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Maria Pia Pizzolante
da il Manifesto
13.09.2017


Il bilancio di un’estate calda e violenta, soprattutto con le donne, non può non interrogarci su colei che è diventata il simbolo e dunque il bersaglio prediletto degli hater nostrani e maschilisti: Laura Boldrini.

Diventata presidente della Camera nel 2013 dopo una carriera a contatto con gli ultimi del pianeta, Boldrini caratterizza il suo mandato con una battaglia importante contro bufale e diffusione di linguaggio dell’odio attraverso i social network, senza mai riuscire a scrollarsi di dosso quello che i detrattori considerano il buonismo degli «amici dei migranti», in pratica quelli che conservano il valore dell’umanità.

Durante questa estate, Laura Boldrini è stata oggetto di una nuova campagna di odio che vedeva sullo stesso fronte giornali di destra, rappresentanti locali di formazioni politiche come la Lega, grillini particolarmente attivi sui social e più in generale hater di ogni risma.

Il livello dello scontro sembra crescere ad ogni tornata, questa volta persino lo stupro è diventato uno strumento sdoganato di punizione, esattamente come la locandina fascista che riemerge dal Ventennio per ricordarci che l’uomo nero e indemoniato è lì pronto e assetato per violentare le donne proprietà dell’uomo bianco.

Laura Boldrini nonostante tutto questo non fa un passo indietro, continua quasi in solitaria la sacrosanta battaglia di civiltà in difesa di valori che sembrano fuori moda o addirittura piccole bandiere sbiadite di una sinistra sempre più debole e confusa. A detta di alcuni un modo per non parlare delle questioni sociali ed economiche su cui è meno netta la distinzione con l’avversario di destra.

Da femminista più che da donna, confesso di aver sentito tanto, troppo silenzio, dal mondo vasto della politica e in modo particolare dalle voci di donna autorevoli che il femminismo ha espresso. Mi sono interrogata su questo silenzio e del perché Laura non fosse quell’una di noi a cui tendere più di una mano, far sentire più di un abbraccio, preservarla per lo svelamento del nesso sessismo/razzismo esploso su di lei, sulla terza Presidente della Camera donna in settant’anni.

Laura è austera? Troppo poco plebeista? È troppo poco femminista o lo è troppo? È andata troppo in giro per il mondo, tanto da conoscere guerre, fame, occhi di bambini troppo spenti? Oppure è troppo impegnata politicamente e questo dà fastidio a tutti quelli che si considerano suoi avversari? O peggio è troppo autonoma dal punto di vista professionale ma anche esistenziale e relazionale?

«Laura Boldrini, piaccia o no, è una donna laica, femminista, gay friendly, tollerante, internazionalista, multilateralista, democratica, libera», scrive Della Vedova, in un pezzo su Il Foglio, in cui chiede di depurare da odio e fake news per poter tornare ad avversarla nelle scelte politiche.

Per chi invece in quegli aggettivi ritrova la propria identità e la propria storia non è forse il momento di darle una mano nella battaglia contro «webeti» e avversari codardi?

Il silenzio di questa estate più allarmante per me è stato questo. Il silenzio del mondo che sento più vicino a me, a noi, a Boldrini. E in generale, trasversalmente, la politica tutta sembra non rendersi conto dello scivolamento nel basso, quello dei bassi istinti, quello dell’odio che genera odio, dell’invidia sociale nemica della giustizia sociale.

E invece noi, femministe storiche o meno, donne di sinistra, autorevoli compagne, dobbiamo essere lì, a difendere Laura per quello che rappresenta, per come ha svolto in questi anni il suo ruolo. Essere lì, nei posti scomodi, nei posti che contano, per provare a metterci di traverso con i nostri corpi.

Non è forse questo ciò che volevamo?

Laura ha messo in mezzo il suo, ha svelato l’inganno: la discriminazione ha la stessa radice, oggi tocca a loro, domani tocca a noi, ieri erano i terroni, oggi sono i migranti, ieri c’era il delitto d’onore, oggi ci sono gli stupri «presunti», le «consenzienti», il «dopo la penetrazione piace a tutte». Perché c’è qualcuno che si sente superiore, che pensa di dover possedere, perché sa che mostrare i muscoli è il modo migliore per coprire la vacuità del cervello.

Laura per fortuna oggi è lì e noi non dobbiamo lasciarla sola. Per lei, ma soprattutto per quelle che verranno dopo, di qualunque schieramento facciano parte.

Eleonora Martini
da il Manifesto
12.09.2017


Verità e Giustizia. L’avvocato Ibrahim Metwally Hegazy era atteso oggi a Ginevra alle Nazioni unite. Era inviato dell’Ecrf per parlare delle sparizioni forzate e dell’omicidio del ricercatore italiano. Amnesty: «Attacco alle Ong»

Dell’avvocato Ibrahim Abdel Moneim Metwally Hegazy non si hanno più tracce da domenica mattina, da quando, alle 9 ora locale, è scomparso dall’aeroporto internazionale del Cairo mentre si apprestava a prendere il volo EgyptAir per Ginevra con un biglietto acquistato il 31 agosto scorso. Fondatore e coordinatore dell’Associazione delle famiglie delle vittime di sparizioni forzate, attiva in Egitto dal 2014, padre egli stesso di uno studente di ingegneria scomparso nel 2013, quando era poco più che maggiorenne, Amr Ibrahim Metwaly, l’avvocato 53enne era atteso oggi nella città svizzera dal Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie (Wgeid) che da questa mattina e fino al 15 settembre sarà riunito per la 113ma sessione.

In quella sede Hegazy avrebbe dovuto parlare dell’omicidio di Giulio Regeni, caso che segue da vicino per la Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ercf), l’Ong che fornisce consulenza ai legali della famiglia del ricercatore friulano torturato e ucciso al Cairo nel 2016. E avrebbe illustrato anche l’ultimo rapporto sulle sparizioni forzate nel paese di Al Sisi pubblicato dall’Ecrf sulla propria pagina web, oscurata d’imperio dal governo egiziano il 5 settembre scorso come altri 405 siti di Ong da maggio ad oggi.

«Giulio, tappati gli occhi e non ti preoccupare, noi non ci arrendiamo», ha twittato ieri la sorella del ricercatore, Irene Regeni, commentando la notizia che è stata diffusa domenica sera dalla stessa Ecrf.

L’ultimo contatto con la famiglia, Hegazy lo ha avuto alle 8 del mattino, appena arrivato in aeroporto, poi più nulla. Dopo aver contattato le autorità aeroportuali di Ginevra, riferisce l’agenzia indipendente egiziana Mada Masr, i familiari dell’avvocato egiziano si sono convinti che la sparizione sia opera del regime egiziano. Halem Henesh, uno dei legali di Hegazy, ha raccontato di aver interpellato la polizia aeroportuale del Cairo, di aver cercato in tutte le stazioni di polizia vicine e di aver anche inviato un telegramma all’ufficio del procuratore generale per segnalare l’arresto sospetto, nel tentativo di avere una conferma ufficiale e appurare così almeno il luogo di detenzione. Nessuna risposta, però. E l’uomo non risulta essere comparso davanti ad alcun giudice egiziano.

È una piccola associazione, quella di cui è coordinatore Metwaly Hegazy, senza sede e senza molti mezzi, principalmente basata sul lavoro volontario. Ma, anche se inascoltati in Egitto, i loro report sono diventati fonte importante per organizzazioni internazionali, all’Onu in special modo. Sulla loro pagina Facebook gli attivisti ricordano che già il 6 maggio scorso un altro membro dell’associazione, la signora Hanan Badr el-Din, moglie di un desaparecido, era stata arrestata mentre faceva visita ad un detenuto, anch’egli rapito dalle forze dell’ordine, nella speranza di avere qualche informazione sulle sorti di suo marito.

«È una prassi comune che le autorità egiziane tentino d’impedire ai difensori dei diritti umani di recarsi all’estero per prendere parte a riunioni con altre Ong o con organismi intergovernativi – spiega al manifesto Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia – Lo fanno solitamente attraverso provvedimenti di divieto d’espatrio (dal 2011 ad oggi ne sono stati emessi diversi) o fermando la persona in aeroporto poco prima di imbarcarsi». Noury però questa volta è «molto preoccupato» perché da troppe ore non si sa più nulla dell’avvocato «inviato dall’Ecrf a Ginevra», come ha riferito all’Agenzia Nova il presidente della Ong, Ahmed Abdullah.

«Mi pare chiaro – aggiunge il portavoce di Amnesty Italia – che è in corso un’ulteriore offensiva nei confronti delle Ong egiziane che si occupano di diritti umani. Il sito della Commissione è stato chiuso così come quello di Human Rights Watch appena dopo la pubblicazione di un rapporto che definisce la tortura come una catena di montaggio». Rapporto che il governo egiziano ha invece bollato come «pieno di calunnie».

«Invito le autorità egiziane a rilasciare immediatamente e senza condizioni Metwaly», è l’appello del presidente della sottocommissione per i diritti umani del Parlamento europeo, Pier Antonio Panzeri. Il premier Gentiloni, che oggi sarà audito dal Copasir anche sul caso Regeni e sulla normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Egitto, invece tace. Giovedì l’ambasciatore Cantini presenterà le credenziali al Cairo e sarà ricevuto da Al-Sisi, mentre nel parco di Villa Ada a Roma arriverà il suo omologo egiziano, Hisham Badr. La cui missione, secondo il quotidiano governativo egiziano Al-Ahram, «consisterà principalmente nel ricucire lo strappo con l’Italia» e «smentire la responsabilità» delle autorità egiziane nell’omicidio di Giulio Regeni.

il 11.09.2017
Maria R.Calderoni


Italia-Libia, non è bello parlarne. Facciamo che Minniti è una infima, ultima particella: ma quella di Italia-Libia è una pagina infamante (per l’Italia). La conquista della colonia in Africa, un “successo” del nostro imperialismo straccione. Tutto cominciò nel 1911, governo Giolitti, smania di sedersi allo stesso tavolo delle altre grandi potenze europee, e invio in Libia di 100 mila soldati. Il “liberale” Giolitti non ebbe la mano leggera, tutt’altro. L’invasione è impietosa, la repressione militare crudele: migliaia di insorti arabi e turchi sono deportati, fucilati, impiccati. Bombardamenti e gas asfissianti non vengono risparmiati. E il noto criminale di guerra Rodolfo Graziani qui dà ampie prove delle sue “capacità”. Ma la resistenza dei libici, che continua in condizioni durissime, non è domata.

Infatti la conquista non è ancora completata, quando lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e soprattutto la guerriglia, costringono gli invasori italiani a sospendere l’avanzata, attestandosi sulla costa. I propositi di conquista totale devono essere rimandati.

Per non molto, però. Siamo ormai agli anni Venti, c’è un certo Mussolini in campo e infonde fascistica linfa. Con supremo sprezzo del ridicolo, la retorica del regime narra che, con la conquista della Libia, l’Italia non fa che riappropriarsi della “quarta sponda”, già appartenuta ai Romani, la “terra promessa”.

E in Italia la canzone in voga è “Tripoli, bel suol d’amore”…

Nei suoi due “illuminanti” volumi - “Gli italiani in Libia, dal fascismo a Gheddafi” – lo storico Angelo Del Boca solleva il velo sulle atrocità made Italia in Libia tenute nascoste per anni negli archivi militari. Gli italici colonizzatori confiscarono centinaia di case e quasi 70 mila ettari della migliore terra per affamare i ribelli; deportarono migliaia di civili in veri e propri campi di concentramento. .

La Cirenaica, per esempio. Dal 1930 al 1931 le milizie italiane scatenano un’ondata di terrore: in questo solo anno vengono giustiziate 12.000 persone e l’intera popolazione nomade è deportata in campi di concentramento lungo la costa desertica della Sirte. Più che campi di concentramento, mattatoi: sovraffollamento bestiale, fame, sporcizia.

Sempre in quell’anno, giugno 1930, sempre i predoni italiani impongono la migrazione forzata e la deportazione dell’intera popolazione del Gebel al Akhdar: niente di che, appena l’espulsione di quasi 100.000 beduini (praticamente la metà della popolazione) dalle loro abitazioni. Le quali, seduta stante, vengono assegnate ai coloni italiani-brava-gente. Fuori i beduini, dentro gli italici. E loro, questi 100.000 cacciati via da casa propria- in gran parte trattasi di donne, bambini e anziani – sono costretti a una lunghissima marcia forzata nel deserto, appunto verso i campi di concentramento, debitamente circondati da filo spinato, costruiti nei pressi di Bengasi. Non proprio tutti vi arrivarono; narrano le cronache che molti di quei beduini non ce l’hanno fatta, falcidiati dalla sete e dalla fame; senza contare gli sciagurati ritardatari che, non riuscendo a tenere il passo con la marcia, vennero fucilati sul posto.

Civile Italia (comunque, da presidente del Consiglio, nel ’99, Massimo D’Alema si è recato in visita da Gheddafi e ha chiesto ufficialmente scusa…).

La Libia non ha dimenticato né perdonato questa tragica pagina della sua storia. Gheddafi, quando sale al potere nel ’69, chiede a Roma – ma non lo ottiene - il risarcimento per i danni dell’occupazione e una condanna formale del passato colonialista. Ed espelle l’intera comunità italiana, oltre 20 mila persone, incamerandone i beni. , sostiene Del Boca.

Gheddafi che è ormai fuori dalla scena, finito come si sa…

Continua invece ad essere vivo, nel cuore dei libici, l’uomo che fu Il capo della resistenza. Si chiama Omar al-Mukthar: catturato e fu fatto impiccare dai fascisti il 16 settembre 1931. Porta il suo nome la via principale di Tripoli. Al-Mukhtar, eroe nazionale, padre spirituale. Un vero e proprio “capo partigiano” che venne arrestato proprio l’11 settembre di 86 anni fa e poi, dopo un brevissimo processo farsa, ucciso obbedendo ad ordini che giungevano direttamente da Roma. A lui sono dedicati monumenti, piazze, mausolei. Ed è la sua vita quella raccontata nel film “Il leone del deserto”, la storia della sua indomita lotta anti-coloniale: distribuito in mezzo mondo, ma in Italia ufficialmente vietato perché . In realtà il film, realizzato da un regista di origine siriana, naturalizzato negli Usa e accolto con favore nel 1981 al festival di Cannes, non giunse nelle sale italiane non a causa degli strali dell’allora MSI e cercò in Parlamento di vietarne la circolazione ma, e per certi versi è un motivo ancora più vigliacco, a causa delle case di distribuzione che non vollero acquistarne i diritti, farlo doppiare e proporlo in Italia. Forse perché offendeva il mito fasullo di “Italiani brava gente

Chiamatelo onore, se vi piace.

10 settembre 2017

“Siamo vicini ai familiari delle vittime e ai livornesi, una solidarietà che ho espresso anche al Sindaco Nogarin. Oltre ai tanti morti, inaccettabili nel 2017, vi sono anche danni ingenti”, afferma Tommaso Fattori, capogruppo di Sì Toscana a Sinistra in consiglio regionale.

“Ma non basta il dispiacere e la solidarietà, serve anche il raziocinio. La causa di questi disastri non è la natura né un’allerta meteo inadeguata, che in questo caso era comunque arancione, più che sufficiente a far temere una situazione fortemente critica. Ogni volta sentiamo ripetere come una cantilena che le precipitazioni sono state le più imponenti di sempre, ma la verità è che tra le vere emergenze di questo paese c’è lo stato pietoso del territorio”.

“La causa di quel che accade è da ricercare nei tagli agli investimenti pubblici per la salvaguardia ambientale, nell’inefficiente politica dell’emergenza che ha sostituito i seri interventi di prevenzione, nella mancata pianificazione”.

“I punti critici del territorio livornese sono noti da tempo, bisogna investire molto di più sulla prevenzione del rischio e pianificare solidi interventi di tipo strutturale, oltre agli ovvi e necessari interventi manutentivi, a partire da quelli relativi ai corsi d’acqua, che non è chiaro se siano stati fatti in maniera adeguata”.

“Adesso c’è da sostenere in ogni modo l’impegno della protezione civile e dei volontari, poi si dovranno accertare le responsabilità di quanto accaduto. Chiederemo anche che in Consiglio regionale si apra una seria riflessione sulla vera grande opera pubblica prioritaria per la Toscana, che non è l’inutile e dannosa autostrada Tirrenica o il nuovo e pericoloso aeroporto di Firenze, ma la messa in sicurezza del territorio e la salvaguardia dal dissesto idrogeologico”, conclude il capogruppo.

Ascanio Bernardeschi
09/09/2017


Il nostro paese, dalle posizioni di punta acquisite fino a qualche decennio fa, è rotolato nel castro dei maiali.

Avevamo un gioiello che era al passo con le allora pionieristiche tecnologie informatiche, l'Olivetti, ma il grande imprenditore, adorato a “sinistra”, il Cavaliere Carlo Debenedetti, l'ha distrutta. La Nuova Pignone, società pubblica che era ben posizionata nel mercato, venne privatizzata e si è dissolta. La Fiat non è più italiana grazie a un altro incensato e famoso manager e si chiama Fca. Altri casi della massima importanza sono Alitalia, Telecom, Indesit, Ansaldo Breda, Pirelli, Ilva. Tutte queste industrie, in gran parte pubbliche, o sono state cedute in mano straniera, o sono state smantellate, o ridotte ai minimi termini, o oggetto di esternalizzazioni che penalizzano i lavoratori. Così, in soli sei anni, l'Italia è scesa dal quinto all'ottavo posto fra i paesi industriali. Ma più ancora è stridente il divario fra la fase dinamica del cosiddetto “miracolo italiano” degli anni ‘60 in cui alcuni prodotti della nostra industria avevano acquisito fama in tutto il mondo, basti pensare alla Vespa Piaggio, alla Cinquecento Fiat, alle calcolatrici Olivetti, e il totale vuoto di produzioni industriali, specialmente quelle ad alta tecnologia, odierne. Già nel 2010 il 33 per cento della nostra produzione consisteva in prodotti a bassa tecnologia, mentre in Germania essi rappresentano appena il 18 per cento.

Per un po' di anni ci hanno riempito la testa col nuovo posizionamento del “made in Italy”, legato all'alimentare, al tessile, alla moda, all'arredamento e al design, settori in cui ben presto e agevolmente siamo stati copiati dai paesi emergenti e messi fuori mercato. L'altro pilastro su cui si riteneva di poter contare fu il cosiddetto “piccolo è bello”, l'economia dei distretti industriali fatti di piccole imprese che facevano “sistema”. Una boiata pazzesca, se non peggio, avrebbe detto il povero Paolo Villaggio. Il piccolo non si è rivelato per niente bello. Ha potuto sfruttare maggiormente i lavoratori, in genere meno sindacalizzati ed esposti al paternalismo padronale, ha vivacchiato evadendo le tasse e ricorrendo al lavoro nero, ma il nanismo della nostra struttura produttiva non ha potuto reggere la sfida dei notevoli investimenti necessari per introdurre alte tecnologie.

La crisi mondiale del 2008 ci ha trovato quindi molto esposti alle sue ricadute, tanto che Eurostat certifica che la nostra produzione ha subito ulteriormente, dal 2007 al 2014, una diminuzione del 18 per cento, addirittura maggiore di quella della Spagna e della Grecia, a fronte di un aumento dell'8 per cento di quella tedesca. In particolare il comparto manifatturiero, secondo un rapporto del Centro Studi Confindustria del 2014, ha subito un calo del 25 per cento dal 2000 al 2014, mentre nel resto del mondo saliva del 36 per cento, e, per quanto riguarda l'Europa, un rapporto Istat ci dice che la Germania ha sostanzialmente mantenuto la posizione, mentre Francia e Inghilterra registrano un arretramento importante, ma molto più contenuto del nostro (fra il 10 e il 15 per cento).

Lo stesso discorso vale per l'occupazione che, secondo lo stesso rapporto, è diminuita nell'industria di un milione e 160mila unità dal 2001 al 2013. Per non parlare della sua qualità e dell'estensione abnorme del lavoro precario che è diventato la regola della nuove assunzioni.

Visto che i commenti si sprecano a ogni rilevazione trimestrale e ci si accanisce a commentare – magari interpretandole secondo le necessità politiche – le piccole variazioni avvenute nel corso di tre mesi, è opportuno dare uno sguardo ai dati che Eurostat mette online e che riguardano l'intero periodo dal 2007 al 2016. Viene fuori che il Pil Italiano, in 9 anni, è cresciuto del 3,9 per cento, meno dello 0,4 per cento annuo, la Francia è cresciuta di oltre il 20 (circa 2 per cento all'anno) e la Germania di oltre il 25 (2,5 all'anno). L'intera zona Euro, pur fra crescenti disparità, è cresciuta del 10,2, oltre un punto l'anno.

Vediamo l'occupazione: L'Italia perde oltre 480mila posti di lavoro, pari al 2 per cento. La zona Euro guadagna il 4,35 per cento, la Germania l'8,22.

È quindi risibile l'entusiasmo di Renzi, seguito dai media embedded, di fronte alle ultime rilevazioni e alle stime dell'Istat. Cosa è avvenuto veramente? È avvenuto che il nostro Istituto di statistica, nelle proprie stime preliminari del Pil del secondo trimestre 2017, pubblicate il 16 agosto, indica un aumento del Pil dello 0,4 per cento sul trimestre precedente e prevede un aumento del 1,5 per cento per l'intero 2017. Si tratta certamente di un miglioramento rispetto alla stagnazione degli anni precedenti, ma ciò non è dovuto ai provvedimenti governativi, come invece ha sbandierato Renzi e come “La Repubblica” riporta acriticamente senza accennare alle opinioni contrarie, il cui impatto è stato giudicato irrilevante dai più accorti. Piuttosto l'Italia ha goduto – meno di quello che la situazione avrebbe consentito – di una certa ripresa delle attività economiche su scala mondiale e nell'area Euro, condita anche dai pur modesti effetti della massiccia introduzione di liquidità da parte della BCE. Tuttavia le analoghe previsioni della Commissione Europea indicano che ancora l'Italia sta marciando a una velocità inferiore rispetto alla media dei paesi europei.

L'altro dato su cui si gongolano i media di regime, riguarda il lavoro. Sempre l'Istat, nella sua nota mensile di agosto, indica che nel trimestre maggio-luglio i disoccupati sono diminuiti dell'1,2 per cento e che su base annua l'occupazione cresce dell'1,3 per cento. L'Istat si affretta però a dire che “a crescere sono gli occupati ultracinquantenni (+371 mila) e [assai meno] i 15-24enni (+47 mila), a fronte di un calo nelle classi di età centrali (-124 mila)”. Sembrerebbe quindi non il Jobs Act, che riguarda i nuovi assunti, ma la Legge Fornero, nonostante la sua successiva apeizzazione, che ha allontanato la pensione, a far crescere la presenza di ultracinquantenni, trattenuti forzatamente al lavoro. Un'avvertenza è poi necessaria su cosa dicono effettivamente le statistiche. Vengono censiti come disoccupati solo coloro che non lavorano neppure un'ora al giorno, quindi sfuggono alla rilevazione tutti i part time, e altre figure precarie che svolgono una minima attività lavorativa, anche se assolutamente insufficiente ai propri bisogni. Se, per esempio, in una famiglia lavorava un solo membro che percepiva 2mila euro al mese e ora lavorano tre persone che guadagnano 500 euro al mese ciascuno, le condizioni di quella famiglia senz'altro peggiorano, ma l'occupazione, per le statistiche, è triplicata. Immaginiamoci quindi quanto siano poco indicativi i dati che riportano l'andamento della disoccupazione nei nostri paesi dove il lavoro stabile e ben retribuito è andato via via quasi estinguendosi.

E comunque, anche sul lavoro, rimaniamo il fanalino di coda dell'Europa se si pensa che, sempre i dati della Commissione Europea, dicono che nella zona euro la disoccupazione è al 9,1 per cento contro il nostro 11,3.

Al di là delle oscillazioni congiunturali, l'Italia è sempre nel pantano e per risollevarla è necessario dotarci degli strumenti di politica economica che governi di centrodestra e di centrosinistra hanno smantellato, quali le industrie di stato, investimenti nella ricerca e nella tutela e sicurezza ambientale, e invertire la rotta rispetto alle politiche liberiste. Sappiamo che ciò urta contro gli interessi delle classi di riferimento dei nostri governi e in generale dei forti gruppi imprenditoriali transnazionali, ma non c'è alternativa a una dura e organizzata lotta per ridurre il loro potere.

Leo Lancari
da il Manifesto
09.09.2017


Migranti. Dopo la denuncia di Msf, critiche alla politica italiana in Libia anche dalle Nazioni unite

«Riportare le persone in centri di detenzione in cui vengono trattenute arbitrariamente e torturate è una chiara violazione del principio di non respingimento previsto dal diritto internazionale». A bocciare senza appello la decisione dell’Europa di riconsegnare i migranti nelle mani dei libici è l’alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad al Hussein che ieri si è detto «disgustato dal cinismo europeo».

Dopo la denuncia di Medici senza frontiere sulle condizioni in cui sono costretti i migranti in Libia, nuove critiche alla politica messa in atto dall’Italia – e avallata dall’Ue – per fermare i flussi arrivano adesso anche dalla Nazioni unite. E svelano ancora una volta tutta l’ipocrisia con cui l’Europa da anni gestisce l’emergenza migranti, annunciando di combattere i trafficanti di uomini ma in realtà mettendo in atto solo politiche di contrasto a quanti fuggono da guerre e miseria. «L’Ue, e l’Italia in particolare, – denuncia al Hussein – sono impegnate a sostenere la Guardia costiera libica, una Guardia costiera che ha sparato a barche di Ong che provano a salvare migranti a rischio di annegare, con il risultato che adesso le Ong devono operare ancora più lontano».

Al Hussein punta il dito su un altro dei punti forti della politica voluta dal ministro degli Interni Marco Minniti e che oggi rischia di trasformarsi nel segno della schizofrenia con cui il governo gestisce l’emergenza migranti. Dopo aver costretto di fatto le Ong ad abbandonare l’opera di salvataggio dei migranti (è di pochi giorni fa l’annuncio della maltese Moas di aver sospeso i soccorsi proprio per non consegnare i migranti ai libici), adesso si pensa di coinvolgere le stesse Ong nella gestione dei campi profughi che verranno allestiti nel paese nordafricano. A proporlo è il viceministro degli Esteri Mario Giro che due giorni fa ha incontrato una ventina di Ong alla Farnesina. «Non vogliamo abbandonare queste persone all’inferno», ha spiegato Giro riferendosi alle centinaia di uomini, donne e bambini richiuse ne centri di detenzione libici. «Senza aspettare che l’Unhcr o l’Oim siano realmente presenti, abbiamo già messo risorse a disposizione». Sei milioni di euro sarebbero stati investiti nel progetto, più altri tre per un accordo con i sindaci del territorio libici. Nelle intenzioni della Farnesina le Ong sarebbero almeno una ventina, dalla stessa Msf a Terre des Hommes, all’Elis legata all’Opus Dei.

Apprezzamento per la proposta di Giro è stato espresso dal ministero della Difesa Roberta Pinotti, mentre da parte sua il ministro Minniti ha annunciato di voler incontrare le organizzazioni umanitarie la prossima settimana. «Sarebbe molto bello se ogni Ong italiana potesse adottarne una libica. La mia ambizione sarebbe quella di arrivare a costruire una rete di giovani libici impegnati per il rispetto dei diritti umani nel loro Paese», ha spiegato Minniti.

Dubbi all’operazione arrivano però dalle stesse Ong. In un’intervista all’Huffington post Marco Bertotto, responsabile advocacy di Msf, si dice contrario anche all’idea di ricevere fondi governativi. «dal 2016 noi non accettiamo fondi da alcun governo europeo o dall’Unione europa in polemica con le politiche di contenimento dell’immigrazione adottate dalla Ue».

Insieme all’Unhcr (che opera attraverso partner locali) e all’Oim, Msf è una delle tre organizzazioni internazionali che opera in Libia. Nonostante questo – o forse proprio per questo – l’idea di operare sotto il cappello governativo non piace. «C’è il rischio – spiega infatti Bertotto – che questa idea di dare alle Ong la gestione dei centri in Libia appaia come una strumentalizzazione dell’azione umanitaria e del lavoro delle Ong da parte di un governo che ha contribuito a creare una condizione di intrappolamento delle persone in Libia».

Giulia Franchi
da il Manifesto
09.09.2017


Cooperazione. Gibe I, II, III e IV, la saga delle dighe continua ma lo schema è sempre lo stesso: nulla su danni ambientali e violazioni dei diritti umani, soldi pubblici, profitti privati

In Etiopia da due anni è in atto una tremenda stretta repressiva. Lo ha confermato lo scorso aprile, durante un’audizione parlamentare, la stessa Commissione Etiopica per i Diritti Umani, che ha indicato in ben 699 le persone uccise dalle forze di sicurezza nel corso delle varie manifestazioni di piazza tenutesi per protestare contro l’operato del governo.

Ora c’è una situazione di calma apparente. Dopo dieci mesi è stato revocato lo stato di emergenza, tanto ormai il dissenso politico è stato cancellato, messo sotto chiave dall’applicazione della draconiana legge anti-terrorismo del 2009. In Etiopia, è bene ricordarlo, i mezzi di comunicazione sono appannaggio del governo e i giornalisti «dissenzienti» possono solo scegliere tra autocensura, esilio o arresto. L’esecutivo non si crea scrupoli a limitare l’accesso ai social media.

Insomma, uno di quei paesi, e non sono pochi, con i quali Palazzo Chigi non riesce a non fare amicizia. E gli amici, si sa, non vanno mai imbarazzati.

FACCIAMO UN PICCOLO salto indietro nel tempo. È il luglio 2015, Matteo Renzi è uno dei pochi capi di governo presenti ad Addis Abeba in occasione della Conferenza dell’Onu sul Finanziamento allo Sviluppo. Prima della fine del vertice, Renzi aveva salutato tutti ed era volato 400 chilometri più a sud, nella valle dell’Omo, per una foto ricordo sulla diga Gibe III, il mega impianto idroelettrico dell’italiana Salini-Impregilo, meritevole, secondo lui, di «portare in alto il Tricolore». Un viaggio, quello in Etiopia, bissato qualche mese dopo dal Presidente Sergio Mattarella. Proprio mentre nel sud dell’Etiopia contadini e pastori della Valle dell’Omo denunciavano il deterioramento delle loro condizioni di vita a causa della diga e dei furti di terra a essa collegati, il Capo dello Stato omaggiò il contestatissimo governo di Haile Mariam Desalegn, avallando l’indissolubile rapporto di amicizia che ci lega all’Etiopia. Amicizia che in gergo geopolitico significa condivisione profonda delle strategie di sviluppo del Paese, dai cui vantaggi l’Italia non intende rimanere esclusa.

EVIDENTEMENTE NON era bastata la poco onorevole storia della diga Gibe I sul fiume Omo, la cui costruzione nel 1999 a opera della stessa Salini aveva provocato lo spostamento forzato di circa 10mila persone. E neppure la «controversa» esperienza di Gibe II, costruita sullo stesso fiume dalla solita Salini, (e parzialmente crollata nel 2011 a meno di una settimana dall’inaugurazione) con un contributo di 220 milioni di euro di soldi pubblici, elargito in circostanze che suscitarono scandalo e stimolarono l’interesse della magistratura. E tantomeno la ormai tristemente famosa Gibe III, quella della foto-ricordo di Renzi, che sta affamando centinaia di migliaia di persone tra Etiopia e Kenya.

IL BACINO ARTIFICIALE creato dallo sbarramento ha gradualmente sommerso i territori su cui le tribù della Valle dipendono per la coltivazione e l’allevamento e ridurrà drasticamente il livello del Turkana in Kenya, il più grande lago desertico del mondo. Circa 500mila persone in Etiopia e in Kenya si troveranno così a dover fronteggiare una catastrofe umanitaria.

Quando ci fu bisogno di trovare i finanziamenti per Gibe III, fu solo grazie ad una vincente campagna di pressione della società civile che l’Italia fu costretta a ritirarsi dal finanziamento, anche perché tutti i donatori multilaterali avevano fatto marcia indietro.

Oggi, dimostrando poca memoria storica, il nostro esecutivo si lancia in una nuova prova di forza: sarà ancora la Salini-Impregilo a realizzare la diga Koysha (nota come Gibe IV), l’ennesimo mega progetto sul già tormentato fiume Omo, in una saga destinata a non finire mai. A metterci i soldi (pubblici) tornerà a essere l’Italia attraverso la Sace, la nostra agenzia di credito all’export, che garantirà una copertura del rischio per 1,5 miliardi di euro. Nel frattempo, in linea con il triennio 2013-2015, l’Etiopia si conferma il secondo maggior beneficiario dopo l’Afghanistan dei fondi della Cooperazione italiana, tramite cui sono stati finanziati progetti per quasi 100 milioni di euro, senza mai imbarazzare l’esecutivo locale con domande sulle violazioni dei diritti umani.

IN QUESTO MODO TUTTO torna: noi suggelliamo l’amicizia con un alleato strategico che ci aiuta nella guerra al terrorismo, il Sistema Italia si rafforza, la Salini-Impregilo conta gli utili e a mettere una toppa, se qualcosa va storto, ci pensa la Cooperazione Italiana, mentre i soldi veri li usiamo per «aiutare i migranti a casa loro». Merkel docet.

Poco importa che l’Etiopia sia di fatto una zona off-limits per chi prova a capire cosa si muova realmente al di là della narrativa ufficiale.

NEL DICEMBRE 2015, anche noi di Re:Common ci eravamo recati lì. Ma il viaggio si rivelò monco, perché ci fu impedito di avvicinarci alle zone «calde», di parlare con chi si oppone all’impetuoso «Piano di Crescita e Trasformazione», modellato su grandi infrastrutture e sviluppo agroindustriale intensivo, a discapito delle componenti più povere e fragili del Paese. Esperienza che ci portò a raccontare quanto accaduto nel rapporto «Cosa c’è da nascondere nella Valle dell’Omo?».

Del resto è dal 1500 che esiste la ragion di stato come politica dotata di regole proprie e ubbidiente a una logica tutta sua, in nome della quale tutto diventa sacrificabile, con buona pace di quanti si sono sforzati di conciliarla con etica e morale.

ECCOLE ALLORA SVELATE le ragioni di stato del nostro Paese: petrolio, gas, armi, grandi infrastrutture, a cui ora si aggiunge la necessità di stringere alleanze con chicchessia per dimostrare che siamo pronti a tutto pur di porre fine al «problema dei migranti». Al cospetto di ciò, ogni altra questione diventa poca cosa. Che si tratti della sorte delle migliaia di persone arrestate e cacciate dalle loro case dall’esecutivo dell’amico etiopico, degli oltre 4mila morti yemeniti sotto le bombe saudite (di fattura italiana) o della vita di uomini e donne imprigionati nei centri di detenzione in Libia. Così come del destino degli attivisti perseguitati in Azerbaigian o di quello dei 40mila prigionieri politici blindati nelle carceri egiziane.

O, ancora, di scoprire la verità sull'efferato omicidio di un giovane ricercatore italiano al Cairo.

Rachele Gonnelli
da Il Manifesto
08.09.2017


Stati d'accusa. La presidente internazionale dell'ong Msf Liu: «L’Italia e l’Europa vogliono essere complici»

«Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo». Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama «ultra cinismo».

Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati «per il solo crimine di desiderare una vita migliore» – la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo – «storie che mi tormenteranno per anni», dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà.

Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: «complicità» con i criminali, cioè con «un modello di business che trae profitto dalla disperazione». Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani.

Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles – e nel video-messaggio diffuso sui social dall’ong che non ha firmato il codice Minniti – c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle «vie legali e sicure» per accogliere e non inprigionare questa umanità africana in fuga.

Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si «augura» che «gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere».

L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza «delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane». «Non siamo ciechi e sordi», ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per «monitorare» l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica.

A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. «Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli – inizia Liu – c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali». «Sussurravano “Tirateci fuori da qui”. Ho ho potuto solo dire loro: “Vi sento”». E ancora: «Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: “La mia storia non è neanche la peggiore”. E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile». Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. «Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime».

Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’ong ha accesso. «L’Unhcr – Jan Peter Stellem di Msf – riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro».

La gestione dei miliziani libiche invece – come risulta anche da inchieste giornalistiche – non si può mettere in discussione.

Tomaso Montanari
da il Manifesto
07.09.2017


Commenti. Se l’emigrazione è così massiccia vuol dire che le minacce alla vita sono insostenibili in gran parte del pianeta. Significa che la politica deve cambiare. Anche a sinistra

L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza.

Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati.

Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa.

Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.

Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti.

Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali.

Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto.

E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.

Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso.

Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.

Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia.

Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani.

Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.

Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese.

Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.

Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati.

Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci.

Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all'attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.

Pubblicato
06.09.2017


Il terrorismo che si abbatte tragicamente anche sull'Europa è, in primo
luogo, l'altra faccia della guerra infinita che da oltre un quarto di secolo si
abbatte sul pianeta.

Ne è il principale "effetto collaterale", che non sarà sconfitto con più guerre, militarizzazione dei confini e politiche di espulsione, ma con la costruzione di politiche attive di pace, di disarmo e di convivenza. Si tratta per il nostro Paese di attuare, finalmente, i principi fondamentali della Costituzione repubblicana.

L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Sono gli assi portanti della nostra democrazia.
Eppure, il nostro Paese è terzultimo in Europa per l'occupazione e ultimo per l'occupazione giovanile; invece è primo per l'aumento delle spese militari.
E' in atto il ripudio della Costituzione invece che della guerra.

Negli ultimi 10 anni (dal 2006 al 2016) di crisi economica assoluta, in cui i governi hanno tagliato tutto, dalla sanità alle protezioni sociali - portando milioni di persone (come certifica l'ISTAT) in condizione di povertà estrema - la spesa pubblica militare del nostro Paese invece è aumentata del 21% (e per i soli armamenti dell'85%!).
Un pozzo nero senza fondo, che per il solo il 2017 prevede di bruciare sull'altare delle guerre - e della loro preparazione – altri 23,3 miliardi di euro (che il SIPRI di Stoccolma indica addirittura in 25 miliardi!), pari a 64 milioni al giorno. Ossia l'1,4% del prodotto
interno lordo che - come se non bastasse - il governo italiano si è impegnato con il presidente USA Trump a portare al 2%!

E' in corso la "terza guerra mondiale a pezzetti" continua a ripetere papa Francesco, denunciando i produttori di armamenti, eppure il nostro Paese negli ultimi tre anni ha sestuplicato le autorizzazioni per la vendita di armi, passando da 2,9 miliardi a 14,6 miliardi di profitti per l'industria bellica italiana, vendendo armi anche alle dittature ed ai Paesi in guerra, in violazione della legge 185/90 sul commercio delle armi.

In questo mondo che brucia, l'Italia - facendo carta straccia della sua Costituzione - è presente in tutte le guerre del Pianeta, non solo con i suoi soldati, ma anche con le sue armi.
Vende armi,fa profitti bellici, alimenta le guerre e ne importa i profughi ed alza le barriere, in un circolo vizioso senza fine.

Ovunque impazza il terrorismo, bruciano il Medioriente, l'Africa e il Mediterraneo, ritornano venti di guerra fredda tra USA e Russia, ritornano muri e fili spinati in Europa, ritornano anche le minacce di guerra nucleare, con migliaia di testate nucleari puntate sulle nostre teste, eppure il governo italiano - che "ospita" sul proprio territorio decine di ordigni nucleari nelle basi USA di Aviano e Ghedi - non ha aderito al Trattato ONU per messa al bando delle armi nucleari.

Anzi continua ad acquistare i 90 cacciabombardieri F35, capaci di trasportare ordigni nucleari in giro per il pianeta, per un'ulteriore spesa complessiva di 14 miliardi di euro. Un riarmo nazionale – dentro quello internazionale - senza precedenti, dai tempi della seconda guerra mondiale.

Tutto questo è follia. L’urgenza assoluta è quella di una immediata inversione di tendenza.

Il disarmo, la riconversione sociale delle spese militari, la riconversione civile dell’industria bellica, la costruzione della difesa civile non armata e nonviolenta, devono essere il segno distintivo e qualificante di una nuova politica.
L’opposizione integrale alla guerra e alla sua preparazione - qui ed ora - è la condizione preliminare per parlare di un orientamento diverso.

La sinistra, per essere davvero tale, ha bisogno dunque di mettere al centro della sua azione politiche attive di pace. “O la sinistra fa dell’impegno per la pace il terreno decisivo dello scontro tra civiltà e barbarie" – scriveva Carlo Cassola - "o rimane di destra anche se si proclama di sinistra”.
Mai queste parole furono così attuali quanto oggi. Democrazia e uguaglianza
sono incompatibili con la preparazione della guerra. Per questo l’unità della
sinistra è una valore se parte – oggi più che mai - dalla costruzione di politiche
di pace, di disarmo e convivenza. Dalle quali discende tutto il resto.

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