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In evidenza

POLITICA ESTERA    UCRAINA  

 

30/03/2023

DA La Notizia

Giulio Cavalli

 

La narrazione della “guerra che è bella anche se fa male” li dipinge come eroi al fronte che hanno bisogno solo di una cosa: armi. Gli ucraini, come tutte le vittime delle guerre che avvengono sulle loro teste, devono affrontare la ferocia disumana di Putin che vorrebbe strappargli le loro terre e la cupidigia dei signori delle armi che si fregano le mani. Ma come stanno gli ucraini? Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità e il Paese, un anno dopo l’intensificarsi del conflitto, sta affrontando tassi di sfollamento, inflazione e disoccupazione senza precedenti.


Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità.  

Secondo l’ultimo Rapporto sui bisogni multisettoriali dell’Ucraina dell’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari comunitari, più del 40% delle famiglie ha dichiarato di avere difficoltà a soddisfare le esigenze quotidiane di cibo, acqua e beni di prima necessità, nelle aree più colpite dai combattimenti, nell’Est e nel Sud del Paese, il numero sale al 60%. La Banca Nazionale Ucraina il mese scorso ha stimato un tasso di inflazione del 25%, con il costo dei prodotti che è cresciuto della metà nelle regioni orientali.

A settembre, un consumatore su cinque in Ucraina ha dichiarato di non potersi permettere l’acquisto dei prodotti disponibili nei negozi. 5,3 milioni di persone si trovano ancora lontano da casa e per le famiglie sfollate la necessità di assistenza finanziaria cresce di giorno in giorno.

Una persona su quattro è attualmente disoccupata perché molti faticano a trovare un lavoro stabile nel loro luogo di residenza temporaneo. Alcuni di loro scelgono di tornare nelle città d’origine devastate dalla guerra lavorare. Save the Children racconta il caso della famiglia di Anton, 12 anni: lo scorso marzo, con i suoi genitori ha lasciato Kharkiv per spostarsi nell’Ucraina occidentale, a causa dei continui bombardamenti.

Qualche mese dopo, il padre di Anton è stato costretto a tornare. “Mio marito è stato richiamato al lavoro” racconta Olha, madre di Anton. “I miei figli sono preoccupati, chiedono continuamente quando papà tornerà a vivere con noi e quando saremo di nuovo tutti insieme. Non passa giorno che non ci pensino”. Sono molte le Ong che da più di un anno provano a portare ristoro. Tra i bambini che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Queste bambine e questi bambini hanno bisogno di essere protetti dalle ferite fisiche ed emotive che inevitabilmente riportano. Questi bambini avrebbero bisogno di essere raccontati. Questi bambini non possono mangiare munizioni.

Nonostante i buoni propositi di chi augura sforzi diplomatici per risolvere il conflitto la questione umanitaria in Ucraina scompare perché inevitabilmente non fa il gioco di chi chiede sempre più guerra, ancora guerra. Nel corso del primo anno di guerra, Solo Save the Children ha distribuito aiuti essenziali come cibo, acqua, denaro, vestiti invernali e spazi sicuri a più di 800mila persone, di cui la metà sono bambini, e fornito sostegno economico a più di 100mila famiglie, per un totale di oltre 29 milioni di dollari. Una cifra irrisoria rispetto a quella per le armi.

I bambini non causano le guerre, ma sono le vittime più vulnerabili. Tra quelli che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Come stanno gli ucraini è scomparso dal dibattito pubblico. A leggerla da qui sembra una guerra solo di soldati. Diceva Gino Strada: “Nella macchina della guerra, c’è posto anche per il mondo umanitario. Anzi, un posto importante, una specie di nuovo reparto Cosmesi della guerra. Far vedere quanti aiuti arrivano con la guerra, quante belle cose si possono fare per questa povera gente. Per i sopravvissuti, naturalmente”. Ora siamo arrivati a ritenere un vezzo anche quello. Anche gli affamati rovinano la narrazione.

COMMENTI

 

29/03/2023

da La Notizia

Gaetano Pedullà

 

Ora che il governo ha messo il veto alla produzione della carne sintetica siamo tutti più tranquilli. Se solo sapessimo chi l’ha mai vista questa carne e dove stanno le transenne per bloccare le folle che non vedevano l’ora di comprarla al posto di una bella braciola.

Così, in questa ennesima operazione di distrazione di massa, sono passati in secondo piano gli ultimi disastri della Meloni e dei suoi ministri, ormai considerati una macchietta in tutto il globo terracqueo. Partiamo dal nuovo codice degli appalti, approvato ieri a Palazzo Chigi.

Neppure il tempo di stamparlo sulla Gazzetta Ufficiale e già il responsabile dell’Economia, il leghista Giorgetti, ha detto che dovrà essere corretto. Fantastico! Ancora più incredibili le due figuracce rimediate simultaneamente in Europa. Il ministro Fitto ha alzato bandiera bianca sul Pnrr, ammettendo che alcuni progetti sono irrealizzabili.

Dunque, se non ci daranno una proroga, cominceremo a perdere una parte dei miliardi fatti stanziare all’epoca da Conte. Nel frattempo, sempre ieri, si è votato sullo stop alle auto a benzina e diesel entro il 2035, contro cui l’Italia ha fatto il diavolo a quattro. E sapete come ha votato il ministro Pichetto Fratin? Si è astenuto.

Una debacle totale, completata dalle dichiarazioni su una presunta apertura europea alle richieste di Roma, immediatamente smentita da un portavoce di Bruxelles. Se la credibilità dell’Italia in pochi mesi è scesa al suolo, ora questo governo ha cominciato a scavare. E si sta dimostrando bravissimo a farci la fossa.

POLITICA NAZIONALE POLITICA ITALIANA

 

28/03/2023

da La Notizia

Carmine Gazzanni

 

Cinque anni trascorsi con l’illusione che realmente qualcosa sarebbe potuta cambiare. E invece, come nella sceneggiatura di “Ritorno al futuro”, ci si rende conto che ogni tentativo è stato vano. Se spostiamo la lancetta indietro di cinque anni, era tutto un tripudio di esultanze bipartisan per il raggiungimento di un traguardo insperato: il taglio dei tanti odiati vitalizi.

Col governo Meloni si torna al passato su tutto. Una restaurazione che non risparmia il ripristino dei vitalizi alla Casta del Senato, persino ai condannati.

Opera, in primis, della delibera dell’allora presidente della Camera Roberto Fico, poi – anche se con enorme ritardo – adottata anche al Senato. A distanza di cinque anni, però, a furia di ricorsi, proteste degli ex onorevoli, scandali, cessioni e sentenze, è esattamente come se nulla fosse accaduto. Ogni fatica, ogni impresa, ogni traguardo di fatto è stato vano. Col risultato che chi beneficiava di assegni d’oro ha avuto solo per un po’ paura, dato che i tagli, nella stragranda maggioranza dei casi, sono svaniti e l’assegno è tornato ad essere bello grasso.

Per capire come sia evoluta quest’ennesima (dis)onorevole pantomima, bisogna andare per gradi. Partiamo dal Senato. Dopo il taglio ai vitalizi voluto per primo, come detto, da Fico e adottato pure al Senato, allora guidato dall’ex presidente Elisabetta Casellati, c’è stato chi ha storto il muso. E cioè 771 ex senatori che hanno prontamente impugnato quella delibera e ne hanno ottenuto l’annullamento dalla Commissione contenziosa (primo grado della giustiza interna del Senato), presieduta al tempo dall’azzurro Giacomo Caliendo.

Da qui è cominciato un rimpallo impressionante del Consiglio di Garanzia (secondo grado) che ha rinviato la palla addirittura alla Consulta che a sua volta ha rigettato tutto nuovamente al Senato. Risultato? Chi prendeva lauti assegni, come detto, è tornato a prenderli. Con la beffa che quanto gli è stato tagliato nei mesi in cui la delibera ha avuto effetto, gli è stato pure restituito. Ma di quali pensioni parliamo? Secondo le cifre interne di Palazzo Madama, ad esempio, l’ex senatrice e ministro col governo Berlusconi, Adriana Poli, percepiva, grazie al taglio ai vitalizi, 7.688 euro lordi al mese; e ora è tornata sui 9.885 euro.

Giorgio Postal era andato incontro a un taglio di circa 4mila euro: l’ex senatore e più volte sottosegretario, è tornato dai 5.211 euro mensili lordi ai “vecchi” 9.636 euro. Interessante anche il caso di Francesco Storace che è tornato ai “suoi” 6.540 euro lordi rispetto ai 4.360 post-taglio. E così, ancora, Riccardo Villari (da 3.541 a 6.217 euro), Carlo Vizzini (da 7.903 a 10.631), Antonio Azzollini (da 5.505 a 8.082), Goffredo Bettini (da 3.964 a 6.590), Filippo Cavazzuti (da 4.341 a 8.455).

Senza dimenticare un altro piccolo particolare: ancor prima della delibebra Fico, i precedenti presidenti di Camera e Senato (Piero Grasso e Laura Boldrini) avevano deciso di sospendere il vitalizio a chi era stato condannato in via definitiva. Ebbene: anche questa norma – di buon senso, verrebbe da dire – è saltata.

Restituiti persino arretrati e assegni ai condannati. Alla Camera Colletti(ex M5S)  ha limitato i danni 

E a Montecitorio, invece, come stanno le cose? Se si può, la situazione qui è ancora più ingarbugliata. La delibera Fico stabiliva la possibilità, per gli ex deputati, di richiedere un incremento dell’assegno previdenziale al sussistere di due requisiti: essere percettori di un reddito non superiore a 5.889 euro lordi e affetti da patologie tali da comportare un’invalidità al 100 per cento. Al ricorrere simultaneo di queste due condizioni, l’assegno poteva essere aumentato fino a un massimo del 50%.

Il Consiglio di giurisdizione (primo grado della giustizia interna della Camera), però, ha di fatto modificato la norma della delibera. Stabilendo che, l’incremento del vitalizio possa essere disposto al sussistere anche di uno solo dei due requisiti e per importi anche superiori al 50%. In appello il Collegio giurisdizionale, grazie soprattutto all’impegno dell’ex Cinque Stelle Andrea Colletti, ha congelato questa nuova concessione, ma la sospensiva è di fatto stata “scavalcata” dalla decisione del Collegio dei Questori di decidere caso per caso.

A giorni a riguardo dovrebbe arrivare una sentenza del Collegio d’Appello ma è difficile possa rivoluzionare nuovamente le cose considerando l’andazzo che Montecitorio ha preso. Unica magra consolazione? Il divieto, a differenza del Senato, di concedere il vitalizio ai condannati. Anche qui gli ex onorevoli in realtà ci avevano provato, ma la barriera di Colletti – almeno in questo caso – ha tenuto.

LAVORO E DIRITTI   

 

27/03/2023

da Left

Stefano Galieni

 

Sfruttamento, caporalato, miglioramento del condizioni di lavoro nei campi sono da anni questioni irrisolte dai governi di ogni colore che puntualmente si ripresentano a questo punto dell'anno. Ne parliamo con il segretario della Flai Cgil, Giovanni Mininni, che stigmatizza i nuovi provvedimenti securitari di Meloni riguardo all'immigrazione ma apre sul "decreto flussi"

Lotta al caporalato e allo sfruttamento, miglioramento del condizioni di lavoro nei campi, a che punto siamo? Lo abbiamo chiesto al segretario della Flai Cgil Giovanni Mininni (da poco riconfermato con percentuali “bulgare”) che stigmatizza i nuovi provvedimenti securitari del governo Meloni riguardo all’immigrazione ma apre sul decreto flussi: «Apprezziamo la volontà di tornare ad un piano triennale di programmazione degli ingressi (2023/2025), fatto che non avveniva da molto tempo anche se dovrebbe costituire la prassi di un approccio sistemico».

Segretario Mininni, ci aiuti a fare un quadro, cosa sta cambiando nel mondo del lavoro agricolo?
Il mondo agricolo cambia in continuazione. Rispetto al precedente congresso Flai Cgil attorno ad alcune battaglie come quelle contro caporalato e sfruttamento registriamo miglioramenti. C’è maggiore consapevolezza fra chi lavora e aumentano le imprese più attente a non ricorrere ai caporali. L’irregolarità resta alta ma viene maggiormente attenzionata da forze dell’ordine e ispettorato del lavoro. Gli ispettori sono aumentati col precedente governo, hanno fatto formazione e ora dovrebbero essere operative alcune centinaia. Ancora pochi rispetto al numero delle aziende. Di recente è partito un Programma di azione dell’ispettorato del lavoro che mette al primo punto le condizioni di sfruttamento che sono presenti non solo in agricoltura, dovute al modello economico che si è affermato.

Con il Decreto Cutro il governo prova a legiferare sul tema abusato dell’immigrazione. Trovate qualche novità di rilievo?
Purtroppo c’è da registrare la stessa impostazione di sempre. Neanche la strage di Cutro è servita a dare almeno un moto di umanità. La sola notizia positiva degna di nota è nella volontà di tornare ad un piano triennale di programmazione degli ingressi (2023/2025), fatto che non avveniva da molto tempo anche se dovrebbe costituire la prassi di un approccio sistemico. Sembra di scorgere la volontà di pianificare e di non agire sempre sulla base di emergenze. Però ci sono elementi poco chiari nelle nuove normative. Ad esempio si riconoscono quote di ingressi maggiori per i Paesi che promuovono campagne mediatiche con l’obiettivo di scoraggiare le partenze. E qui ci trovo un’assurdità ripresa anche dal Presidente del Consiglio.

Vale a dire?
La premier dice che si tratta di far conoscere i rischi che si corrono a partire ma di far comprendere a chi emigra in Italia che questa è una scelta sbagliata, che debbono restare a casa. Come se chi parte decidesse, da un momento all’altro di venirsi a fare una gita per vedere il Colosseo o per fare turismo. Non servono geni per capire che chi parte è spesso costretto a farlo per guerre, per crisi economiche, catastrofi ambientali, povertà senza prospettive di sviluppo. Ci leggo la volontà di far percepire la scelta di abbandonare il proprio Paese come una colpa capovolgendo la realtà. Anche fra chi rientra nei “decreti flussi” poi si scontra col fatto che i datori di lavoro spesso non sottoscrivono i contratti promessi. Col risultato che i lavoratori finiscono a lavorare al nero e nei ghetti. Noi le proposte per impedire che questo accada le abbiamo. Ma questo, come i precedenti governi, ha emanato i decreti senza prima cercare nessun confronto con le parti sindacali. Col precedente governo, grazie al ministro Orlando, qualche timido segnale era giunto legato al fatto che il dicastero che ricopriva si occupava di politiche sociali. Ma si è tornati al fatto che l’approccio è unicamente securitario, che l’interlocutore è un “ministero di polizia” e che il tema è la lotta, con nuovi strumenti alla “clandestinità” e la deroga per aprire nuovi centri permanenti per i rimpatri. Il loro approccio è questo.

Che cosa sta cambiando con la maggiore automazione del lavoro nei campi. penalizza i lavoratori o li solleva della maggiori fatiche, quelle più usuranti?Aumentano gli interventi di modernizzazione nella raccolta persino nelle campagne foggiane e di tutto il Meridione. Le macchine, per ora solo leggermente, fanno diminuire la necessità di manodopera soprattutto nelle grandi raccolte. Ma il progresso tecnologico non cancella il caporalato. In Emilia-Romagna c’è un “polo del pomodoro”, che è meccanizzato da anni, utilizza meno lavoratori rispetto al Sud dove prevale la raccolta manuale, ma questo non risolve lo sfruttamento. Parlo ovviamente di industria agricola in cui i prodotti vengono trattati, ci sono realtà di agricoltura 4.0 in poche aziende e questo mette ancora più in evidenza l’arretratezza di altre realtà. Secondo i dati dell’ultimo censimento c’è una crescita dimensionale delle aziende e una concentrazione inedita rispetto al passato che potrebbe tradursi, con l’avvento della digitalizzazione, in un’importante diminuzione della forza lavoro necessaria che ancora oggi non appare in maniera completa e significativa. Ci sono ancora poche aziende strutturate nelle quali l’avvento della digitalizzazione ha prodotto diminuzione di manodopera ma che necessariamente è più qualificata. Come sindacato dobbiamo lavorare nella formazione ma anche alla necessità difendere l’occupazione. C’è il rischio dell’espulsione di vecchi lavoratori in cambio dell’assunzione di nativi digitali. Il nostro è stato finora un processo lento. Arriva la meccanizzazione quando negli altri settori la digitalizzazione è già il presente.

Che impatto avrà l’impiego dell’intelligenza artificiale?
Fra una rivoluzione industriale e la successiva ora passa sempre meno tempo, a breve vedremo gli effetti di quella legata all’intelligenza artificiale su cui poche imprese stanno investendo. Il settore più interessante e avanzato nei nostri ambiti è quello vinicolo. Ci sono aziende che investono sui filari gestiti dai computer che per anni raccolgono informazioni sui microclimi, sui colori del vino da ottenere e sul grado zuccherino preferito. Arriveremo presto al fatto che sarà il computer a sostituire l’agronomo, decidendo ora e giorno migliore per la raccolta, potendo elaborare milioni di dati. I piccoli robot cingolati che girano fra i filari imporranno una redistribuzione del lavoro con una settimana corta. A questo dobbiamo prepararci.

Si ha l’impressione che la politica, come il mondo dell’informazione non si rendano conto appieno dell’importanza fondamentale che riveste per il Paese il vostro settore. È così?
Sì ed è per certi versi incredibile. Con la guerra è partita una speculazione enorme sul grano. Noi siamo autosufficienti per quanto riguarda quello duro, importiamo solo quello morbido ma la liberalizzazione ha permesso di aumentare i prezzi quasi senza reazione. Accade perché secondo me non si comprende l’importanza e il valore dell’industria alimentare in Italia che divenuta la seconda manifatturiera dopo la metalmeccanica. Nel 2022 c’è stato un fatturato di oltre 180 mld di euro. Il cibo produce ricchezza che, secondo la Federalimentare è cresciuta in valore del 14%, questo si traduce in occupazione e parliamo di industria non di agricoltura. Il cibo che si produce muove il mondo.

Al vostro congresso il ministro Lollobrigida ha posto al centro della politica la sovranità alimentare. Come leggete questa espressione?
Se il senso diventa quello della “via campesina” siamo d’accordo. Si traduce nell’accesso al cibo buono e di qualità, nella scelta di garantire soprattutto con l’aumento della povertà. C’è la necessità di contrastare la massificazione della qualità. McDonald’s e altre multinazionali vendono cibo a tutto il mondo uniformando i gusti e abbassandone la qualità. Invece l’Italia è un esempio di varietà di prodotti e le aziende devono garantire una loro molteplicità che risponda alle biodiversità presenti in agricoltura. Recentemente si è cominciato a fare il pane solo col grano tenero perché ha maggior resa. Eppure eravamo il Paese che vantava 700 tipi di grano mentre ora ne restano fondamentalmente una decina. Mi sembra giusto che ogni Paese decida la qualità che vuole mantenere e in tal senso potremmo anche intendere la sovranità come difesa del cibo italiano. Ma questo dal nostro punto di vista va coniugato con la sicurezza e la certezza che questa qualità sia accessibile a tutti, non solo ai ricchi. Quindi ci stiamo alla sfida di produrre cibo sano e giusto che non provenga dallo sfruttamento dei lavoratori.

Intanto anche per chi in agricoltura lavora in regola, la condizione salariale è fra le peggiori d’Europa. Cosa propone come Flai Cgil?
Il tema dei contratti si è esasperato negli ultimi 2 anni a causa anche dell’inflazione. L’anno scorso il rinnovo ha permesso un aumento del 4,2% a fronte di un inflazione dichiarata del 12%, la più alta d’Europa. Sarà difficile avere un rinnovo perché dovremmo avanzare la richiesta di una redistribuzione della ricchezza prodotta. Molte imprese hanno trovato il modo per mettere al riparo i profitti dall’inflazione. I governi che si sono succeduti hanno aiutato più le imprese che i lavoratori. Siamo titolati a chiedere la redistribuzione della ricchezza prodotta non solo perché deve proteggere il potere d’acquisto ma lo faccia crescere. Il salario poi è definito in base a contratti provinciali. Col risultato che in molte aree del Paese chi lavora in agricoltura è sotto la soglia di povertà. I salari devono crescere ovunque più dell’inflazione reale. Per questo serve con urgenza una vera riforma fiscale che permetta questa redistribuzione intervenendo a favore della classe lavoratrice. Gli interventi fatti finora sono stati insufficienti: sul cuneo fiscale si doveva tagliare di 5 punti si è giunti a 2; la promessa tassazione delle rendite finanziare è bassa e inferiore a quelle da lavoro dipendente e potrei continuare.

Nonostante i miglioramenti al sud ma non solo è forte la presenza di manodopera immigrata, con pochissimi diritti e in condizioni di vita inaccettabile nei ghetti come Borgo Mezzanone e San Ferdinando. Come dovrebbero intervenire sindacato e politica?
Occorre la politica ma anche lo Stato che preveda una serie di azioni da parte di istituzioni, le sezioni territoriali della rete del lavoro agricolo di qualità. Ne dovrebbero far parte le associazioni datoriali, i sindacati, l’Inps, l’Inail, le forze dell’ordine, l’Ispettorato del lavoro ed altri attori, per svolgere un lavoro di prevenzione.

Che ne è della legge 199 sul caporalato?
Sta funzionando riguardo all’attività repressiva attraverso il monitoraggio e non passa settimana senza che ci siano arresti. Ma manca la prevenzione. Le sezioni di cui parlavo, su base provinciale, dovrebbero esistere dappertutto dal 2016 ma ad oggi sono attive solo in metà delle Province. Queste sezioni dovrebbero garantire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, fare da collocamento pubblico, garantire le politiche di accoglienza, offrire il trasporto dei braccianti. Questo va fatto territorio per territorio perché significa garantire quelle peculiarità finora offerte dal caporalato. Se ci si riesce si toglie l’acqua ai caporali. Quando lo Stato non presidia arrivano loro. Non avviene anche a causa delle resistenze dei detrattori di questa legge che pongono ostacoli soprattutto alla prevenzione. A volte le sezioni che nascono non funzionano bene, anche perché capita che le associazioni datoriali non si schierino con decisione per ripulire l’economia agricola da quelle imprese che fanno concorrenza sleale. Ci aspettiamo che siano loro a decidere senza equivoci quali imprese vogliono difendere. In questo quadro i lavoratori immigrati, in particolare quelli irregolari sono l’anello più debole della catena, quello più ricattabile e vulnerabile.

Il “decreto Rilancio” del giugno 2020, nella parte riguardante l’emersione del lavoro nero proposta dall’allora ministra Bellanova è stato un fallimento, soprattutto per chi lavora in agricoltura. Al di là delle carenze che conteneva, cosa si potrebbe fare oggi?
Il problema originario resta nella Bossi Fini che ha creato un pregiudizio e stigmatizzato l’immigrato considerato “soggetto illegale”. Se non cambia non ne usciremo mai. Le regolarizzazioni che si sono succedute, sotto il governo Monti e a seguire hanno lasciato appesi senza prospettiva tantissimi lavoratori. All’ultimo tentativo ha lavorato un ottimo sottosegretario, Matteo Mauri, ma è rimasto il fatto che deve essere il “clandestino” a chiedere al datore di lavoro di poter emergere, ovviamente pagando. Ora fra un lavoratore in nero e un datore di lavoro, dal punto di vista liberale, chi ha maggior forza? È difficile trovare un datore di lavoro che si autodenunci. In compenso si trovano tanti faccendieri che regolarizzano facendo pagare prezzi spropositati. Per come la vediamo noi deve essere il datore di lavoro che avanza la regolarizzazione guadagnandone attraverso meccanismi di premialità. Invece così tutto viene pagato da chi già è sfruttato. E poi c’è il vulnus, sempre della Bossi Fini del legame fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno. Il risultato è una legge profondamente razzista che non fa neanche incontrare regolarmente domanda e offerta di lavoro. Se non cambia il quadro di riferimento, la legge, le regolarizzazioni non bastano.

Con la pubblicazione del vostro ultimo rapporto avete  allargato la ricerca alla filiera delle carni?
È un ambito dove regnano appalti, subappalti e cooperative illegali. Accade anche nella logistica, nella ristorazione, nell’edilizia. Si tratta di un modo per le aziende di competere sui mercati che comprime i diritti e i salari di chi lavora danneggiando anche le aziende che rispettano i contratti. Si tratta di concorrenza sleale.

In Italia, come accade in altri Paesi europei, servirebbe un sindacato più determinato e protagonista, capace di confrontarsi tanto col governo che con i datori di lavoro?
Nel nostro Paese, la crisi dei corpi intermedi si è manifestata nei partiti ma anche nel sindacato che cerca di difendersi più o meno bene. Avvertiamo malessere anche nei nostri confronti e dobbiamo assumere la consapevolezza di essere stati sconfitti sul piano politico e culturale. Come i partiti rischiamo anche noi di divenire marginali. Questo è il risultato delle politiche liberiste che in 30 anni hanno portato a tentare di distruggere ogni forma di organizzazione sociale. Riusciamo a rialzarci quando, al pari dei partiti, riconquistiamo in toto la credibilità, mettendo a frutto il fatto che, a differenza di molti abbiamo le radici ben piantate. Nelle nostre sedi ci sono Case del Popolo, sto per andare a inaugurarne una nell’entroterra tarantino dove lo Stato arretra. Per troppo tempo siamo andati nei luoghi di lavoro parlando solo di contratti. Quando ero giovane da me il sindacato veniva a parlare di legge finanziaria, delle tasse, coinvolgeva delegati e iscritti ad essere protagonisti di un cambiamento sociale. Dovremmo riaffermare questo approccio, rendere le persone con cui parliamo partecipi di un sistema di valori, proponendo una visione di società al pari dei partiti anche se con compiti diversi. Noi abbiamo scioperato tanto contro il governo Draghi, sostenuto da forze di centro-sinistra che contro il governo attuale. E i nostri sono stati entrambi scioperi politici perché non condividiamo manovre di stampo neoliberista. La politica europea non è cambiata e il liberismo serve per togliere risorse ai poveri per darle ai ricchi, un Robin Hood al contrario che non possiamo condividere. Se non ricostruiamo un legame forte con i nostri iscritti per realizzare cambiamenti, soffriremo come i partiti politici di astensionismo o del fatto che tutto venga delegato.

Fra i vostri iscritti quanto è alta l’astensione alle elezioni?
Nelle assemblee capita di vedere persone stanche e passive, senza una visione di società che noi non riusciamo a volte a proporre. Non generalizzo ma nella sinistra sconfitta di cui parlo ci siamo anche noi e dobbiamo prestare attenzione a questo. Anche la politica deve aprire una riflessione seria. Se non capiamo, non ricostruiamo e continuiamo a riproporre soluzioni organizzative che non risolvono i problemi. Non basta candidarsi alle elezioni. Infatti il nostro elettorato di riferimento è astensionista, magari molti restano anche iscritti alla Cgil ma nel rapporto col sindacato non sono sufficienti i buoni contratti. Dobbiamo raccontare il mondo, sono rare le assemblee in cui diciamo quale è la società in cui vorremmo vivere. Un nostro dovere perché altrimenti non avrebbero ragione di esistere le nostre battaglie per la giustizia sociale. Un tempo il rapporto fra Cgil e Pci era di discussione nell’autonomia. Ma ai partiti politici molti lavoratori oggi dicono “basta”, sono disillusi e spaesati, troppo spesso abbandonati a loro stessi. Quindi non votano ed è sempre più difficile chiamare ad uno sciopero, soprattutto su questioni grandi come la sanità, la scuola, l’immigrazione. Guardando il flusso dei voti del settembre 2022 in molti sono andati a votare per il centro-destra perché, chi ci va, è arrabbiato. La maggioranza si è astenuta e si tratta di un problema nostro. Non è tutto così, nelle grandi fabbriche ancora teniamo e si riesce a garantire partecipazione agli scioperi, nelle altre realtà meno. Come sinistra penso che dovremmo, per tenere botta alle politiche neoliberiste, stare nelle piazze e contemporaneamente ricostruire la presenza nelle classi che vuoi rappresentare.

Per questo si siete riorganizzati anche come “sindacato di strada”?
Sì, stare fra gli ultimi, nei ghetti in cui vivono gli ultimissimi ma anche fra chi ha un contratto regolare o è impiegato. La Flai Cgil deve tenere insieme braccianti immigrati, forestali, pescatori, operai dell’industria alimentare. In quest’ultima che a volte è di eccellenza ci sono anche buone retribuzioni e premi di partecipazione. Il nostro compito è quello di tenere tutti insieme al di là delle tipologie contrattuali. L’unità salta perché sono troppo forti le differenze materiali e le condizioni di vita fra ognuno. Noi dobbiamo lavorare per piattaforme contrattuali che riguardino tutti contrastando lo sfruttamento, la piaga del sotto-salario che passa travestito dal divenire socio di pseudo cooperative.

Proprio per ottenere questo occorre maggiore radicalità?
Avendoci sbattuto il muso ti dico che non sono d’accordo. La radicalità non paga né i partiti né i sindacati. Da noi, non c’è la cultura come in Francia, degli scioperi ad oltranza. La nostra base di riferimento è tramortita dal neoliberismo che ci ha colonizzato la cultura, la psicologia, ci ha fatto entrare in testa che nella società si è soli. Mi capita di incontrare giovani che fanno fatica, come delegati Flai, perché sono poco politicizzati, non sanno praticare azione collettiva. Dobbiamo aprire una scuola politico sindacale, insegnare, affrontare la sconfitta culturale. Anche i nostri delegati sono bombardati dall’individualismo. Dobbiamo proporre valori come quello della solidarietà, poco raccontato perché altrimenti ti chiedono: “cosa mi porta lo sciopero?”. E forse dovremmo tornare a parlare dei fondamentali, cercando chiavi di lettura per questa società che è diversa da quella raccontata dalla comunicazione mainstream. Il sindacato se ne deve occupare, non diamo per scontato che i nostri delegati abbiano il nostro background e quindi vanno individuate anche le giuste modalità di comunicazione. Ma, tornando al rapporto fra radicalità politica e sindacale, se non realizzi la portata della sconfitta subita, scioperi ad oltranza e/o candidature, non producono altro che indifferenza. La nostra ambizione deve essere quella di non sostituirci ai partiti ma di avere i piedi ben radicati nelle classi sociali che dobbiamo organizzare, essere strumento utile per chi lavora. Io sono entrato nel sindacato criticando aspramente, ma quando sono finito in cassa integrazione senza sindacato sarei stato divorato. Questo valore va riscoperto anche dalle nostre burocrazie – termine a cui non do connotazione negativa – che devono riscoprire il proprio ruolo di essere al servizio di chi lavora.

Il Congresso nazionale della Cgil che ha ricevuto molte attenzioni e creato anche polemiche. Ha pesato troppo sul tono della kermesse?
Traggo un bilancio molto positivo dal nostro Congresso nazionale per diversi aspetti e non solo per la conferma del Segretario Generale. Ha avuto grande visibilità. Guardandomi indietro e pensando ai congressi passati, non c’era mai stata tanta attenzione da parte della società italiana. Anche nel congresso precedente eravamo molto più centrati su una riflessione che guardava noi stessi. C’era uno scontro fra gruppi dirigenti e non lo dico con una accezione negativa. Semplicemente l’organizzazione era più impegnata in un confronto interno che in un incontro con quanto avveniva fuori. Questo è stato intanto un congresso fortemente unitario in cui gli scontri sono stati sul merito. Lo Spi ha detto cose nette sulle pensioni, noi della Flai abbiamo espresso il nostro giudizio sulla guerra ecc…E poi abbiamo costretto le opposizioni in Parlamento a confrontarsi con noi rispetto ai temi del lavoro. Gli esponenti intervenuti non si sono potuti comportare come in un talk show, Maurizio Landini li ha chiamati a confrontarsi sul merito dei temi in discussione.

Riguardo alla partecipazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni?
Non è stata cosa da poco. Meloni è stata la prima, dopo il secondo governo Prodi, a venire al nostro congresso e questo va apprezzato. Lo abbiamo considerato come il riconoscimento di una grande organizzazione sindacale con cui il governo ha soprattutto punti di divergenza, ma quelli di centro-sinistra o i “tecnici”, non sono mai venuti. Io vorrei che ci riflettessimo con meno spocchia e guardando ai fatti. Noi abbiamo un ruolo nel Paese e abbiamo richiamato alle responsabilità tutti i partiti dell’opposizione parlamentare che non riescono spesso a convergere. Ma per un sindacato che deve difendere chi lavora non può valere una pregiudiziale ideologica. I ministri Lollobrigida e Urso ci hanno convocato per discutere della questione dello sviluppo del settore agroalimentare. Dobbiamo andare a discutere con loro per risolvere i problemi di coloro che vogliamo difendere. Non siamo un partito politico. Ora c’è il “decreto pesca” e il fermo biologico che imporrà una contrazione del settore. Con chi dobbiamo andare a discutere di ammortizzatori sociali? Con una fantomatica opposizione divisa che non ha mai interloquito con noi? Credo che oggi non abbia più senso parlare di governo amico e governo nemico. Noi siamo autonomi dai partiti, rivendichiamo la nostra autonomia sia rispetto a governi di centro-destra che di centro-sinistra. E voglio ricordare che l’articolo 18 ce lo ha tolto Renzi, i tagli ai patronati che ci hanno fatto chiudere in alcune aree interne, sono serviti a colpire stupidamente il sindacato e nascono dai governi di centro sinistra col Pd.

Quanto al rispetto alla pregiudiziale antifascista?
Questo governo ha giurato sulla Costituzione. La contraddizione casomai ce l’hanno loro, di certo noi no. Nel Paese ci sono post fascisti e post comunisti e questi ultimi, bisogna dirlo, non si sono poi dimostrati tanto amici dei lavoratori. Noi siamo un soggetto politico perché abbiamo una nostra visione della società fondata sulla giustizia sociale, sui principi di solidarietà, ma non ci vogliamo sostituire ai partiti. Aggiungo che questo governo ha una contraddizione al proprio interno. La “destra sociale” deve dimostrarsi più sensibile al lavoro ma non esce in campo. Il risultato, per fare un ultimo esempio è la flat tax con cui si toglie ai poveri per dare ai ricchi. Proveranno ad aggiustare i prelievi per quanto riguarda le aliquote più basse ma alla fine ai lavoratori e alle lavoratrici lasceranno solo spiccioli. Se ne avvantaggerà chi ha redditi più alti. Noi dobbiamo parlare di questo e affrontare tali nodi se vogliamo incidere nella società e riprovare a cambiarla. Anche per questo credo che avremo una Cgil capace di assolvere ai compiti per cui è nata.

Con una percentuale che un tempo avremo definito “bulgara” (97,8%) al termine di un affollato congresso che si è chiuso il 9 febbraio scorso, lei Giovanni Mininni è stato confermato segretario generale della Flai Cgil. La 3 giorni congressuale è stata aperta con l’intervento di due donne, provenienti dall’Iran e dall’Afghanistan. Un segnale importante.
L’idea è nata dal fatto che bisognasse dare una scossa iniziale all’assemblea delle delegate e dei delegati. Nessuno fuori ne era al corrente e nessuno si aspettava che da un uomo partisse tale iniziativa. Loro sono state straordinarie ma a me è sembrato semplicemente necessario il loro intervento duplice sia perché oggi si parla di Iran ma l’Afghanistan è quasi dimenticato e poi perché le loro testimonianze non possono restare relegate nelle assemblee e nei luoghi delle donne. Io non voglio che il nostro sindacato sia compartimentato in file: donne, caporalato, lavoro nero ecc.. Quando discutevamo il documento della Cgil sulla questione delle pari opportunità io ho insistito anche attraverso gesti apparentemente solo simbolici come quello che hai visto, perché di tale questione si facciano carico anche gli uomini. Ritengo importante l’assemblea delle donne ma voglio che anche gli uomini prendano parola per rivedere sé stessi e i rapporti di potere che si stabiliscono anche nel sindacato. E vorrei che si ragionasse anche su quante volte, anche le donne riproducono le stesse modalità di gestione del potere, e di quanto si subisca la fascinazione del potere dominante. Bisogna essere franchi, da noi il potere esiste e bisogna trovare il modo di esercitarlo in maniera diversa, non prevaricatoria.

POLITICA  NAZIONALE   POLITICA ITALIANA 

 

25/03/2023

da La Notizia 

Giorgia Martini

 

Meloni in europa è una débâcle e ora balla il Recovery plan. Sul Pnrr Giorgia rischia grosso e il Colle la mette “alla stanga”

Giorgia Meloni che da Bruxelles ribadisce che “no, non vedo assolutamente rischi” che l’Ue non paghi la terza tranche del Pnrr da 19 miliardi ricorda tanto i musicisti che continuavano a suonare mentre il Titanic affondava.

Si moltiplicano, infatti, i report, da quello della Corte dei conti – anticipato da il Sole 24 ore – a quello di Openpolis sui ritardi che l’esecutivo sta accumulando nella messa a terra del Piano nazionale di ripresa e resilienza e aumentano gli allarmi e gli inviti da parte delle istituzioni a non perdere più tempo prezioso.

Il monito Meloni

Ultimo in ordine di arrivo quello del Colle. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, concludendo il suo intervento alla Conferenza nazionale delle Camere di commercio, a Firenze, ha detto testualmente: “Nel ringraziarvi per il vostro impegno, mi permetto di rivolgere a voi l’invito che, in un contesto ben diverso, Alcide De Gasperi rivolse nel dopoguerra, quando occorreva ricostruire l’Italia dalle macerie e, insieme, edificare un’autentica democrazia. È il momento per tutti, a partire dall’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, di ‘mettersi alla stanga’”.

Solo qualche giorno prima, provocando l’ira della Lega, il commissario Ue, Paolo Gentiloni, aveva detto che la realizzazione del Pnrr è più importante del Ponte sullo stretto e della flat tax.

E, sebbene la premier abbia cercato di scaricare i ritardi accumulati sul Pnrr su chi l’ha preceduta, a inchiodarla alle sue responsabilità ci sono report e analisi di tutto rispetto, come dicevamo.

L’Italia è in attesa dell’esito dell’ultima richiesta di finanziamento, inviata alla Commissione europea il 30 dicembre 2022, insieme alla documentazione che dovrebbe provare il raggiungimento delle 55 scadenze europee che erano previste per il secondo semestre del 2022.

Tuttavia – dice Openpolis – non risultano completate 13 scadenze su 55. E su questo sarebbero in corso le verifiche di Bruxelles che giustificherebbero il ritardo nell’erogazione della terza tranche. La situazione è fosca anche per questo primo scorcio di anno. E qui ha poco Meloni da incolpare Draghi.

Alla fine del primo trimestre di quest’anno, cioè il 31 marzo, il nostro Paese dovrebbe conseguire 12 scadenze di rilevanza europea. Cioè le uniche oggetto di controllo da parte della commissione e quindi vincolanti per la ricezione dei fondi. Ma anche qui in base alla attività di monitoraggio di Openpolis, nessuna scadenza Ue del primo trimestre risulta a oggi completata dal governo.

Che rischierà di trovarsi ingolfato considerando che per il secondo trimestre del 2023 ci saranno altre 15 nuove scadenze da raggiungere. Allarmante il bilancio che la Corte dei Conti presenterà nelle 386 pagine della relazione semestrale al Parlamento martedì prossimo e che il Sole 24 Ore ha anticipato.

Basta un numero per rendere l’idea: ad oggi è stato speso solo il 6% dei fondi del Pnrr. Da qui l’ansia del governo di ridiscutere il Piano con Bruxelles. L’obiettivo è traslitterare alcuni progetti dal Pnrr alla programmazione della politica di coesione 2021-2027.

In tal modo, di fatto, l’attuazione del progetto avrebbe tre anni in più per essere completata. La deadline dei target e delle riforme stabilite dal Recovery fund è nel 2026, quella per la spesa dei fondi europei di Coesione arriva fino a due anni dopo il settennato in corso, ovvero il 2029.

“Dalla commissione europea non c’è nessuna ossessiva rigidità, considerato che sono stati rivisti i piani di tre Paesi. Si negozia e si fanno le correzioni necessarie”, ha precisato Gentiloni. Ma la trattativa non è affatto facile e i ritardi accumulati dal governo potrebbero anche essere troppi ed esaurire la pazienza di Bruxelles.

POLITICA NAZIONALE   POLITICA ITALIANA 

 

24/03/2023

Maurizio Acerbo, segretario nazionale e Elena Mazzoni, segretaria federazione di Roma del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea

 

Anche oggi Giorgia Meloni non è riuscita a condannare il nazifascismo. Non le riesce proprio.

Nel 79° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine facciamo presente al presidente del consiglio Giorgia Meloni che definirla meramente come una strage “di italiani” è un modo per distorcere la memoria storica.

Le vittime dell’eccidio furono selezionate tra ebrei, comunisti e antifascisti a cui furono aggiunti dei detenuti comuni nella confusione di quel momento storico.

 

A fornire ai tedeschi i nominativi fu il questore della Repubblica Sociale di Salò Pietro Caruso, cioè l’incarnazione del fascismo nella capitale.

Dopo la liberazione della capitale Caruso fu condannato e giustiziato. La Repubblica di Salò al nord lo celebrò come innocente martire fascista: “Caruso è stato condannato per la sua fede e la sua qualità di fascista”.

I fascisti – compreso il loro fucilatore di italiani Giorgio Almirante – erano schierati dalla parte di Hitler e delle truppe di occupazione tedesche contro i patrioti partigiani che combattevano per liberare l’Italia dalla barbarie e dalla dittatura.

 

COMMENTI

 

19/03/2023

da La Notizia

Gaetano Pedullà

 

Dopo che gli squadristi di estrema destra sono riusciti a devastare la sede della Cgil, ci ha pensato ieri la Meloni a completare l’opera, con un comizio che ha ammutolito la sala di un sindacato così sdraiato da non rispedire istantaneamente al mittente le sciocchezze della premier.

Dalla riforma fiscale che rispetta chi guadagna meno (è l’opposto) ai sostegni per le donne (hanno tagliato i fondi), col contorno delle solite promesse da talk show, la premier ha curvato a suo piacimento le politiche più devastanti per i ceti fragili del Paese dai tempi di Renzi e del Jobs Act.

Ma su un punto ha raggiunto il livello più grottesco, quando ha difeso l’abolizione del Reddito di cittadinanza, mettendo i lavoratori contro i disoccupati, perché i primi con i loro contributi sostengono i nullafacenti, a partire da quelli di lunga durata, che dopo tre anni di sussidio si ostinano a non trovare un’occupazione.

Col passare del tempo – ha detto – gli sfaticati di cui sopra escono sempre di più dal mercato del lavoro, e dunque diventano più poveri, pur percependo un aiuto dallo Stato. Perciò il governo metterà a lavorare tutti, e ripartirà l’ascensore sociale per chi è ai margini. Ma arrivati già a ridosso della fine del sussidio non c’è traccia dei corsi di formazione o di questo lavoro da creare miracolosamente.

Quindi, lasciando chi non ha niente nell’assoluta povertà, l’ascensore sociale partirà senz’altro ma per portare milioni di italiani ancora più in basso. Lì dove la destre per il momento campa ancora di slogan, e poi da luglio chi potrà si arrangi.

POLITICA NAZIONALE POLITICA ITALIANA

 

18/03/2023

da Il Manifesto

Massimo Franchi

 

TERZO GIORNO DEL CONGRESSO CGIL. Un solo applauso: al ricordo dell’assalto della sede. «Ma ora tolga la fiamma dal simbolo». Dopo il comizio, incontro faccia a faccia con Landini che dura 40 minuti. Il segretario esce soddisfatto ma nessuna indicazione sul contenuto. Sarà il tempo a mostrare chi ha vinto

 

«Il primo presidente del consiglio in 27 anni a un congresso della Cgil». Nella frase con cui Giorgia Meloni sottolinea il carattere «storico» del suo discorso dal palco di Rimini sta tutta l’unicità politica e sindacale italiana. Da 27 anni la politica non si confronta con il sindacato. E, ancor più grave, sono stati i governi di centrosinistra a non farlo. Arrivando alla rottamazione e alla disintermediazione propugnata da Renzi.

IN QUESTO CONTESTO Giorgia Meloni ha avuto gioco facile. Fosse stata fischiata, avrebbe potuto fare la vittima. La gelida accoglienza dei 986 delegati Cgil invece le ha, sì, consentito di mostrare all’esterno il suo programma che cerca di convincere anche i ceti popolari della bontà della sua ricetta, ma ha mostrato come la stessa Cgil sia la sola capace di fare opposizione in questo disgraziato paese. E la prospettiva è che l’opposizione si intensificherà a breve con la mobilitazione contro la delega fiscale insieme alla Uil e (si spera) alla Cisl.

Maurizio Landini da parte sua aveva denunciato da settimane la sfida di Meloni: «Considerare il sindacato come una delle tante lobby corporative che difende interessi particolari». Ieri «ascoltando» Meloni, ha portato a casa la legittimazione a potersi «confrontare» con la presidente del Consiglio in un incontro faccia a faccia di oltre 40 minuti i cui contenuti sono sotto stretto riserbo ma da cui Landini esce soddisfatto. Il tempo mostrerà da che parte pende la bilancia dei vantaggi fra i due.

LA MEZZ’ORA DI DISCORSO di Meloni è stato un condensato di cosa sia la destra in economia con due gravi e volute omissioni: il tema dei migranti e l’autonomia differenziata.

Durante il comizio la platea Cgil mostra una freddezza glaciale. L’unico timido applauso arriva quando Meloni ricorda l’assalto alla sede nazionale del sindacato. Omettendo però totalmente la parola «fascista».

Per il resto la premier sciorina tutto il repertorio del liberismo conservatore in salsa Visegrad. Sul salario minimo, terreno su cui le opposizioni dopo il confronto di giovedì potrebbero costruire un fronte comune per sfidare il governo, Meloni è un muro: «Non è la strada giusta», indicando la ricetta «dell’estensione della contrattazione collettiva» che chiedeva la Cisl.

Il riferimento alla «cittadella di garantiti impermeabile a chi rimane fuori» che sarebbe l’attuale sistema di ammortizzatori sociali, promettendo di estendere tutele a tutti è populismo puro: senza risorse si tradurrà in un taglio.

L’ATTACCO PIÙ DURO è per il Reddito di cittadinanza. Meloni rivendica come «doverosa» l’abolizione per chi è «in grado di lavorare: non credo debba essere mantenuto dallo Stato», attaccando indirettamente i sistemi di welfare di quasi tutta Europa. La ricetta in questo caso è trovare lavoro a tutti: come non si sa.

Si passa poi alla difesa della riforma fiscale varata giovedì dal consiglio dei ministri ieri e «frettolosamente bocciata da alcuni»: Landini mercoledì ne aveva chiesto l’immediato ritiro.

Per Meloni la riduzione da quattro a tre aliquote favorirà i ceti più popolari e non solo il ceto medio e la flat tax lascerà la progressività mentre la sua versione «incrementale» per i dipendenti favorirà «il merito».

Pedretti (Spi): solo balle su fisco e non autosufficienza De Palma (Fiom): subito mobilitati


Insomma, la favola che il governo Meloni vuole bene ai lavoratori. Anche se in realtà persegue solo gli interessi del suo elettorato: imprenditori, commercianti, artigiani ed evasori a cui «la semplificazione della riforma» regalerà sonni tranquilli.

IERI LANDINI NON HA commentato il discorso – lo farà oggi – lasciando agli altri segretari di categoria la risposta della Cgil. «La premier Meloni è venuta qui provando a lisciarci ma in realtà ha raccontato un po’ di balle – ha attaccato dal palco il segretario dei pensionati dello Spi Ivan Pedretti – . Le ha raccontate sul fisco, perché non è vero quello che dice lei, e i pensionati su quella riforma lì pagheranno un prezzo altissimo. Ha raccontato una bugia sul fatto che la legge sulla non autosufficienza l’avrebbe fatta lei e invece l’ha fatta il governo Draghi. E se è vero che è solidale contro l’attacco alla Cgil allora che cancelli la fiamma dal simbolo del partito e rientri in un’area liberal democratica e allora tutto sarà più semplice e anche più democraticamente assorbibile», ha chiuso Pedretti.

Per il segretario degli edili della Fillea Alessandro Genovesi «se qualcuno vuole capire la differenza tra chi difende il lavoro e chi la rendita, basta mettere a confronto le proposte della Cgil e quelle fiscali o sociali del governo», mentre il segretario della Fiom Michele De Palma annuncia già «un percorso di assemblee nei luoghi di lavoro, fino alla mobilitazione generale».

POLITICA NAZIONALE   POLITICA ITALIANA  

 

17/03/2023

da La Notizia

di Giorgia Martini

 

Una nuova Irpef con tre aliquote. Iva azzerata per i beni di prima necessità. Stop alle comunicazioni nei mesi di agosto e dicembre. Ma soprattutto campo libero agli evasori. Il governo Meloni nella delega con cui si propone di rivoluzionare il fisco, approvata ieri dal Consiglio dei ministri assieme al decreto che fa resuscitare il Ponte di Messina, riesce a infilare quello che in Manovra non era riuscito a far passare. Ovvero depenalizza l’evasione “di necessità” e ammorbidisce le sanzioni per il reato di dichiarazione infedele.

Il governo Meloni nella delega con cui si propone di rivoluzionare il fisco riesce a infilare quello che in Manovra non era riuscito a far passare.

Insomma dopo aver già varato condoni e sanatorie ora Meloni e i suoi spalancano praterie a chi non ha alcuna intenzione di pagare le tasse. La riforma si propone, a parole, di instaurare un rapporto tra contribuenti e amministrazione finanziaria nella logica di un dialogo: il cosiddetto ‘Fisco amico’. Ma opposizioni e i sindacati, che già evocano la piazza, ci leggono, nei fatti, solo condoni e favori ai più ricchi.

“Io mi sono rotto le scatole – dice senza giri di parole il segretario Cgil, Maurizio Landini – non ci sto più che sono io che pago le tasse anche per quelli che non le pagano, quando le potrebbero pagare più di me”. “È una baggianata dire che si abbassano le tasse a tutti”: così si “favorisce chi sta meglio, chi ha redditi più alti vedrà maggior guadagno”, va all’attacco la segretaria del Pd, Elly Schlein. “È una riforma recessiva”, denuncia il leader M5S, Giuseppe Conte, pronto a scendere in piazza con i sindacati.

Il provvedimento del governo riscrive l’intero sistema fiscale

Il provvedimento del governo riscrive l’intero sistema, dai tributi ai procedimenti e sanzioni, fino ai testi unici e codici. Per renderlo operativo servirà l’approvazione del testo-cornice dal Parlamento e poi il varo dei decreti delegati – si prevede un orizzonte di due anni – che dovranno contenere anche le coperture finanziarie, che in parte dovrebbero derivare dalla revisione delle attuali 600 tax expenditures: sconti, agevolazioni, bonus.

Confermata la nuova architettura dell’Irpef, con la riduzione delle aliquote da 4 a 3. E se la flat tax per tutti resta un obiettivo di legislatura, per i dipendenti arriva la flat tax incrementale. Per le imprese arriva la nuova Ires a due aliquote per far pagare di meno chi più assume ed investe; si punta poi al graduale superamento dell’Irap con priorità per le società di persone, gli studi associati e le società tra professionisti.

Ci sarà il concordato preventivo biennale e un rafforzamento dell’adempimento collaborativo: “Si riscrivono le regole della lotta all’evasione fiscale – dice il Mef – che diventa preventiva e non più repressiva”. Che tradotto significa liberi tutti con la riscrittura di tutto il sistema sanzionatorio. Per le sanzioni penali si userà l’occhio di riguardo per chi si trova impossibilitato a pagare il tributo per fatti a lui non imputabili: nella valutazione della “rilevanza penale” del fatto si terrà conto anche dei casi in cui siano stati raggiunti accordi in sede amministrativa e giudiziaria.

Sanzioni annacquate per il reato di dichiarazione infedele e agevolazioni a chi dichiara di non poter pagare

È previsto poi un alleggerimento delle sanzioni penali, in particolare quelle connesse al reato di dichiarazione infedele, per le imprese che aderiscono alla ‘cooperative compliance’, e che hanno tenuto comportamenti non dolosi e lo comunicano subito al Fisco. Altro effetto “premiale” per chi aderisce all’adempimento spontaneo è l’ulteriore riduzione delle sanzioni amministrative (che può arrivare fino all’integrale non applicazione) per i rischi di natura fiscale comunicati preventivamente in modo “tempestivo ed esauriente”.

SANITA' ED AMBIENTE    

 

14/03/2023

da Il Fatto Quotidiano

di Francesco Lo Torto

 

Dopo la lettera-ultimatum con cui quasi 300 professionisti della Toscana hanno minacciato di dimettersi se non dovessero cambiare le cose, alcuni di loro raccontano a ilfattoquotidiano.it come sono costretti a lavorare ogni giorno: dalle barelle ammassate alla scarsa igiene e le attese infinite. Le testimonianze dall'ultima frontiera della sanità pubblica.

 

“Non vogliamo che ci diano più soldi. Vogliamo non sentire più un paziente lamentarsi della sua sofferenza, dopo che da due giorni è sdraiato su una barella in corridoio perché non ci sono posti letto nei reparti”. Paolo (nome di fantasia) è un medico toscano di quasi cinquant’anni. Circa 16 anni fa ha scelto di lavorare in Pronto soccorso. Da allora ha assistito al progressivo demansionamento del suo ruolo e allo smantellamento graduale della medicina d’urgenza. È uno dei firmatari della lettera-ultimatum inviata a governo e Regione per denunciare la crisi in cui versano i Pronto soccorso toscani e di tutto il Paese. “O le cose cambieranno o ci dimetteremo in massa”, hanno scritto 288 camici bianchi, rappresentativi del 90% dei professionisti dei reparti di emergenza-urgenza della Regione. Un documento che non è solo una protesta, ma un manifesto nato dal basso per portare l’attenzione sulla mancanza di personale, la carenza di posti letto e l’assenza di strutture di medicina territoriale in grado di diminuire l’afflusso. I 288 medici hanno scavalcato politica e sindacati per chiedere condizioni di lavoro sostenibili e standard di cura dignitosi per i loro pazienti. E ora non vogliono che la luce si spenga di nuovo.

 

“Non posso dire il mio vero nome, né l’ospedale in cui lavoro, altrimenti domani arriva la direzione a mettermi pressione tramite il primario. I direttori sanitari non vogliono che vengano fuori i problemi, rischierebbero di fare una figuraccia politica”. Paolo spiega al fattoquotidiano.it che, a suo parere, la strada è ormai tracciata: “La sanità pubblica raggiungerà un livello talmente basso da rendere automatica la definitiva privatizzazione. Sta già avvenendo”, dice. Per questo l’aumento di stipendio, individuato dalla politica come la soluzione per mettere a tacere le proteste, è visto solo come un contentino: “Non è che se mi dai mille euro in più sto zitto. Non risolvi la mancanza dei posti letto, o dei farmaci, alzandomi la paga. Tantomeno riduci gli accessi impropri senza filtro ai pronto soccorso”, continua il medico. “La minaccia di dimettersi in massa, che abbiamo inviato alle istituzioni, è una provocazione. Amiamo il nostro lavoro. Ma soprattutto lo conosciamo, a differenza dei direttori sanitari. Loro non hanno mai esercitato, sono lì grazie a una nomina politica. Questo ha trasformato la sanità in un tema squisitamente elettorale. Dopo aver ottenuto il loro piatto caldo, se ne sono fregati”, attacca.

 

Sono i medici, insieme agli infermieri e agli Oss, a fronteggiare la crisi tutti i giorni. Quotidianità fatta di pazienti, soprattutto anziani e cronici, lasciati anche per giorni sulle barelle nei corridoi, in attesa di un posto letto che non c’è. Le persone vanno incontro a deliri da ospedalizzazione, a piaghe da decubito e versano in condizioni igieniche scarse. Inoltre, non hanno accesso al vitto. Questo, infatti, non è previsto dai pronto soccorso perché sono pensati per essere unità operative in cui i pazienti non dovrebbero rimanere a lungo.

 

“Se non erano i parenti a provvedere al cibo, il nostro ospedale offriva ai malati dei panini con il prosciutto. Davano il pane con la crosta a gente che non aveva neanche i denti o che aveva difficoltà a deglutire”: a parlare è Valerio. Anche lui ha scelto l’anonimato per proteggersi dalle ritorsioni. Lavora in un’altra provincia rispetto a Paolo ma, al di là di alcune specificità, la situazione è la stessa. “Noi abbiamo uno stanzone, una sorta di limbo, con 45 persone sdraiate in barelle a poca distanza l’una dall’altra. Neanche un metro – racconta Valerio -. Si lamentano e chiedono aiuto a infermieri e Oss, il cui carico di lavoro è già insostenibile. Deontologicamente parlando è tremendo assistere. Non sono cose degne da paese del G7”. Ogni ospedale prova ad arrangiarsi e a dare qualcosa da mangiare a chi sta aspettando un posto letto nei reparti. Anche perché l’alimentazione è importante per la cura. Perlopiù riescono a distribuire qualche cracker o delle fette biscottate con un tè. A Firenze c’è chi, quando è di turno, ordina le pizze da asporto e distribuisce le fette ai pazienti presenti. “Se i soldi, invece di proporre di darli a me per comprare la mia omertà, li dessero al sistema, non saremmo costretti a questo”, sbotta Valerio. Anche perché a rimetterci sono soprattutto i pazienti. “Le loro condizioni sono peggio delle nostre – continua -. Noi dopo un turno sfinente e svilente torniamo a casa. Loro no”.

 

Si lavora tanto, male, in luoghi non adeguati. L’errore è dietro l’angolo. Alla frustrazione si aggiunge il fardello di poter avere preso una decisione sbagliata. Anche Mario (nome di fantasia) ha firmato la lettera: “Dentro i pronto soccorso c’è gente bravissima, professionalità che ci invidia il mondo intero. Ma ci stanno costringendo a rinunciare”. Mario porta la sua esperienza di medico d’emergenza-urgenza da oltre 16 anni. “Rispetto a quando ho iniziato, la situazione è molto peggiorata. Ora ai pronto soccorso arriva tutta la richiesta della sanità pubblica, senza filtro”. Spiega che non gli fa paura lavorare, fare le notti o i weekend. “Certo, una volta vorremmo poter finire le ferie di un anno”, specifica, “ma soprattutto vogliamo fare il nostro lavoro. Ovvero i medici d’emergenza. Il nostro ruolo dovrebbe essere quello di stabilizzare le urgenze. Invece, la maggior parte del tempo facciamo altro. Rimandiamo cose che dovrebbero essere priorità per noi. Ci occupiamo di pazienti cronici che hanno un dolore addominale da 10 anni e arrivano in pronto soccorso perché non sanno dove andare”. Ed è qui che il privato intercetta il bisogno. Dove non arrivano i medici di base e la medicina territoriale, arriva la visita domiciliare a pagamento, per chi può permettersela. Per gli altri, c’è il pronto soccorso. Praticamente gratis e sempre a disposizione.

 

Così, di anno in anno si moltiplicano i casi di camici bianchi che mollano. Chi passa al privato, lavorando di meno e guadagnando di più, chi prova a cambiare ospedale, e chi decide che preferisce fare tutt’altro e si trasferisce in un altro reparto. Ad aprile nell’ospedale di Paolo andranno via altre quattro persone. La carenza di personale è gravissima, spiega, soprattutto alla luce di tutte le mansioni extra che il sistema sanitario delega ai medici di pronto soccorso. “I professionisti vanno in burnout dopo neanche 20 anni di attività e si licenziano. Magari vanno in Veneto a fare i gettonisti, pagati a peso d’oro con i soldi pubblici”, si lamenta Paolo. Chi resta prova a resistere, prende tempo per vedere se ci saranno dei cambiamenti. Ma, almeno una volta, ci ha già pensato a mollare tutto. Il rischio è che a lavorare nell’urgenza restino solo persone che in realtà vorrebbero fare altro. A cui “tocca”, però, fare questo, come dice Paolo: “Alla prima occasione cercheranno altro e andranno via. Non resterà più nessuno”, conclude.

 

I pronto soccorso sono diventati la prima frontiera della sanità pubblica. E chi ci lavora è d’accordo sul fatto che perdere questa battaglia avrebbe ripercussioni gravi su tutto il sistema. “Nei Paesi in cui non c’è la sanità pubblica è un disastro”, riflette Mario, ricordando le sue esperienze di cooperazione all’estero. E conclude: “Con la pandemia ho pensato che si fosse capita questa cosa. Senza il Sistema Sanitario Nazionale sarebbero morte chissà quante persone. Invece, sono passati tre anni e non è cambiato nulla. È tutto sempre meno sostenibile. Rimanere a lavorare in condizioni come queste è masochismo. Non basterà un aumento di stipendio per tenere insieme i cocci”.

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