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POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

22/11/2022

DA Sbilanciamoci

Gianfranco Viesti, Massimo Villone

 

Un’Italia disunita, con l’autonomia differenziata delle Regioni, è la prospettiva che si apre con il governo Meloni. Per fermarla, si può firmare per una legge d’iniziativa popolare che cambi gli articoli 116 e 117 della Costituzione.

 

Il 10 novembre si è ufficialmente avviata la raccolta delle firme per una legge di iniziativa popolare di riforma degli articoli 116 e 117 della Costituzione. L’iniziativa è di un gruppo di cittadini che fanno riferimento al Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, con primo firmatario Massimo Villone; all’iniziativa hanno aderito i sindacati della scuola. Sarà necessario raccogliere 50.000 firme entro sei mesi affinché la proposta abbia validità e possa essere trasmessa al Parlamento per la discussione.

 

La proposta è un’iniziativa politica e giuridica anche in risposta alle richieste avanzate da alcune regioni, a partire dal 2017, di applicazione del terzo comma dell’articolo 116, attuando forme di autonomia regionale differenziata. Richieste che sono state con il governo Conte I vicinissime a concretizzarsi. E che sono tornate di strettissima attualità con il governo Meloni. La Presidente del Consiglio ha annunciato nel suo discorso programmatico alle Camere la volontà di concretizzare la concessione di maggiore autonomia. Ha affidato la materia al Ministro leghista Roberto Calderoli, da sempre collocato su una linea politica identica a quella dei presidenti leghisti delle regioni Lombardia e Veneto, Fontana e Zaia. Calderoli ha fatto circolare una bozza di “legge quadro” sulla materia e l’ha illustrata il 17 novembre scorso alla Conferenza delle regioni. È determinato a procedere nella maniera più rapida possibile. Si vedrà che esito avrà questa iniziativa. Il partito dei Fratelli di Italia viene da una cultura politica molto diversa da quella della Lega, di ispirazione centralista. Non a caso l’attuale Presidente Meloni aveva presentato nella XVII Legislatura un disegno di legge costituzionale che prevedeva l’abolizione dell’articolo 116 e con esso di ogni “specialità” regionale. D’altra parte, le forze di opposizione, in particolare il Partito Democratico, non hanno mai espresso una netta opposizione a queste richieste, anche perché uno dei principali esponenti politici di quel partito è il presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che è uno dei promotori dell’iniziativa delle regioni.

 

Le richieste delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono a nostro avviso assai negative e pericolose. Non si tratta di questioni amministrative; al contrario esse potrebbero, se approvate, ridisegnare radicalmente l’assetto dei poteri della Repubblica e influire pesantemente sui diritti di cittadinanza degli Italiani. Questo, per tre profili. Nel merito, le regioni chiedono competenze estesissime: praticamente tutte quelle teoricamente concedibili. In materie fondamentali come l’istruzione, la sanità, le infrastrutture, l’energia, l’ambiente e molte altre. Stiamo parlando della regionalizzazione della scuola pubblica italiana e della cancellazione (con l’attribuzione di competenze esclusive alle regioni) del Servizio Sanitario Nazionale. In secondo luogo, Lombardia e Veneto da sempre chiedono di ottenere molte più risorse di quante lo Stato oggi spenda per le stesse funzioni nei loro territori. Questo avverrebbe ignorando le prescrizioni della legge 42/2009, disegnando un modello finanziario ad hoc, di favore; soprattutto non definendo i livelli essenziali delle prestazioni (articolo 117.2.m della Costituzione) cioè i diritti di cittadinanza di ogni italiano. Infine, Calderoli immagina (come prima di lui la ministra Stefani del governo Conte I) un percorso che esautora il Parlamento (ridotto a parere consultivo e mera ratifica finale a scatola chiusa); consegna tutti i poteri ad oscure Commissioni paritetiche fra lo Stato e le regioni interessate; rende le intese immodificabili in futuro senza il consenso delle regioni interessate e impedisce di richiedere un referendum popolare per la loro eventuale abrogazione.

 

Il disegno di legge costituzionale da noi presentato non prevede una riscrittura radicale del Titolo V, così come riformato nel 2001. L’equilibrio dei poteri fra Stato, regioni, Enti Locali e i meccanismi di finanziamento di questi ultimi sono materia assai articolata e complessa, che richiede una riflessione attenta e un ampio e approfondito dibattito, tanto sui principi ispiratori quanto sull’effettivo funzionamento del paese dal 2001 in poi. L’attuazione di quel testo è d’altra parte ancora in corso, con la lentissima e parziale attuazione in particolare dei meccanismi finanziari previsti dalla legge 42. Non si può realisticamente proporre di cancellare venti anni di applicazione del Titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti politici e istituzionali del paese, oltre che modellato gli apparati pubblici centrali e periferici: una proposta in tal senso, a nostro avviso, non avrebbe alcune concreta possibilità di approvazione.

 

Quello che si è pensato realisticamente di fare è stato individuare i punti di maggiore sofferenza e pericolo per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito 2017-2019 sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia. Una riforma chirurgica, orientata a correggere errori manifesti, ed a prevenire danni ulteriori.

 

I punti su cui si concentra la proposta sono tre. Il primo riguarda la riscrittura del terzo comma dell’articolo 116, che è quello che consente alle regioni a statuto ordinario di fare richiesta di nuove competenze, relativamente ad un elenco di materie contenute nell’articolo 117, fra quelle di competenza statale o di competenza concorrente. Il secondo riguarda la parziale riscrittura proprio dell’elenco delle materie (a competenza esclusiva dello Stato, a competenza concorrente, a competenza esclusiva delle regioni), con lo spostamento di alcune di esse dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato. Il terzo l’introduzione, nello stesso articolo 117, di una clausola di supremazia a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica.

 

Nell’articolo 116 al terzo comma viene inserita una diretta connessione con una specificità territoriale, come requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari” di autonomia. Come ricordato, le attuali richieste abbracciano un gran numero di materie a prescindere da qualsiasi connotazione territoriale, giungendo a una sostanziale stravolgimento dello stesso articolo 117. Il tutto in base a una trattativa tra Governo e singole regioni tradotta in un’intesa. Inoltre, si interviene sul procedimento di formazione della legge che concede la maggiore autonomia. Attualmente si prevede l’iniziativa della regione interessata e l’approvazione con legge a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata. È evidente la pericolosità di una procedura che potrebbe vedere una momentanea sintonia politica tra una o più regioni e il governo nazionale, favorevole al riconoscimento di particolari vantaggi a danno di altre regioni, anche considerando che la maggiore autonomia potrebbe comportare anche vantaggi finanziari. Inoltre, una regione beneficiaria avrebbe un sostanziale potere di veto su qualsiasi modifica successiva. Potrebbe essere difficile o impossibile eliminare condizioni di privilegio introdotte. Va quindi superato il modello fondato sull’intesa, riconducendolo ad un parere della regione interessata nell’ambito del procedimento di formazione della legge di approvazione.

 

Inoltre, come accennato, la legge approvativa dell’intesa rimarrebbe anche sottratta alla possibilità di un referendum abrogativo. Si introduce così la possibilità di un riscontro referendario, che offrirebbe a tutti i cittadini il potere di esprimersi su una riforma che comunque, modificando il funzionamento del paese, li riguarda. A tal fine viene previsto un referendum sul modello dell’art. 138 per la legge costituzionale, giustificato perché la maggiore autonomia tocca gli assetti generali del rapporto Stato-regioni e un referendum abrogativo con riferimento all’articolo 75. 

 

La proposta sull’articolo 117 esclude dal catalogo delle competenze concorrenti (terzo comma) e inserisce nell’elenco delle materie a potestà esclusiva statale (secondo comma) alcune materie che si ritengono strategiche per l’unità del paese. In primo luogo, la tutela della salute, per rafforzare il servizio sanitario nazionale, insieme a scuola, università e ricerca, la cui disciplina uniforme è strategica per l’unità della Repubblica. Ancora, materie relative alla infrastrutturazione materiale e immateriale, rilevanti sotto il profilo di diritti individuali, dell’eguaglianza, e dell’efficienza complessiva del sistema-paese.

 

Ovviamente, l’inclusione nel catalogo delle potestà esclusive non comporta di per sé il raggiungimento di obiettivi di eguale tutela dei diritti e di perseguimento dell’eguaglianza. Ma dovrebbe impedire a singole regioni il perseguire obiettivi di diversificazione territoriale sulla base del riparto di competenze vigente, come chiaramente è negli obiettivi quantomeno di Lombardia e Veneto. Nelle bozze di intesa circolate nel 2019 si ipotizzava anche la regionalizzazione di ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, ambiente, beni culturali di primario rilievo.

 

Con la riforma del Titolo V del 2001 fu infine cancellato l’”interesse nazionale” come limite generale nel riparto delle competenze. Questa decisione, a nostro avviso erronea, fu in parte lenita nel richiamo nell’articolo 120 all’unità giuridica ed economica della Repubblica. Esso però prevede solo poteri sostitutivi del governo: quindi per ipotesi quando il danno all’unità fosse in atto o fosse già avvenuto. È a nostro avviso opportuno un potere del Legislatore volto a prevenire danni all’unità del paese. 

 

Nella proposta è previsto come limite generale per la legge regionale l’interesse nazionale e delle altre regioni, così come una esplicita menzione dell’applicabilità della clausola di supremazia per le leggi regionali eventualmente adottate in attuazione dell’autonomia differenziata.

 

Non si tratta, a nostro avviso di una iniziativa velleitaria, di mera protesta. La presentazione di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (come previsto dall’art. 71 della Costituzione) non è destinata a restare senza effetto. Questo per due importanti ragioni. In primo luogo, una riforma del Regolamento del Senato del 2017 (art. 74) ha definito con maggiore precisione l’iter di un simile disegno di legge, di cui è assicurato l’approdo nel calendario di aula. Questo accresce la possibilità che le forze politiche e le rappresentanze parlamentari discutano del tema, prendano posizione; assumano responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica. 

 

Riguardo all’autonomia differenziata, questo è un obiettivo particolarmente importante, perché la maggior parte delle forze politiche non hanno sinora preso ufficialmente posizione. E perché i suoi sostenitori hanno sempre tentato di agire in silenzio, di derubricarla a questione tecnico-amministrativa; di sostenere che interessi solo i cittadini delle regioni coinvolte e non tutti gli Italiani.

 

Ad anni di distanza dai referendum consultivi tenutisi nel 2017 in Veneto e in Lombardia, e dell’avvio del tentativo di ottenere amplissime competenze aggiuntive, i cittadini italiani sono ancora pochissimo e male informati. Con poche eccezioni, il servizio pubblico radio-televisivo e la grande stampa non si sono occupati del tema, limitandosi talvolta a registrare piuttosto passivamente le opinioni dei Presidenti delle regioni coinvolte. Non è un caso che il Parlamento non ne abbia mai approfonditamente discusso, al di là di qualche audizione di esperti nelle Commissioni o di interrogazioni con le relative, rapide, risposte in Aula. Una discussione generale su un disegno di legge avrebbe ben altra importanza, e valenza informativa. 

 

Si ricordi che la più recente modifica costituzionale – quella relativa all’inserimento del riferimento all’”insularità” all’interno dell’articolo 119 è frutto dell’approvazione proprio di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare. 

 

I cittadini possono sottoscrivere la proposta anche telematicamente, grazie al possibile utilizzo della firma online, che si applica anche all’iniziativa legislativa popolare. Chi volesse firmare può agevolmente farlo tramite il sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it

 

Una proposta accompagnata da un elevato numero di firme, provenienti da tutte le aree del paese, avrebbe a nostro avviso maggiore forza.

POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

21/11/2022

da LEFT

Giulio Cavalli

 

Alcuni parlamentari della Lega in un un ddl hanno previsto un bonus fino a 20mila euro per i matrimoni religiosi. Poi, quando si scatenano le polemiche sull'ennesimo attacco alla laicità, arriva la retromarcia del governo. Un copione già visto

 

Priorità del governo: un bonus matrimonio fino a 20mila euro. Ma solo se ti sposi in chiesa. Chi opta per il Comune, zero. Fate attenzione, la famiglia per questo governo è solo tra uomo e donna, solo tra sposati (anche se i leader non sono sposati o lo sono più di volta) e solo se la cerimonia è officiata da un prete.

 

Come racconta Lorenzo De Cicco su Repubblica, «la proposta di legge è firmata da una sfilza di deputati: in testa il vice-capogruppo a Montecitorio, Domenico Furgiuele, poi il presidente della commissione Attività Produttive e Turismo, Alberto Gusmeroli, i parlamentari Simone Billi, Ingrid Bisa e Umberto Pretto. L’obiettivo dichiarato dell’operazione è riequilibrare il gap tra i matrimoni civili e religiosi. Secondo l’Istat, si legge nella parte introduttiva del provvedimento, le unioni con rito civile sono cresciute rispetto ai livelli pre-pandemia (+0,7 per cento nel 2021 sul 2019), mentre quelli con rito ecclesiastico continuano a calare. A sentire i deputati del Carroccio, le ragioni “che allontanano le giovani coppie dall’altare e che le portano a prendere in considerazione solo ed esclusivamente il matrimonio civile” sarebbero principalmente di natura economica: “Il matrimonio civile – sostengono – è di per sé una celebrazione meno onerosa rispetto al matrimonio religioso”. Ma avrebbero un peso anche le lungaggini procedurali delle parrocchie: “Molte coppie sono dubbiose sui corsi prematrimoniali, i quali hanno una finalità ben precisa e spesso sottovalutata: cercare di far capire alla coppia se si è realmente pronti nel prendere la decisione di sposarsi”. Ecco allora l’idea: un incentivo di Stato, solo per chi sceglie dei pronunciare il sì all’altare».

 

Quanto costerebbe tutto questo? 716 milioni di euro, cioè 143,2 milioni per le cinque quote annuali. Non si tratta solo della laicità calpestata delle Stato (a cui siamo abituati da tempo): qui siamo proprio all’odio per chi non bacia l’anello al suo parroco. Non c’è differenza con le più oscurantiste finte democrazie.

 

Poi accade una reazione che dice ancora di più la proposta. Ieri sera esce la notizia e dal governo si sbracciano per dire che no, che non è loro intenzione applicare una legge del genere, che si tratta solo di un’iniziativa personale di alcuni deputati. Esattamente come accaduto con le proposte di legge contro l’aborto, esattamente come avvenuto per le promesse stratosferiche di Salvini. Sempre così: si lancia il messaggio per vedere l’effetto che fa. Si sperimenta quanto si può osare utilizzando la stampa come termometro.

SANITA' ED AMBIENTE 

 

19/11/2022

da Contropiano

 

In mente viene subito quello striscione sotto il Ministero della Salute che diceva: “Il virus non vi ha insegnato niente”. Eppure mentre la pandemia di Covid ha drammaticamente rivelato la totale vulnerabilità e debolezza della salute sul territorio, i dati che emergono dimostrano che sulla sanità ben tre governi coinvolti (Conte, Draghi, Meloni) hanno fatto o continuano a fare i finti tonti sulla pelle delle persone.

 

“Una ‘emorragia’ di 45.000 medici in 5 anni: è quella che si determinerà in Italia per effetto dei pensionamenti e che riguarderà sia i medici di famiglia sia i medici del Servizio sanitario nazionale” scrive l’Ansa resocontando dell’allarme lanciato dalla Federazione dei Medici di Medicina Generale (Fimmg).

 

C’è allarme oggi ma se non si corre ai ripari le cose sono destinate a peggiorare.

 

Nel 2028, infatti, si prevede che saranno andati in pensione 33.392 medici di base e 47.284 medici ospedalieri, per un totale di 80.676 medici in meno nella sanità pubblica, sia nel territorio che negli ospedali.

 

Non solo. L’anno ‘nero’, che registrerà il picco delle uscite, per i medici di famiglia è proprio il 2022: solo quest’anno andranno in pensione 3.902 medici di base. Sicilia, Lombardia, Campania e Lazio le regioni che registreranno, sia nel breve sia nel lungo periodo, le maggiori sofferenze.

 

Il dato grave, rilevano le organizzazioni dei medici, è anche un altro: le uscite stimate per effetto dei pensionamenti non saranno comunque bilanciate dalle presumibili nuove assunzioni.

 

Per i medici di base, infatti, le borse per il corso di formazione in medicina generale messe a disposizione a oggi sono solo 1.100 l’anno e se il numero rimarrà costante, afferma la Fimmg, ad essere ‘rimpiazzati’, al 2028, saranno non più di 11mila medici, mantenendo così un saldo in negativo a quella data di oltre 22mila unità.

 

Ma un dato allarmante è quello che riguarda anche la salute dei più piccoli. Infatti nonostante il crollo demografico, con meno di 400mila nati nel 2021, in Italia mancano all’appello sui territori ben 1.400 pediatri di base. La media di bambini under 14 assistiti per pediatra è pari a 883, nonostante vi sia un limite stabilito per legge che prevede un massimo di 800 assistiti per pediatra. A metterlo in evidenza è la XIII edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, presentato a Roma.

 

L’Atlante è realizzato da Save the Children, fotografa anche quest’anno le condizioni di vita di bambini, bambine e adolescenti nel nostro Paese.

 

Il rapporto sottolinea come nella ripartizione dei fondi pubblici per la salute, solo il 12% sia impiegato nella prevenzione e nella medicina di base “che sono invece fondamentali per la salute dei bambini nel medio e lungo periodo”. La quota principale (44%) è impiegata per l’assistenza ospedaliera, ma solo il 6% di queste risorse sono destinate ai minorenni, a fronte di una percentuale di questi sul totale della popolazione del 15,6%, e nel 2020 i posti letto in degenza ordinaria nei reparti pediatrici erano solo il 4,1% del totale.

 

Eppure, come dimostra l’analisi pubblicata sulla sanità , nonostante la drammatica esperienza della pandemia, il governo continua il percorso di destrutturazione. E’ proprio vero, “il virus non vi ha insegnato nulla”.

POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

17/11/2022

da Repubblica 

 

Infanzia, Save the children: 4 anni in meno di vita se si nasce al Sud

 

Presentati ieri  i dati di 'Atlante dell'Infanzia a rischio in Italia', diffuso  in vista della Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'Adolescenza del 20 novembre. Disuguaglianze e povertà incidono sulla salute dei bambini

 

Povertà e disuguaglianze, soprattutto dopo la pandemia, incidono sulla salute e sul benessere psicologico dei minori in Italia: un bambino che nasce a Caltanissetta ha 3,7 anni in meno di aspettativa di vita rispetto a chi è nato a Firenze e la speranza di vita in buona salute segna un divario di oltre 12 anni tra Calabria e provincia di Bolzano. Tra le bambine la forbice è ancora più ampia, 15 anni in meno in Calabria rispetto al Trentino. E' l'allarme lanciato da Save The Children presentando la XIII edizione dell'Atlante dell'Infanzia a rischio in Italia 2022.

 

1,4 milioni di minori in povertà assoluta

 

In Italia sono quasi 1 milione e 400 mila i minori in povertà assoluta e sono "poveri anche di salute". Le bambine, i bambini e gli adolescenti colpiti dalle disuguaglianze socioeconomiche, educative e territoriali,  "ne subiscono l'impatto anche sulla salute e il benessere psico-fisico"  dice Save The Children e lo fa attraverso l'Atlante dell'Infanzia a rischio in Italia, diffuso oggi in vista della Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'Adolescenza del 20 novembre, che quest'anno ha il titolo "Come stai?" perché "prova ad esplorare - spiega l'organizzazione - la salute dei bambini dal momento della nascita fino all'età adulta".

 

Un bambino su 4 non pratica sport

 

Per i bambini del 2021,  evidenzia l'organizzazione, l'aspettativa di vita in buona salute è di 67,2 anni se sono nati nella provincia di Bolzano, ma di solo di 54,4 anni se sono nati in Calabria, con una differenza di più di 12 anni. Tanti i dati contenuti nel volume come quello che l'81,9% dei bambini vive in zone inquinate dalle polveri sottili o il  35,2% dei bambini e il 33,7% delle bambine nella fascia 3-10 è in sovrappeso o obeso. Anche perchè un  bambino su 4 non pratica sport. Ed ancora che la povertà alimentare colpisce un bambino su 20 ma la mensa scolastica non è ancora un servizio essenziale gratuito per tutti i bambini dai 3 e i 10 anni.

 

Mancano i pediatri

 

La rete sanitaria territoriale - ricorda Save the Children - è insufficiente,  mancano infatti 1400 pediatri ed è crollato il numero dei consultori familiari. Gli effetti peggiorativi della pandemia sono evidenti anche nel crescente disagio mentale di preadolescenti e adolescenti. In 9 regioni italiane oggetto di monitoraggio, i ricoveri per patologia neuropsichiatrica infantile sono cresciuti del 39,5% tra il 2019 e il 2021 (prime due cause, psicosi e disturbi del comportamento alimentare), mentre in tutto il Paese si contano solo 394 posti letto in degenza in questi reparti. Ci sono regioni che non ne hanno neanche uno, come Calabria, Molise, Umbria e Valle d'Aosta, in Lombardia sono 100. Ma è molto grave anche l'assenza o la carenza di strutture semiresidenziali e centri diurni.

 

A picco la prevenzione

 

Solo il 12% della spesa pubblica per la salute, viene puntualizzato, è impegnato nella prevenzione e nella medicina di base. La quota principale (44%) è impiegata per l'assistenza ospedaliera, ma solo il 6% di queste risorse sono destinate ai minorenni. Nel biennio 2020-21, per esempio, - mette in evidenza Save The Children - le vaccinazioni nei primi mesi di vita hanno subito una significativa riduzione, e si è verificata una contrazione drastica delle diagnosi di tumore pediatrico che si sono ridotte del 33% e nel 2020 e in molte regioni alcune malattie anche gravissime sono ancora escluse dagli screening neonatali.

POLITICA ESTERA

 

16/11/2022

da Contropiano

 

Missili esplosi al confine Polaco.Mosca parla di “provocazione”. Compromessi gli spiragli di trattativa

 

Due missili sarebbero caduti sul territorio della Polonia nella regione di Lublino al confine con l’Ucraina uccidendo due persone. Secondo le autorità polacche si tratta di missili russi. Il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, ha già convocato una riunione urgente del Comitato del Consiglio dei ministri per la sicurezza e la difesa nazionale, come confermato dal portavoce del governo Piotr Muller su Twitter.

 

I vigili del fuoco hanno confermato in precedenza che ci sono state esplosioni a Przewodów nella regione di Lublino, ha riferito il portavoce del quartier generale distrettuale dei Vigili del fuoco statali a Hrubieszów, Marcin Lebiedowicz chiarendo che era arrivata una segnalazione di un’esplosione in essiccatoio di grano. “Due persone sono morte sul colpo. Al momento stiamo mettendo in sicurezza la scena e illuminando l’area d’azione”. Tra le ipotesi al vaglio dei mass media polacchi, in un clima sicuramente teso e caotico, c’è quella di missili russi intercettati e deviati dalla difesa ucraina.

 

A seguito della caduta di missili ritenuti russi in territorio polacco, la Nato esaminerà l’opportunità di una risposta come prevede l’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico siglato nel 1949. La reazione all’attacco non è automatica, anche se ne viene legittimata, “Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso”, scrive l’articolo 5, “saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza della Nato. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”.

 

Il ministero della Difesa russo, in una nota resa pubblica dalla Ria Novosti ha affermato che: “Le dichiarazioni dei media e dei funzionari polacchi sulla presunta caduta di missili” russi “nell’area dell’insediamento di Przewoduv sono una deliberata provocazione al fine di aggravare la situazione. Non sono stati effettuati attacchi contro obiettivi vicino all’Ucraina e al confine di stato polacco con mezzi di distruzione russi”, ha affermato il ministero.

 

Un portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha dichiarato che gli Stati Uniti stanno lavorando con il governo polacco per raccogliere maggiori informazioni e non sono in grado di confermare i rapporti o altri dettagli. “Determineremo cosa è successo e quali sarebbero i prossimi passi appropriati”, ha detto il portavoce.

 

Una posizione analoga è stata espressa dal portavoce del Pentagono, il gen. Patrick Ryder. “Siamo a conoscenza dei resoconti della stampa secondo cui due missili russi hanno colpito una località all’interno della Polonia o al confine con l’Ucraina”, ha detto il portavoce del Pentagono. “Non abbiamo informazioni in questo momento per confermare che ci sia stato un attacco missilistico”, ha detto Ryder ai giornalisti, aggiungendo che il Pentagono “sta esaminando ulteriormente la questione”.

 

Nella giornata di oggi molte città e regioni ucraine sono state prese di mira da missili russi: Kyiv, Kharkiv, Lviv, Mykolaiv, Kryvyi Rih, la regione di Poltava, Chernihiv, Sumy, Rivne, la regione di Khmelnytskyi e la regione di Vinnytsia. Zelensky ha detto che la Russia ha lanciato circa 85 missili, principalmente contro le infrastrutture energetiche. Ma nessuno dei missili lanciati oggi risultava aver colpito zone al confine della Polonia, neanche quelli che hanno colpito Lviv (Leopoli) che pure è la città ucraina più occidentale e vicina al confine polacco.

 

Ad alzare ancora di più la tensione nella regione, durante il pomeriggio le autorità di Kiev avevano comunicato alla società russa Transneft che il flusso del petrolio verso l’Ungheria tramite l’oleodotto Druzhba, che transita attraverso  l’Ucraina, era stato temporaneamente sospeso a causa della caduta della pressione. Il governo ungherese ha convocato il Consiglio di Difesa per discutere dell’emergenza energetica che questo può provocare al paese.

 

E’ doveroso rammentare, e con qualche brivido lungo la schiena,  che un incidente al confine con la Polonia, in quel caso a Gleiwitz (l’attuale Gliwice) il 31 agosto 1939, fu il casus belli per la Seconda Guerra Mondiale. E’ appurato che si trattò di una operazione false flag della Germania nazista per avere il pretesto di invadere la Polonia.

 

In questi giorni in molti avevano colto finalmente segnali e spiragli per raggiungere un cessate il fuoco e l’avvio di un negoziato tra Ucraina e Russia. Un “incidente di frontiera” con un paese Nato, anzi con uno dei maggiori paesi bellicisti europei della Nato, è destinato a chiudere brutalmente questi spiragli e diradare questi segnali. Come dire, è una mano santa per chi vuole continuare la guerra contro la Russia. Ragione per cui l’odore di una operazione false flag è fortissimo. Ci auguriamo di essere smentiti, ma il problema è che gli incidenti alla frontiera della Polonia sono sempre stati fonte di tragedia per l’Europa.

POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

15/11/2022

da Left

Giulio Cavalli

 

Il governo Meloni vuole riprendere le trivellazioni in Adriatico ancora più vicino alla costa. Invece di puntare sulle fonti rinnovabili, si rilancia lo sfruttamento ed il consumo del gas naturale, denuncia il Coordinamento nazionale No Triv

 

Il Coordinamento nazionale No Triv (a cui aderiscono centinaia di associazioni di tutta Italia) prova a spiegare perché la decisione del governo non abbia senso.

 

«Con un emendamento al Dl Aiuti-Ter approvato il 4 novembre il governo Meloni rompe il muro delle 12 miglia consentendo nuove trivellazioni in Adriatico anche fino alla distanza di 9 miglia marina dalle linee di costa. Viene così meno il divieto di nuove attività di ricerca e coltivazione di gas che, fatte salve alcune eccezioni, era stato introdotto nella Legge di stabilità 2016 modificando il precedente articolo 6, comma 17, del Decreto legislativo 152/2006, sulla spinta della campagna referendaria No Triv.

 

L’area marina interessata, posta al largo del Delta del Po e vasta 126 chilometri quadrati, è compresa tra il 45° parallelo, poco più a sud del golfo di Venezia, e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro nel fiume Po. Qui si potrà quindi trivellare anche a solo 9 miglia dalla costa a condizione che si sfruttino giacimenti con un potenziale minerario di almeno 500 milioni di metri cubi: un vero incubo per i residenti ed i Comuni del Polesine, più volte duramente colpiti dal fenomeno della subsidenza.

 

Nella relazione illustrativa del provvedimento si citano ben 5 permessi di ricerca che insistono parzialmente o integralmente in quest’area e di questi, uno riguarda la costa veneta, con il 40% dell’area interessata oltre le 9 miglia e, quindi, potenzialmente coltivabile.

 

Obiettivo dichiarato del governo è riammettere a produzione le concessioni presenti in Adriatico fino ad esaurimento dei giacimenti senza tuttavia considerare che parte di quelle concessioni è scaduta e che le concessioni hanno comunque una durata ben definita che prescinde dall’esaurimento o meno del giacimento.

 

L’emendamento approvato nel Consiglio dei ministri introduce pesanti deroghe al Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai): estende la misura prevista per l’area marina al largo del Delta del Po a tutte le aree marine, consentendo quindi il rilascio di concessioni per la coltivazione di gas anche tra le 9 e le 12 miglia marine per giacimenti con un potenziale superiore ai 500 milioni di metri cubi; inoltre prevedendo attività di ricerca e di estrazione di gas in alcune aree interdette, ma non ancora individuate, dal Pitesai.

 

L’insieme delle misure varate dall’esecutivo dovrebbe consentire di ottenere in 10 anni 15 miliardi di metri cubi di gas, di cui 2 subito, che andrebbero ad aggiungersi agli attuali 3,5.

 

Negli intendimenti del governo la misura ha lo scopo di mettere a disposizione di un numero imprecisato di imprese gasivore italiane -si stima possano essere 150- gas naturale ad un prezzo calmierato, quindi inferiore a quello ancorato all’indice Tff di Amsterdam.

 

La procedura scelta è simile a quella definita del Decreto legge n. 17 del 2022, approvato dal governo Draghi: sarà il Gruppo Gse a raccogliere le eventuali manifestazioni di interesse provenienti dalle compagnie Oil&Gas titolari delle concessioni e a stipulare contratti di fornitura di durata decennale ad un prezzo, che verrà fissato con decreto, compreso tra un minimo di 50 euro ed un massimo di 100 euro per megawattora.

 

La scelta di Meloni e della maggioranza che la sostiene, al tempo del Referendum del 2016 contraria a nuove attività estrattive in mare entro le 12 miglia marine, mostra limiti evidenti: non incide sulle cause strutturali del caro-energia che sta colpendo duramente tutte le imprese (non solo quelle gasivore) e le famiglie; premia i principali player dell’Oil&Gas – Eni tra tutti – che hanno tratto enormi profitti grazie alla crisi; promuove l’estrazione ed il consumo di gas naturale assestando un duro colpo alla transizione energetica.

 

Le cause del caro energia sono ormai note da tempo: mix energetico delle fonti di generazione elettrica sbilanciato a favore del gas, meccanismo di formazione del prezzo sulla borsa del gas e sulla borsa elettrica, ecc.. In particolare, il prezzo del gas risente fortemente delle manovre speculative di pochi operatori che, facendo cartello, determinano l’andamento della borsa di Amsterdam.

 

Paradossalmente, a beneficiare della misura saranno soprattutto coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalla crisi energetica. La maggior parte delle concessioni fanno capo a Eni, la stessa che nei primi 9 mesi del 2022 ha portato a casa utili per 10,8 miliardi di euro. Come? L’Eni, che importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), a prezzi blindati e secretati dallo Stato, espressi sostanzialmente dai prezzi doganali. Il prezzo di riferimento per le sue vendite di gas a terzi è però quello spot-Psv (Ttf). Il differenziale tra prezzo spot-Psv (Ttf) e prezzo doganale fa sì che Eni, al pari di altri operatori, tragga profitto dal caro-gas.

 

La linea estrattivista dettata da Meloni risponde in modo errato ad un problema reale ed incentiva l’estrazione di modesti quantitativi di gas “nazionale” rallentando la già lenta transizione energetica in atto nel nostro Paese. Piuttosto che spingere sulle leve dell’efficienza e delle rinnovabili, il governo rilancia lo sfruttamento ed il consumo del gas naturale, rendendo ancor più dipendente famiglie ed imprese da una fonte energetica di cui il nostro Paese è povero.

 

Le riserve di gas accertate dal Mite al 31/12/2021, tra certe, probabili e possibili, ammontano a 111.075 miliardi metri cubi ma la concreta possibilità di sfruttamento riguarda soltanto 70/80 di essi. Premesso che, secondo dati Arera, nel 2021 i consumi di gas naturale hanno toccato quota 74 miliardi di metri cubi, le riserve nazionali di gas concretamente disponibili potrebbero far fronte alla domanda interna per 12 mesi o poco più.

 

Si tratta di quantità non disponibili tutte e subito e, comunque, non rinnovabili una volta esaurite. I freddi numeri ci dicono quindi che “sovranità energetica” e “nuove estrazioni di gas nazionale” sono un ossimoro e che l’approccio del governo è dettato da una visione ideologica.

 

Ma non è tutto. Il nuovo mix energetico voluto da Meloni avrà immediate ricadute in termini di mancato rispetto degli obiettivi climatici ed ambientali che l’Italia si è impegnata a rispettare in sede internazionale. Ne consegue che anche il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) ed il Pnrr, che si riconnette al primo, dovranno essere riscritti. C’è da stupirsi, a questo punto, che in sede Cop 27 Meloni chieda di rallentare l’uscita dalle fonti fossili?

 

In un quadro di così lucida coerenza “fossile” non deve parimenti stupire che il governo non abbia inserito nell’ordine del giorno della seduta del 4 novembre l’approvazione delle norme attuative sulle Comunità energetiche rinnovabili e le linee-guida per identificare le aree idonee su cui installare impianti fotovoltaici, misure attese da mesi e che potrebbero consentire la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica in un Paese, come il nostro, “baciato dal sole” come pochi altri ma in cui metà della produzione di energia elettrica dipende dal gas.

 

Meloni e la sua maggioranza hanno, evidentemente, ben altre priorità».

 

Nella foto. frame di un video sulle azioni di protesta di Greenpeace in Adriatico nel 2018

SANITA' ED AMBIENTE   

 

12/11/2022

USB Sanità

 

USB verso lo sciopero generale del 2 e manifestazione nazionale del 3 dicembre per chiedere investimenti, assunzioni e stabilizzazioni

 

Nonostante la pandemia sia tutt'altro che finita si torna, come ampiamente previsto, a ridurre il finanziamento per il fondo sanitario nazionale pur a fronte di stime di crescita costante del PIL. Nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza appena licenziato, la spesa sanitaria, infatti, tornerà a ridursi in termini assoluti e in percentuale al PIL fino al 2024, per trovare una sorta di stabilizzazione al ribasso solamente nell’anno successivo. Inoltre la spesa corrente, che pur registra un lieve aumento nel triennio 2023-2025, si dimostra ampiamente insufficiente a coprire il rialzo dell’inflazione ed a compensare le maggiori spese energetiche.

 

Si sta quindi rapidamente andando verso un ulteriore sottrazione di risorse alla sanità pubblica che potrebbe rappresentare - data la cronica mancanza di personale sanitario causata da un decennio di tagli lineari, dalla difficoltà attuale nel reperirlo a causa di stipendi non adeguati e di pessime condizioni di lavoro e dall’impossibilità di continuare a garantire l’erogazione dei servizi e delle prestazioni - il capolinea del servizio sanitario pubblico e universale così come lo conosciamo.

 

Previsioni fosche che confermano quanto sia stata effimera la considerazione della quale ha goduto la sanità pubblica durante la pandemia e di quanto siano state volatili le promesse di un suo rafforzamento strutturale e, calato per scelta politica il sipario sull’emergenza Covid, la sanità è tornata ad essere la maglia nera delle priorità del governo attuale come lo è stata degli altri che lo hanno preceduto.

 

Dopo un decennio nel quale la scure dei tagli si è abbattuta con violenza sulla sanità e sul diritto alla salute dei cittadini si è raggiunto un limite del quale non dobbiamo consentire il superamento pena l’eutanasia del servizio sanitario nazionale e con lo sciopero generale del 2 dicembre e la successiva manifestazione nazionale del 3 anche le lavoratrici ed i lavoratori della sanità saranno chiamati a scendere in piazza per invertire la rotta e per chiedere investimenti, assunzioni e stabilizzazioni.

 

POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

11/11/2022

da Contropiano

di Dante Barontini

 

Il governo Meloni annaspa sui naufraghi.Un grande affare, veramente!

 

Ci sarebbe da essere contenti di aver capito i problemi che questo governo avrebbe incontrato se avesse provato a fare quel che le forze che lo compongono avevano variamente promesso in campagna elettorale. Ma dobbiamo ammettere che la velocità con cui accumula figuracce sul piano interno e internazionale è veramente sorprendente.

 

La polemica con la Francia sui profughi prima bloccati, poi “selezionati” e infine fatti scendere tutti a terra, a Catania, fa infatti dubitare che i “nuovi padroni” di Palazzo Chigi siano nel pieno possesso delle proprie facoltà.

 

Di fronte allo spettacolo ignobile nel porto siciliano, giovedì la Francia ha annunciato che avrebbe accolto nel porto di Tolone la nave Ocean Viking, della ong SOS Mediterranée, con a bordo 234 persone migranti, cui il governo di Giorgia Meloni aveva impedito l’attracco in Italia.

 

I Salvini et similia aveva subito gridato alla vittoria (“è finita la pacchia”, o qualcosa di simile), salvo dover incassare subito dopo un colpo da ko: “La Francia sospende l’insieme delle redistribuzioni dei 3500 rifugiati a beneficio dell’Italia e chiama tutti gli altri partecipanti al meccanismo europeo, soprattutto la Germania, a fare altrettanto“.

 

Così il ministro dell’Interno francese, Darmanin, dopo aver annunciato l’intenzione di non procedere alla prevista rilocalizzazione dei rifugiati dall’Italia entro il 2023, ha esortato gli altri Paesi partecipanti al meccanismo a fare lo stesso.

 

In pratica, una chiamata a tutta l’Unione Europea, che ovviamente ha subito risposto. Nel soccorso ai naufraghi, secondo i trattati, il criterio prevalente è territoriale, comprese le acque territoriali, e non quello della bandiera battuta dalle navi (una delle tante “invenzioni creative” che questo governo ha sciorinato nelle interviste). 

 

«I cittadini di Paesi terzi presenti sul territorio, incluse le acque territoriali – ha puntualizzato una portavoce della Commissione Ue – possono fare domanda di asilo e, in quel caso, è richiesto agli Stati membri di dare effettivo accesso alle procedure d’asilo. Abbiamo un chiaro quadro giuridico in vigore».

 

Neanche la Francia è un paese particolarmente “accogliente”, anzi, e le scene alla frontiera di Ventimiglia o nell’alta Val Susa hanno fatto negli anni il giro del mondo. Proprio in queste ore, a conferma della “linea dura”, Parigi sta schierando altri 500 poliziotti al confine con l’Italia, per impedire che vengano fatti passare immigrati “di straforo”, fuori dagli accordi internazionali.

 

E’ qui che il governo Meloni ha pestato l’ennesima mina (o qualcosa di più puzzolente) per pura volontà di farsi facile propaganda sulla pelle di pochi disperati raccolti in mezzo al mare.

 

Tra i paesi dell’Unione Europea, infatti, esistono già numerosi accordi che regolano sia “il contrasto all’immigrazione clandestina” che i mezzi militari con cui questo obiettivo viene perseguito.

 

Frontex è di fatto l’agenzia che unifica l’azione delle Guardie costiere nazionali, pianifica i rimpatri forzati di quanti – comunque entrati in territorio europeo – non “meritano” l’accoglienza o la qualifica di “rifugiato politico”, nonché la redistribuzione dei profughi tra i vari paesi membri.

 

Un meccanismo infernale, spesso assolutamente disumano, ma comunque frutto delle trattative tra i diversi Stati e dunque imperativo per ognuno di essi. Italia compresa.

 

Ricordiamo anche che dal momento dell’insediamento del governo Meloni sono stati raccolte in mare poco più di 9.000 persone. Quasi tutte dalle navi militari del Frontex, e appena poco più di 800 dalle quattro navi Ong su cui si è concentrata l’offensiva mediatica della destra al governo.

 

Il che è già “curioso”, diciamo così… Sono tutti “immigrati”, no? E tutti salvati dal naufragio. A prescindere dal fatto che i salvataggi siano stati effettuati da navi militari oppure delle Ong, oppure ancora da navi commerciali o pescherecci di passaggio (le leggi internazionali, e soprattutto la “legge del mare” obbliga chiunque a salvare chiunque sia in difficoltà), i salvati vanno trattati secondo le stesse regole stabilite dagli accordi europei che l’Italia ha sottoscritto.

 

Perché dunque sparare in prima pagina la pagliuzza del “carico residuale” delle navi umanitarie e fare silenzio assoluto sulla trave di Frontex?

 

Per un banale calcolo elettoralistico, anche se si è appena votato. Qualcuno – e non solo Salvini – pensa che blaterare di “immigranti clandestini” sia utile a far passare sotto traccia provvedimenti economici in piena continuità con il governo Draghi e tutti quelli che li hanno preceduti (alla faccia della “discontinuità”).

 

E’ un po’ quello che avevamo visto già prima del voto. Un governo “euro-atlantico” come tutti gli altri sulle questioni fondamentali (guerra e sanzioni contro la Russia, rispetto assoluto del Pnrr e dei vincoli europei), ma “fieramente nazionalista” sulle questioni ritenute minori perché “non costose”, come i diritti civili e, appunto, i migranti.

 

La stolidità clamorosa dei nuovi governanti però si vede proprio da questa illusione di “sovranità limitata”: anche queste “questioncelle” sono infatti già ampiamente regolate da trattati in vigore da anni. E dunque infrangerli comporta un prezzo politico, più o meno alto.

 

Sarebbe comprensibile – e nel breve periodo costosissimo – “rompere i trattati” sulle questioni centrali per la vita delle classi popolari (quelli che regolano le politiche di bilancio e fiscali, la spesa pubblica e le “riforme” dettate da Bruxelles, ecc), ma per farlo occorre avere una strategia e obiettivi davvero alternativi. Ossia che disegnino un altro “sistema”, in aperto contrasto con il neoliberismo euro-atlantico, per cambiare modo di vivere e produrre.

 

Ma a che serve maramaldeggiare su qualche centinaio di naufraghi se non a farsi trovare col cerino in mano da tutta la presunta “comunità” (europea) di cui ci si è dichiarati il giorno prima “fieri di appartenere”?

 

Vediamo il risultato di questo scontro con la Francia (per ora): Parigi accoglie i 234 naufraghi a bordo della Ocean Viking, anche se fuori dalle procedure dell’accordo Frontex. Ma rifiuta di prendere i prossimi 3.500, provenienti dall’Italia, che andavano redistribuiti secondo quell’accordo.

 

E soprattutto chiama tutta l’Unione Europea a fare altrettanto.

 

Un grande affare, veramente!

 

Come vedete, ci siamo astenuti da ogni considerazione morale e politica di alto profilo. Ci siamo limitati a “calcolare” vantaggi e svantaggi delle mosse del governo Meloni sul terreno che aveva scelto.

 

Trovando inevitabilmente conferma di quella sentenza storica definitiva: i reazionari sono degli imbecilli che alzano una pietra al cielo per farsela ricadere sui piedi…

POLITICA NAZIONALE | POLITICA ITALIANA

 

09/11/2022

da USB

 

Il 3 dicembre tutte/i a Roma per la manifestazione nazionale contro la guerra e il carovita: “Giù le armi, su i salari”

 

Il governo Meloni ci sta trascinando sempre più dentro una spirale di guerra dagli esiti imprevedibili. L’Italia è evidentemente un paese belligerante e attivo nel conflitto, nonostante la grande maggioranza della popolazione sia contraria alla guerra e al conseguente forte aumento delle spese militari.

 

Per sostenere queste ultime, ci si chiede di aderire a una economia di guerra che si colloca in piena continuità con l’operato del precedente governo Draghi, e più in generale con tutti gli esecutivi che in questi anni ci hanno chiesto di pagare con l’austerità i costi di crisi che non abbiamo creato né voluto. Mentre i salari, le pensioni, i redditi da lavoro e gli ammortizzatori sociali sono al palo da anni, il fortissimo aumento dei prezzi per tutti i beni e servizi essenziali produce un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita. Ormai arrivare a metà del mese è un problema, altro che alla fine...

 

E in questo contesto è inaccettabile che la gran parte dei sostegni vada alle grandi imprese! Altro che flat tax, taglio del cuneo fiscale, cancellazione del reddito di cittadinanza e riduzione dei servizi pubblici, controriforma della scuola e ulteriore taglio della sanità pubblica: serve che si colpiscano i grandi profitti e i patrimoni accumulati per decenni.

 

Le risorse ci sono, come dimostra la vicenda dei 40 miliardi di extraprofitti ottenuti con la speculazione sul prezzo del gas, e vanno messe a disposizione di salari, pensioni e per aumentare il reddito degli strati sociali più colpiti dalla crisi, in primis i precari e i disoccupati.

 

Anche le promesse avanzate nei mesi scorsi sul tema della conversione ecologica si sono tradotte in progetti di installazione di nuovi rigassificatori e inceneritori in diversi territori, utili al business dei soliti noti e non certo alla salvaguardia dell'ambiente. Si ricomincia a parlare di grandi opere inutili (come il Ponte sullo stretto), mentre scuole, università, strutture sanitarie, territori stravolti dal dissesto idrogeologico, dal cambiamento climatico e dalla speculazione cadono e franano letteralmente in testa alle persone che li attraversano.

 

In poche settimane, il nuovo governo ha già pienamente svelato la propria natura reazionaria, con l'attacco ai diritti e alle agibilità democratiche, la criminalizzazione degli immigrati e un'ulteriore inasprimento della repressione del conflitto sociale e sindacale, come dimostra l'introduzione nel codice penale del reato di “occupazione abusiva e raduni illegali” che rafforza e generalizza le norme repressive già esistenti.

 

Dai posti di lavoro alle scuole e alle università; dai movimenti per la difesa dell'ambiente alle realtà sociali e sindacali indipendenti e conflittuali: è ora di dire basta!

 

Sabato 3 dicembre alle ore 14 - Roma – p.zza della Repubblica -  Manifestazione nazionale

 

Si Cobas – Unione Sindacale di Base – Sindacato Generale di Base – Confederazione Unitaria di Base - Movimento di lotta disoccupati 7 novembre - Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali – Movimento per il diritto all'abitare - Prendiamo Casa Cosenza - Genova City Strike - Perugia Solidale - Cambiare Rotta organizzazione giovanile comunista - Laboratorio politico Iskra - Osservatorio Repressione – Opposizione Studentesca d’Alternativa - Potere al Popolo – DemA – ManifestA - Partito della Rifondazione Comunista - Unione Popolare - Fronte della Gioventù Comunista – Rete dei Comunisti - Fronte Comunista - Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria – PLAT Piattaforma di Intervento Sociale – Collettivo Militant – Casa del Popolo Teramo - Centro sociale Intifada – Dazebao Centocelle – Operatori Sociali Autorganizzati Perugia - Spazio Catai Padova - Centro Internazionale Crocevia - Centro sociale Nuvola Rossa (Rc) – Spazio Pueblo (Cava de’ Tirreni) – Collettivo No al Fossile Civitavecchia – Comitati contro il rigassificatore di Piombino – FIR La voce delle lotte

 

POLITICA NAZIONALE |  POLITICA ITALIANA

 

07/11/2022

da Left

Giulio Cavalli

 

Le bestie sono sulla terraferma

 

Le persone salvate in mare dalla nave Humanity a Catania sono sottoposte allo “sbarco selettivo”: per salute, genere ed età. E gli altri naufraghi? In 35 sono costretti a restare a bordo, li chiamano “carico residuale”

 

Lo chiamano “sbarco selettivo” ma è bestiale razzismo. Scegliere chi far sbarcare a Catania in base a «salute, genere ed età», come spiega Petra Krischok, tuttora a bordo della nave Humanity, e portavoce di Sos Humanity non è solo contrario a qualsiasi legge ma è una selezione di “degni e non degni” tra i disperati. Se non sono disperati, come credono questi al governo, allora non si capisce perché non mandarli indietro tutti.

 

«I naufraghi sono sfiniti», sottolinea a LaPresse la Ong, facendo presente che uno di loro ha avuto un esaurimento nervoso. E Sos Humanity avverte: «Non ci è stato chiesto di partire, noi restiamo nel porto e abbiamo intenzione di sbarcare anche gli altri 35 naufraghi ancora a bordo». Intanto la procura di Catania ha aperto un’inchiesta sulla possibile presenza di scafisti su nave: le indagini della Squadra mobile mirano ad individuare eventuali componenti dell’equipaggio delle due barche soccorse dalla Ong nel Mediterraneo. “Carico residuale”, hanno chiamato gli altri. Come se fossero merci rispedite al mittente.

 

Intanto a Catania è arrivata la nave Geo Barents di Msf: la storia si ripete. A bordo ci sono 572 naufraghi, e secondo quanto riporta Candida Lobes di Msf, che è sulla nave, «ci sono donne incinte, bambini, la più piccola di 11 mesi, persone che hanno subìto ripetute violenze in Libia, e hanno bisogno di sbarcare in un posto sicuro».

 

A Meloni, Piantedosi e Salvini arrivano i complimenti di Orbàn e questo è un ottimo indizio per capire come l’europeismo mimato da Meloni fosse tutto uno schifoso bluff. A Orbàn piacerebbe anche sapere che ai giornalisti è stato impedito di assistere alle operazioni di sbarco e di soccorso. Ricardo Gutièrrez, segretario generale della Federazione europea dei giornalisti, fa sapere che «casi simili si sono verificati in Grecia, Polonia e Ungheria» e la giurisprudenza ha sempre «confermato il principio di libertà di accesso per i giornalisti, soprattutto se intervengono forze dell’ordine. Ciò che accade in Italia non mi pare normale».

 

Come fa notare la giurista Vitalba Azzollini «il ministro Piantedosi e gli altri firmatari del decreto pensano che per evitare l’accusa di respingimento, vietato dall’art. 33 Convenzione di Ginevra (e non solo), basti l’eufemismo “assicurare l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”? Il concetto è uguale». «Oltre il danno, la beffa. Persone rimandate in mezzo al mare, senza assistenza di traduttori, mediatori culturali, legali che spieghino loro come difendersi da questo respingimento, come possono fare ricorso al Tar? Una presa in giro. Svuotare il diritto di difesa: ecco fatto», spiega Azzollini.

 

Benvenuti nel governo Meloni.

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