precisione annegarono il 68% dei passeggeri di III classe ed il 40%di quelli di I). Allo stesso modo con il calcolo della attesa di vita che ha fatto brindare Boeri, ci viene restituita la realtà come se fosse pressoché uguale per tutti mentre presenta differenze sostanziali tra un classe e l’altra. In realtà l’ISTAT non studia l’attesa di vita per condizione lavorativa e reddito, come sarebbe opportuno ai fini di una valutazione del sistema pensionistico, ma esclusivamente in riferimento al livello di istruzione che comunque, anche se non direttamente, rappresenta una “differenza di classe”. Allora sarà bene sapere che tra l’attesa di vita residua all’età di 65 anni (vecchio limite di pensione) c’è una sostanziale differenza tra un laureato ed un bracciante con la licenza elementare. Insomma un laureato che ha tagliato il traguardo dei 65 si aspetta di vivere altri 20 anni tondi tondi, mentre chi ha la sola licenza elementare morirà “statisticamente” 2 anni e 4 mesi prima. Non ostante ciò vanno tutti e due in pensione alla stessa età per far quadrare i conti dell’INPS, ma non certo quelli della giustizia sociale. Se poi si ricorre ai dati del 2000, riferiti direttamente alla attività lavorativa, gli anni di differenza tra un operaio generico ed un professionista salgono a 4 anni e 6 mesi e ciò che più ci fa rizzare i capelli in testa è che nell'universo femminile, che ha subito sul terreno pensionistico l’attacco più pesante, i livelli di retribuzione più bassa hanno subito un peggioramento della attesa di vita in valori assoluti e che quindi per loro, mentre l’attesa di vita si accorcia l’attesa della pensione si allunga. Ma ovviamente per il concetto di giustizia di Boeri vanno tutti in pensione alla stessa età. E Boeri continua a ritenersi soddisfatto aggiungendo un’ultima perla ai suoi ragionamenti affermando che tutto sommato, in Italia, la durata della vita lavorativa non è più lunga che negli altri paesi visto che si comincia a lavorare più tardi e che se si va in pensione troppo presto le pensioni risulterebbero troppo basse. Non sfiora neppure il cervello di questo grande manager pubblico che questo sarebbe un motivo in più per far lavorare meno gli anziani e prima i giovani?

Massimo Serafini, Marina Turi

da Il Manifesto

29.10.2017

Catalogna. La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. L’esile speranza di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni

 

A seguito della dichiarazione della Repubblica Catalana il consiglio comunale di Girona si è riunito e ha dichiarato il re Felipe VI persona non grata. Mentre il consiglio generale della Valle di Arán – diecimila abitanti che parlano occitano – si riunirà lunedì per decidere l’indipendenza dall’indipendenza, perché la maggioranza della valle vuole rimanere in Spagna. Intanto Pablo Iglesias affida a tre tweet le sue considerazioni sulle dichiarazioni di Rajoy e la convocazione delle elezioni in Catalogna: 1) si deve garantire che il processo elettorale si svolga senza repressione e con il coinvolgimento di tutte le opzioni politiche presenti. 2) continueremo a difendere l’idea che la Catalogna resti in Spagna per contribuire ad un progetto di paese plurinazionale, solidale e fraterno. 3) continueremo a difendere il dialogo e la proposta di un referendum legale e concordato come migliore soluzione alla crisi catalana. L’indipendenza è il bene. Insomma nulla di nuovo. Anche la sindaca Ada Colau non si stanca di ripetere che è un errore rinunciare a quell’80% a favore di un referendum concordato, per un 48% a favore dell’indipendenza. E dichiara di stare dalla parte di chi costruisce nuovi scenari di autogoverno che diano più democrazia, non meno. Ripete che lei lavora per una femminilizzazione della politica che vuole l’empatia come pratica per costruire consensi in cui le diversità siano un valore aggiunto. In dissonanza con le scelte prese da due minoranze che precipitano la Spagna al bordo di un abisso, proprio spaccando la convivenza tra le diversità. L’avventura secessionista catalana per ora è un grande regalo a Rajoy, capo del partito politico più corrotto dell’Ue, ma che invoca sempre il rispetto della legge. E che la farà rispettare a qualsiasi costo, ripristinando il suo ordine e la sua legalità. E che nessuno si illuda, l’applicazione del 155 non si fermerà alla Catalogna, ma si estenderà ad altre autonomie, come già invocano dal Pp per le regioni di Euskadi, Navarra e Castilla-La Mancha. Per riformare sì la costituzione del ’78, ma secondo il disegno che hanno in testa il Partito Popolare e le destre. Che potrebbe essere quello di incorporare e attuare anche l’articolo 116 che parla di poteri eccezionali e il coinvolgimento dei militari per garantire l’ordine costituzionale. Un aiuto agli indipendentisti l’ha dato il Psoe. Poteva, appoggiando la piattaforma di Zaragoza, dare un corso diverso alle cose e sfiduciare il Pp e le destre, dando forza all’idea della Spagna plurinazionale attraverso un referendum concordato. Invece no, ma anche peggio. Perché nella stessa seduta del congresso che, tra applausi e grida di giubilo, ha deciso di avviare l’applicazione del 155, è stata votata – con l’astensione dei socialisti, come da accordi – l’approvazione del trattato Ceta, l’accordo commerciale liberista tra la Ue e il Canada. E se la ride Rajoy ora che la notizia dell’anno, l’implicazione del suo Pp nella più grande opera di corruzione europea, è stata eclissata dalla Repubblica Catalana e volutamente dimenticata dai principali mezzi di comunicazione. La minaccia indipendentista è diventata il nemico perfetto di cui aveva bisogno il governo per continuare indisturbato il massacro sociale e ambientale e le sue politiche di corruzione. Politiche a favore delle loro vere patrie, quelle off-shore ed esentasse. È indispensabile una nuova ondata di indignazione che non lasci le strade delle città a chi verrà mobilitato in difesa della Dui, cavalcando l’odio sociale contro i Borboni, o da chi lo farà in difesa della unità di Spagna, su cui non può che crescere la peggiore destra fascista. L’esile speranza che ancora c’è di fermare questa corsa verso il precipizio è legata alla capacità di variare gli obiettivi e l’orientamento delle mobilitazioni. O se ne conquista l’egemonia, togliendola alle forze indipendentiste da un lato e alle destre dall’altro, o la sconfitta sarà inevitabile. Spazio per riuscirci c’è. Si è visto nello sciopero generale, autoconvocato da una rete di organizzazioni sociali, sindacati, imprenditori e collettivi di base, per manifestare contro la repressione del referendum. C’è spazio per una mobilitazione per una Catalogna sovrana che si riconnetta con la Spagna del 15M che ha sempre gridato per la democrazia a Madrid, per cacciare gli autoritari e i corrotti dal palazzo della Moncloa. Una opportunità per lottare contro la finanza illegale, l’applicazione selvaggia dell’articolo 155, contro i lacchè di banche europee che hanno distrutto la sanità e l’istruzione spingendo la Catalogna in una avventura senza legittimità democratica. Questa è la sfida per Unidos-Podemos e la sua rete di alleanze e per Sí que es pot, il partito di Ada Colau. Così le elezioni catalane potrebbero essere un boomerang per chi le ha imposte.

Jacopo Rosatelli d

a Il Manifesto

28.10.2017

 

Intervista ad Andrea Greppi . «Ma dietro la tensione di questi giorni ci sono anche la riforma che ha attribuito alla Corte costituzionale il potere di sanzionare la mancata applicazione delle proprie sentenze e alcuni articoli del codice penale dai tratti autoritari», spiega il docente di filosofia del diritto all’Università Carlos III di Madrid

 

«Si era entrati in un gioco che non prevedeva potersi tirare indietro: nessuno dei due attori principali poteva prendere una decisione diversa senza deludere il proprio ‘pubblico’». Per Andrea Greppi, docente italo-spagnolo di filosofia del diritto all’Università Carlos III di Madrid, ospite a Torino dell’annuale seminario della Scuola di buona politica, gli avvenimenti di ieri erano già scritti. Professore, lo scontro fra Madrid e Barcellona è dunque l’unica prospettiva? Quel che accade è condizionato da rendite di breve termine: sia al governo del Pp che agli indipendentisti interessa l’escalation della tensione. Dal punto di vista centralista, la fine dell’Eta aveva fatto venir meno la figura del nemico interno, che per l’identità politica spagnolista era il punto di aggregazione più evidente: oggi ce n’è uno nuovo. Sul versante opposto, il sistema di potere autonomista del nazionalismo catalano era ormai pesantemente compromesso dall’emersione di una corruzione enorme: la risposta non è stata un ripiegamento del nazionalismo, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma un innalzamento della posta verso l’indipendenza. Era possibile un esito diverso dal muro contro muro? Purtroppo pesa la chiusura ideologica del Pp nei confronti dell’unica soluzione possibile per la Spagna di oggi: un assetto federale. L’assenza di dialogo con le istanze che vengono dalla Catalogna è il risultato di una mancata pedagogia politica che rendesse l’opzione federale accettabile dalla grande maggioranza degli spagnoli. E oggi purtroppo la prospettiva federale è improponibile. Perché? L’opinione pubblica spagnola non è preparata ad accettare davvero una discussione sull’articolo 2 della Costituzione, quello che afferma «l’indissolubile unità della Nazione spagnola». Ma tutto passa da lì: finché si pensa che questo articolo sia incompatibile con un assetto federale del Paese non c’è uscita dalla crisi attuale. Ci sono però anche molte voci federaliste a livello statale: il Psoe e Podemos, ad esempio. Podemos ha una posizione confusa sulla crisi catalana, e i socialisti sono in realtà molto divisi al proprio interno: c’è anche chi si oppone in modo feroce al federalismo, in particolare un elettorato tradizionale e più anziano. Il Psoe è in trappola: dovrebbe fare la scommessa del federalismo, ma sa di non poterla fare davvero. Ora siamo all'applicazione dell’articolo 155, appoggiato anche dal Psoe: cosa implicherà? Bisogna dire chiaramente che è un articolo fatto male, troppo generico, non stabilisce limiti, giurisdizioni e garanzie intorno a questo intervento del governo centrale sulle comunità autonome. Ma il problema non è solo quella norma: dietro la tensione di questi giorni ci sono anche la riforma che ha attribuito alla Corte costituzionale il potere di sanzionare la mancata applicazione delle proprie sentenze, e alcuni articoli del codice penale che hanno dei tratti autoritari, come quelli che stabiliscono i delitti di ribellione e sedizione con pene spropositate. La minaccia di quindici anni di prigione per attività che sono in gran parte protette dal diritto alla libertà di espressione è molto grave. Ha citato la Corte costituzionale: è un’istituzione che ha un ruolo notevole in tutta la vicenda. Sì, a cominciare dalla sentenza sullo Statuto catalano del 2010. In quella circostanza avrebbe potuto decidere diversamente, in modo più lungimirante, invece fece prevalere una visione molto restrittiva del concetto di nazione. E poi va detto che la Corte stessa soffre da tempo di un problema di scarsa indipendenza reale dal potere politico, e quindi un problema di legittimazione. Il rischio maggiore ora qual è? Escludo scenari di tipo «balcanico», anche perché non tutti gli indipendentisti sono nazionalisti. Ci sono ovviamente pulsioni localiste e di chiusura identitaria, ma c’è anche chi sostiene il separatismo solo perché non crede più che lo stato centrale sia qualcosa di utile. È una spinta verso il governo di prossimità che va oltre il caso spagnolo, perché dipende dalla crisi degli stati, che nella globalizzazione hanno perso il potere di decidere sull'economia e sulla vita delle persone. Riguarda tutte le società benestanti, la Catalogna come il Veneto. La dichiarazione di indipendenza votata a Barcellona non avrà nessun effetto giuridico, ma la partita è appena cominciata ed è destinata a varcare i confini della penisola iberica.

Eleonora Martini d

a il Manifesto

27.10.2017

Strasburgo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ordina risarcimenti per oltre 4 milioni di euro. È la prima sentenza che riconosce il reato commesso in una "regolare" prigione italiana

 

Due condanne in un solo giorno provenienti da Strasburgo confermano ancora una volta l’uso della tortura nelle carceri italiane, reato per il quale lo Stato non ha mai chiesto scusa alle vittime e non ha mai punito i responsabili (ma non li ha neppure sospesi durante l’inchiesta e il processo, come sottolinea la Corte europea dei diritti dell’uomo). Sono 63 in totale le persone che, da recluse, hanno subito violenze fisiche e psicologiche da parte di autorità di polizia: due durante la detenzione nel carcere di Asti nel 2014, quando vennero sottoposte a maltrattamenti di vario tipo da parte di cinque agenti penitenziari, e 61 a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001, durante i giorni del G8 di Genova. A tutti loro la Cedu ha riconosciuto ieri un indennizzo che va dai 10 mila agli 88 mila euro a testa (a seconda delle gravità delle violenze subite e della «conciliazione amichevole» eventualmente già pattuita con il governo italiano), condannando così Roma al pagamento complessivo di 4 milioni e 10 mila euro per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani.

 

«A GIUDIZIO DELLA CORTE, i giudici nazionali hanno fatto un vero e proprio sforzo per stabilire i fatti e individuare i responsabili», scrive la Cedu, ma a causa della lacuna normativa di allora i torturatori sono rimasti impuniti. Il problema, sul quale i giudici di Strasburgo ovviamente non si soffermano ma che viene sottolineato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, è che il reato di tortura rischia di rimanere impunito in alcuni casi anche in futuro, perché la legge entrata in vigore il 18 luglio scorso che introduce finalmente quella fattispecie di reato nell'ordinamento italiano è volutamente contorta e difficilmente applicabile. Anche se il ministro Orlando un paio di giorni fa si è detto convinto che la nuova legge abbia recepito le direttive della Cedu contenute nella sentenza Cestaro del 2015 e ha spiegato che comunque il testo ha bisogno di essere applicato per verificare eventuali «elementi di fragilità normativa», caso in cui, ha detto, «non escludiamo una riflessione».

 

DOPO LA CONDANNA del giugno scorso per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz, i giudici di Strasburgo riconoscono ad altre 61 persone, alcune delle quali arrestate proprio durante quell'irruzione, il diritto ad essere risarcite per le violenze subite «dagli ufficiali di polizia e dal personale medico» a Bolzaneto, una delle due caserme, insieme a Forte San Giuliano, adibite a centri temporanei di detenzione dei manifestanti “rastrellati”. Per due giorni, le vittime vennero «aggredite, picchiate, spruzzate con gas irritanti, subirono la distruzione degli effetti personali e altri maltrattamenti – ricorda la Corte – Mai avrebbero ricevuto adeguate cure per le ferite riportate, e la violenza sarebbe continuata anche durante le visite mediche», oltre a non aver potuto contattare familiari, avvocati e consolati. Per questi fatti «la procura di Genova indagò 145 tra poliziotti e medici, di cui 15 vennero poi condannati a pene tra i 9 mesi e i 5 anni di reclusione». Ricorda la Corte che successivamente «dieci di loro hanno beneficiato di una grazia, tre di una completa remissione della pena detentiva e due di una remissione di 3 anni; quasi tutti i delitti sono stati prescritti». Undici dei ricorrenti davanti alla Cedu hanno già accettato di ricevere dal governo italiano 45 mila euro per una «conciliazione amichevole» e perciò hanno diritto ad un risarcimento minore. Ma a nessuna delle tante vittime dei torturatori di Genova, sottolinea Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum del 2001, «a 16 anni dai fatti, dopo varie condanne italiane e internazionali, non è ancora arrivata alcuna parola di scusa a nome dello Stato da parte dei suoi massimi rappresentanti, primi tra tutti il presidente della Repubblica. Una vergogna nella vergogna».

 

FORSE PERFINO più importante e incisiva è la seconda sentenza emessa ieri dalla Cedu, perché è la prima volta che viene riconosciuta la tortura in un “regolare” carcere italiano e l’Italia viene condannata sia per il delitto in sé «(aspetto sostanziale») che per quanto riguarda la risposta delle autorità nazionali (aspetto procedurale)». In questo caso, il governo dovrà risarcire con 88 mila euro ciascuno, due detenuti del carcere di Asti o i loro familiari (i torinesi Andrea Cirino e Claudio Renne, quest’ultimo morto in una cella a Torino nel gennaio scorso), per le torture subite nel dicembre 2014 da cinque poliziotti penitenziari, tutti assolti dal tribunale di Asti per mancanza di reato specifico. E perché «malgrado le sanzioni disciplinari imposte», ritenute dalla Cedu, «non sufficienti», gli agenti «non sono stati sospesi durante l’inchiesta o il processo». Due sentenze che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma, considera «un campanello d’allarme che richiede importanti e urgenti azioni da parte dell’Italia».

Massimo Franchi

da il Maifesto

25.10.2017

Previdenza. L’Istat certifica i 5 mesi di innalzamento dell’aspettativa di vita. Tutti i partiti contrari. Si muove il fronte bipartisan in Parlamento. Camusso: follia

 

L’Istat a fare da ragioniere, il governo ad adeguarsi senza ascoltare il grido di protesta dei sindacati e del fronte parlamentare bipartisan. Dal primo gennaio 2019 l’età pensionabile salirà per tutti di ben 5 mesi. Raggiungendo i 67 anni per la pensione di vecchiaia per i lavoratori dipendenti a prescindere dal sesso, mentre per le pensioni anticipate (ex-anzianità) si arriva a 43 anni e tre mesi di contributi per gli uomini e 42 anni e tre mesi per le donne.

COME ERA SCONTATO ieri è arrivato il verdetto dell’istituto nazionale di statistica: nel suo annuale studio «Indicatori di mortalità della popolazione residente» per il 2016 è contenuto il computo utilizzato per le pensioni – l’aspettativa di vita a 65 anni che arriva a 20,7 anni per il totale dei residenti, allungandosi di cinque mesi rispetto a quella registrata nel 2013 – come da legge del 2009 – ancoraggio dell’età di accesso alla pensione all'aspettativa di vita – ritoccata – in peggio – dalla riforma Fornero che ha stabilito che – a prescindere dall'aspettativa di vita – dal primo gennaio 2021 la soglia dei 67 anni.

 

IL TUTTO SENZA TENER CONTO dell’opinione di insigni demografi come Gian Carlo Blangiardo (Milano Bicocca) che da agosto sostiene che nel 2017 l’aspettativa di vita calerà di molto visto il boom dei decessi (+ 14,6 per cento nel primo trimestre rispetto al 2016) e il calo delle nascite (2,6 per cento). Ma la legge è inflessibile e ingiusta: l’adeguamento vale solo al rialzo, se cala la speranza di vita non calerà l’età pensionabile.

 

DUNQUE SI ARRIVERÀ A 67 ANNI con due anni di anticipo rispetto alla Fornero. E la scelta sarà certificata dalla nota congiunta dei direttori dei ministeri di Economia e Lavoro che verrà redatta entro la fine dell’anno. Rafforzando a livelli record il già poco invidiabile primato dell’Italia in Europa: l’età pensionabile più alta del continente, specie per le donne. UN’ESCALATION che negli ultimi anni ha tratti vergognosi: l’età pensionabile per le donne dal 2010 ad oggi è aumentata di ben 7 anni, in pratica un anno in più ogni anno che passava. Con diseguaglianze grottesche: la classe delle donne del 1953 ha tra le sue fila le dipendenti pubbliche assunte appena dopo il diploma che sono in pensione «baby» dal 1988 – con 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi – a soli 35 anni e chi invece ora dovrà attendere di compiere i 67 anni di età e dunque andrà in pensione nel 2020: una differenza di ben 32 anni di età.

 

IL PARADOSSO DELLA SITUAZIONE è presto detto: non esiste una forza politica che ieri si è detta favorevole all’aumento, ma a meno di colpi di scena l’aumento ci sarà. Il governo infatti non ha mosso un dito e anche ieri ha lasciato alle forze politiche l’onere del cambiamento.

 

A CAPEGGIARE LA RICHIESTA di congelamento c’è il presidente delle commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano che fin da luglio ha lanciato il tema assieme al suo pari ruolo del Senato Maurizio Sacconi – convertito recentemente a difensore dei diritti dei pensionati dopo essere stato autore di molti scalini. «Faremo una battaglia politica per convincere il governo che Si puo’ rimandare il decreto che fissa a 67 anni l’età di pensione a giugno 2018, del resto l’adeguamento scatterebbe dal 2019. O – suggerisce sempre Damiano – si può dare corso a quanto scritto nel verbale con i sindacati del 2016, bloccando l’aspettava di vita anche per i lavoratori che accedono all'Ape sociale». Il problema è come sempre di risorse: congelare i 5 mesi di innalzamento costa fra 1,2 e 1,5 miliardi e Padoan non vuole metterci un euro.

 

CGIL, CISL E UIL INSISTONO per una sospensione del meccanismo di adeguamento automatico tra aspettativa di vita ed età di uscita. Un modo, sostengono, per avere il tempo di rimettere mano alla materia. I confederali puntano a uno sconto di qualche mese o a tarare l’aumento sulla «gravosità dei lavori» – escludendo così dagli incrementi maestre d’asilo, operai edili, macchinisti. Le parole più dure le usa la leader della Cgil. Susanna Camusso va all'attacco, bollando il rialzo dell’età come una «follia» e lamentando che l’esecutivo «aveva assunto l’impegno a discuterne». La risposta del ministro del Lavoro Giuliano Poletti è furbesca: «I tempi per il Parlamento o per le forze politiche che vogliono intervenire ci sono». Ma se il governo non si impegnerà, i 67 anni rimarranno. <>

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